Il
nostro albergo è situato nella zona nord della città, quella più moderna e
sviluppata. Infatti sono sorpreso di vedere una qualità di infrastrutture,
servizi, parchi e architetture che non mi aspettavo di trovare a
queste latitudini. So bene che non è tutta così, Bogotà, ma tuttavia non mi
dispiace; soprattutto il frescolino pungente di quest’aria sottile che mi pare
d’essere sulle nostre montagne.
Ci
dobbiamo incontrare con un referente locale per degli appuntamenti di lavoro,
ma domani è domenica e qui non si batte, anche giustamente, chiodo. Ne
approfitteremo dunque per una visita alla città. Noi non ci rivolgiamo verso le
mete turistiche, i tour, i musei e i monumenti; questi li frequentiamo giusto
quando ci capitano davanti per caso (tanto succede sempre, anche senza volerlo).
Preferiamo il vagabondaggio casuale per vedere l’anima autentica del paese in
cui siamo. Raggiungiamo il centro con un taxi preso al volo e girovaghiamo per
la città vecchia. Il centro è dominato dall’imponente mole della Cattedrale di
Santa Fé con edifici e decori dell’epoca coloniale spagnola. Nella grande
piazza prospicente c’è un comizio; domenica prossima si terrà il referendum per
la ratifica dell’accordo firmato lunedì scorso.
Per il paese è un appuntamento storico, che dovrebbe metter fine ad una
guerriglia durata ben 52 anni e permettere alla Colombia di stabilizzarsi. Alle
nostre spalle, in cima alla montagna domina la conca il bianco Santuario del Monserrate.
Pensiamo di andarci più tardi e intanto risalire per le ripide stradine dei
quartieri situati sui declivi delle colline qui dietro per avere una panoramica
dell’intera città.
Abbandonata
la zona trafficata, c’inoltriamo in uno di questi quartieri, accorgendoci
subito del mutato ambiente. Case fatiscenti addossate le une alle altre senza
intonaco, ceffi poco rassicuranti che circolano con muso duro e bareta fracà.
Dico al mio amico che forse è meglio soprassedere, ma questi è attratto da un
mercatino coperto in un edificio barocco e ci infiliamo lì dentro. Una volta
usciti, il sole diventa fastidioso per cui ci mettiamo in maniche di camicia
riponendo tutto il resto in uno zainetto che portiamo a turno e che contiene
tutti i fondamentali: passaporti, carte di credito, valute estere e ammenicoli vari.
Da
queste parti non si usano tornanti, ma le strade s’inerpicano diritte con forti
pendenze, affiancate dalle abitazioni, pertanto
guadagniamo presto quota, mentre la vista sulla città sottostante si allarga sempre più,
così ci soffermiamo a fotografare. Qui la povertà si avverte dall’aspetto delle strade, delle botteghe e da quello rabberciato delle case,
dalle facce rassegnate della gente, molti di colore. Povertà, ma non
miseria, condizione di chi che vive ai margini della metropoli e ne esercita i
mestieri più umili, con alte percentuali di disoccupazione e diffusa
criminalità. Un cliché comune a molte metropoli del Sudamerica e non solo. La
poca gente del primo pomeriggio ci guarda sbigottita chiedendosi di certo cosa mai
ci verranno a fare in questi posti derelitti un bianco barbuto e un cinese in spadina. Puntiamo spediti
verso la cima della collina, anche perché ci sentiamo addosso sguardi poco
rassicuranti. Ora siamo all’aperto in un prato in pendenza che ospita un
piccolo anfiteatro decorato di graffiti; più a destra c’è una scuola chiusa con qualche attrezzatura ludica.
Lì intorno, seduti o sdraiati sul prato, ci sono ragazzotti con lo sguardo spento nel vuoto, in preda agli effetti della colla o di altri sniffi della notte prima. Sotto di noi si stende Bogotà in tutta la sua vastità e il colpo d’occhio è davvero notevole. Facciamo quindi una bella panoramica di foto. O meglio, le fa il mio amico cinese, perché io come fotografo valgo una cicca e ne prendo un po’ qui e un po’ là alla rinfusa, tanto poi so che non le guardo. Preferiamo disimpegnarci da quell’area perché nel frattempo vediamo approssimarsi tre figuri, che pare stiano seguendoci a distanza. Condivido i miei sospetti con l’amico dicendogli che è meglio proseguire e cambiare repentinamente direzione per verificare le intenzioni del trio. Mentre proseguo, egli si attarda ad osservarli e quei pochi metri che ci dividono fanno palesare immediatamente l’intenzione del terzetto. L’amico viene repentinamente aggredito e minacciato alla gola con un grosso coltello che il più giovane aveva fulmineamente estratto dalla canna dei pantaloni. Pochi attimi concitatissimi e il trio s’allontana correndo a perdifiato giù per la riva con il nostro zainetto.
