Mario
non era la persona che si accontentava di vivere sereno dopo un
insuccesso. Diceva a se stesso, che lui, non era stato come molti
di coloro che lo deridevano, a San Giovanni in Fiore, nelle foreste
calabresi della Sila a fare el carbonàro.
In quel periodo, lui si
trovava nelle gelide montagne albanesi a combattere per difendere
l'Impero fascista, che stava andando a rotoli.
Sbucavano
fuori da tutte le parti i soldati greci e albanesi. Armati fino ai
denti con armi moderne automatiche, micidiali, facevano stragi sui nostri poveri soldati che cercavano di difendersi con vecchi fucili
della prima grande guerra.
Le
pallottole fischiavano sopra la testa. Una gli perforò la spalla
destra e lo gettò lontano. Fu la sua salvezza, perché nello
stesso istante, una bomba cadde sul sasso dietro al quale si proteggeva
assieme al suo più grande amico.
Erano
nati lo stesso mese, dello stesso anno, a pochi passi l'uno
dall'altro. Avevano
vissuto fino a quel momento sempre assieme come fratelli.
Schegge
di sasso e di bomba si sparsero tutto all'intorno ed un sapore acre
di fumo e di polvere investì l'aria. Si svegliò dopo tre
giorni nell'ospedale da campo, lontano dalle linee di
combattimento.
Quando
con grande apprensione, chiese notizie dell'amico, l'infermiere
prese un bicchiere, lo riempì a metà d'alcol, glielo tese: Toh,
bevi...
E
la guerra durò ancora qualche anno...
Evitò involontariamente la ”spedizione in Russia”.
Venne l'armistizio e la fuga a casa, la Todt e la fine della guerra. E la disoccupazione.
Evitò involontariamente la ”spedizione in Russia”.
Venne l'armistizio e la fuga a casa, la Todt e la fine della guerra. E la disoccupazione.
Per
vivere, a quei tempi, bisogna essere disposti a fare qualsiasi
lavoro, soprattutto quando vi erano tante piccole bocche da sfamare.
Fu per questa ragione che Mario si trovò nella “Longalaita”,
sotto le pendici del Cròyare, a fare il boscaiolo.
Lavoro
duro, difficile e pericoloso, ma non per lui che possedeva una forza
enorme che sapeva adoperare con intelligenza. Ed era soprattutto
curioso. Voleva pure lui imparare a fare il carbonaio. Stava attento
al minimo dettaglio nella preparazione “dell'aia” della
carbonara. Lo spazio doveva essere liscio, pulito, piano, con
terreno di preferenza sabbioso e permeabile. Il taglio della legna:
faggio, orno, carpine, frassino, rovere, doveva essere eseguito in “
luna calante”; di una lunghezza di ”un metro” ed essiccata
almeno per una quindicina di giorni. Quando una buona quantità di
legna era pronta, all'incirca trenta, quaranta e più quintali , la
si portava in cerchio intorno allo “spiazzo“ della carbonara.
Cominciava allora il lavoro del carbonaio: a seconda della quantità
della legna, si impiantava al centro un ”palo“ di dieci
centimetri di circonferenza e tre metri di altezza e tutt'attorno si
costruiva un castello di pezzettini di pino secchi di circa
venticinque centimetri.
Se la legna era tanta allora si mettevano ”tre pali” e tutto attorno si costruiva un castello con dei pezzi di legno di cinquanta centimetri. Attorno si mettevano i pezzi di legno più grossi e poi i più piccoli, fino a fare una cupola di circa due metri di altezza per sei, dieci metri di larghezza. Ai piedi, tutt'attorno, si costruiva una siepe di dieci centimetri di spessore per trenta di alto, con delle dase (rami) di abete per lasciar circolare l'aria dall'esterno all'interno, per assicurare la cottura. Sopra si copriva con uno strato di foglie coperte da terriccio. Si levava il palo o i pali centrali e nel vano che restava si gettavano delle braci ardenti al fine di innescare il fuoco all'interiore della carbonaia.
Se la legna era tanta allora si mettevano ”tre pali” e tutto attorno si costruiva un castello con dei pezzi di legno di cinquanta centimetri. Attorno si mettevano i pezzi di legno più grossi e poi i più piccoli, fino a fare una cupola di circa due metri di altezza per sei, dieci metri di larghezza. Ai piedi, tutt'attorno, si costruiva una siepe di dieci centimetri di spessore per trenta di alto, con delle dase (rami) di abete per lasciar circolare l'aria dall'esterno all'interno, per assicurare la cottura. Sopra si copriva con uno strato di foglie coperte da terriccio. Si levava il palo o i pali centrali e nel vano che restava si gettavano delle braci ardenti al fine di innescare il fuoco all'interiore della carbonaia.
Iniziava
in questo momento la fase più delicata del lavoro. Per circa sei
giorni e
sette notti che necessita la cottura, la sorveglianza deve essere
di tutti gli istanti, e la bravura del carbonaio era saper dosare il
calore del fuoco, per la giusta combustione. Più la carbonaia
bruciava lenta, più il carbone riusciva meglio. Solo che un uomo
solo non poteva restare sette notti senza dormire con l'odore
nauseabondo del fumo e l'enorme calore (circa cinquecento gradi)
sprigionato dalla legna...
Per fortuna nella squadra c'erano operai che conoscevano un po' il mestiere e sostituivano per qualche ora con sicurezza il capo.
Per fortuna nella squadra c'erano operai che conoscevano un po' il mestiere e sostituivano per qualche ora con sicurezza il capo.
Mario,
il più giovane ed il più aitante, non si stimò da meno e si
offrì pure lui a vigilare una notte. Il carbonaio lo guardò con un
po' di diffidenza, non perché non lo stimasse, al contrario, era
il suo beniamino, ma sapeva quanto era difficile di notte, restare
sveglio con il caldo che sprigionava la carbonaia, obbligato com'eri, di girare attorno per aprire un respiro d'aria qui, chiuderne un
altro là...
Non
dormì tanto quella notte là, il carbonaio! Si alzò d'un tratto
e corse verso la carbonaia. Sentiva da lontano uno strano odore. ”Mario, Mario,” gridò, “acqua, acqua”. Mario, che si era
addormentato in piedi, si destò di soprassalto e cominciò a portare
acqua. Riuscirono a limitare i danni. Mario, lui, non riusciva a
perdonarsi d'essersi lasciato prendere dal sonno... Ma valà cossa
vutu che sia, mi quela volta... e ben alòra cossa dovarìa dire
mi, che presto me brusàvo... e tutti la loro... per consolarlo... e
a lui questo faceva ancora più male. Ma cosa credevano questi... che
lui, Mario, fosse come loro?
Rimuginava
in se stesso, in quale maniera poteva rifarsi. Venne il momento.
Finito di fare l'ultimo carbone la maggior parte della squadra se ne
andò.
Rimasero solamente loro tre. Bisognava demolire le carbonare ed erano parecchie,
qua e là, pulire e rimettere in sesto il bosco.
Mario
non volle che si toccasse la carbonara vicino al “baito”, no,
quella doveva restare. ”Voi cominciate pure qui, io me ne vado
lassù in cima”.
Prese
pala, picco, ”menaròto e cordicele“, partì fischiettando.
Cosa
combinaràlo ancora desso... dissero i due. Quando verso
mezzogiorno lo videro arrivare con un “stroso” di rami si
guardarono e gli chiesero: ”Cossa fetu con quele legne?”. Lui si
mise a mangiare la “feta de polenta scaldà sulle bronse, el toco
de formàjo, el se scana na golà de vin e via di nuovo lassù. Durò
fino al sabato il via vai. Intorno allo spiazzo della carbonara vi
era una montagna di legna. Alla sera, prima di partire, sentenziò:
”Luni a femo la carbonara! Al lunedì mattina, arrivarono che era ancora
buio. Cominciarono a piantare i tre pali nel mezzo e con arte, erano
muratori, costruirono il castello con i pezzi da cinquanta centimetri
e poi via via il resto. Lavorarono come i forsennati, ma alla sera
la carbonaia era pronta. Al mattino successivo, all'alba, levati i
pali, Mario gettò le braci accese, nel ventre della carbonaia.
Aspettò che uscisse il primo fumo, e dopo qualche ora , risalì
in cima e cominciò a riempire il vuoto che si era formato, con altra
legna, pigiandola giù con un palo. Ne otturò il buco alla
sommità con delle zolle di terra, obbligando il fumo ad uscire in
basso, dove, su tutto il perimetro, erano stati lasciati dei buchi che si
aprivano con il “fumarolo” per dare aria e migliorare la
combustione.
Si
erano presi al gioco anche gli altri due e partecipavano attivamente
a dare i cambi. Era posta in gioco la reputazione della
famiglia!
Un
pomeriggio Gigiòta, sentì l'odore acre di legna “verda” bruciata,
e vide il fumo salire dal fondo della Torra. Arrestò il suo
cavallo, in sima al Sojo Alto ed esclamò scorlando la testa,
rassegnato: “Mi sarò l'ultimo cavalaro che passa par sta
strada, ma anche valtri... sarì i ultimi carbonari dela Vale”.
La
domenica pomeriggio, il fumo cominciò ad uscire “turchino,
trasparente”.
Il
carbone era pronto. Non senza sofferenze erano riusciti a portare
a termine l'operazione.
Ne uscirono quattro bei quintali!
”Mai
visto mi un carbon cussì belo e cussì bon,” disse il camionista che
venne a portarlo via.
”SENTI COME CHEL CANTA...
Era il più bel complimento che un carbonaio potesse sentire e Mario ne fu fiero e felice. L'elogio lo ripagava di tutte le sofferenze e dolori che aveva dovuto sopportare per arrivare ad un simile risultato!
Lino Bonifaci
volevo chiedere al signor Lino perchè bruciavano la legna in montagna per fare carbone e non la portavano a casa in stanga?
RispondiEliminaBel racconto Lino !
RispondiEliminaBentornato Lino. proprio un bel racconto, ricco di dettagli e dove si avverte la partecipazione di chi scrive.
RispondiEliminaAd majora!
Heidi, non bruciavano la legna in montagna nei luoghi accessibili a mezzi di trasporto ma bensi' nei luoghi impervi e pericolosi,privi di sentieri, dove l'uomo solo poteva combattere contro la natura. Far carbone era piu' facile, si fa per dire, che trasportare la legna. Primo perché potevi usufruire di tutta la pianta con pochissima perdita e secondo, essendo che, cento quintali di legna,per lo stesso valore energetico,ti danno all'incirca otto quintali di carbone ,in zone impervie, é molto piu' facile portare un sacco di carbone che due o tre stanghe di due o tre metri.
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