Lì intorno, seduti o sdraiati sul prato, ci sono ragazzotti con lo sguardo spento nel vuoto, in preda agli effetti della colla o di altri sniffi della notte prima. Sotto di noi si stende Bogotà in tutta la sua vastità e il colpo d’occhio è davvero notevole. Facciamo quindi una bella panoramica di foto. O meglio, le fa il mio amico cinese, perché io come fotografo valgo una cicca e ne prendo un po’ qui e un po’ là alla rinfusa, tanto poi so che non le guardo. Preferiamo disimpegnarci da quell’area perché nel frattempo vediamo approssimarsi tre figuri, che pare stiano seguendoci a distanza. Condivido i miei sospetti con l’amico dicendogli che è meglio proseguire e cambiare repentinamente direzione per verificare le intenzioni del trio. Mentre proseguo, egli si attarda ad osservarli e quei pochi metri che ci dividono fanno palesare immediatamente l’intenzione del terzetto. L’amico viene repentinamente aggredito e minacciato alla gola con un grosso coltello che il più giovane aveva fulmineamente estratto dalla canna dei pantaloni. Pochi attimi concitatissimi e il trio s’allontana correndo a perdifiato giù per la riva con il nostro zainetto.
Il
mio amico è pallido e ammutolito; s’è comportato bene, non ha opposto
resistenza o fatto l’eroe, ma ha visto la morte in faccia. Quei tipi avevano
poco da perdere e in queste zone, lo scopriremo poi, non vanno molto per il
sottile con il coltello.
Ecco
fatto! Adesso siamo nel guano più spesso, in cima ad un suburbo sudamericano
senza documenti, senza soldi e senza più rassicuranti connessioni con qualche strumento di civiltà. Beh, per la
verità ci restano i telefonini, che tenevamo in tasca per le foto, ma il mio è
quasi scarico e anche quello del mio socio, per le troppe fotografie; inoltre
non c’è campo! D’altra parte non possiamo che prendercela con noi stessi, dato
che ce la siamo andata propri0 a cercare.
Che
fare ora?
Ottocento dollari, due passaporti e 4 carte di credito volatilizzate, con in più neanche
la possibilità immediata di bloccarle. Speranza di recupero uguale a zero. Tutti
i nostri programmi sono miseramente saltati e ci si profila dinanzi una lunga
peripezia in due ambasciate per ottenere in qualche modo il rimpatrio. Darci
del mona, anche in mandarino, non giova comunque a farci sentire meglio.
Dopo
un rapido consulto scendiamo nei pressi delle case e individuo una donna e un
ragazzo fra i pochi esseri umani decenti in circolazione. La donna non sembra
interessata alle nostre disgrazie, mentre il giovanotto ci bada. Naturalmente
non ha visto niente, non sa nulla e non conosce nessuno. Gli chiedo se magari, forse, visto che è del
posto, potesse eventualmente venire a sapere qualcosa, che ce lo facesse sapere
che i soldi se li possono pure tenere ma che almeno ci restituiscano i
passaporti, per i quali siamo pure
disposti a pagare. Tutta questa tiritera mette alla prova il mio spagnolo che,
a discapito del cognome, è una lingua con cui non sono particolarmente fluente. Il
ragazzo annota diligentemente i riferimenti che gli do, segno che forse c’è una
remotissima speranza; non credo lo faccia per cortesia..
In
tasca ci sono rimasti i cellulari e qualcosa di contante in valuta locale,
perciò scendiamo ancora alla ricerca di un mezzo di trasporto che ci porti via
di lì. Fortunatamente troviamo un
conducente che si presta allo scopo e il quale chi chiede ragione del nostro essere lì. Ci
consiglia di rivolgerci subito alla polizia di quartiere e si offre d’accompagnarci.
Non faccio neanche tempo a riflettere sull’opportunità di attardarci in denunce
sul posto, facendo un rapido ragionamento al risultato che otterremmo se ci
trovassimo in Italia, che incrociamo una pattuglia. La polizia metropolitana è onnipresente
in città, ma ben poco in periferia, inoltre non pare goda fama di specchiato rigore. I due poliziotti ci caricano sulla camionetta, che in pratica è
un specie di cellulare con sedili di ferro e sbarre ai finestrini e ci portano
alla prima minuscola stazione di polizia. Approfondimento dell’accaduto, generalità, spiegazioni,
interrogatorio di prassi,ecc. La faccenda non si profila granché entusiasmante,
riconoscendo essi stessi che è praticamente impossibile recuperare qualcosa. Mandano però subito una pattuglia in motocicletta sul luogo dell’aggressione.
Se non che, il mio amico, armeggiando col cellulare, riesce a rintracciare delle foto panoramiche in cui s’intravedono i tre loschi figuri: per fortuna che la qualità della telecamera dell’S6 permette ingrandimenti al limite dei pixel. Bingo!
Ma ecco che, tacchete, si spegne il telefono. Cavetti dell’iPhone li non ce ne sono, i poliziotti hanno tutti l’Android. Fortuna vuole che nella tasca della camicia abbia precedentemente riposto la mia powerbank con relativo prezioso filetto. Fiuuuu!! Con una concitata indagine che coinvolge tutta la stazione, riusciamo a scaricare le foto nel computer della polizia e ingrandire i particolari fino a rendere riconoscibili volti e abbigliamento dei nostri aggressori.
Se non che, il mio amico, armeggiando col cellulare, riesce a rintracciare delle foto panoramiche in cui s’intravedono i tre loschi figuri: per fortuna che la qualità della telecamera dell’S6 permette ingrandimenti al limite dei pixel. Bingo!
Ma ecco che, tacchete, si spegne il telefono. Cavetti dell’iPhone li non ce ne sono, i poliziotti hanno tutti l’Android. Fortuna vuole che nella tasca della camicia abbia precedentemente riposto la mia powerbank con relativo prezioso filetto. Fiuuuu!! Con una concitata indagine che coinvolge tutta la stazione, riusciamo a scaricare le foto nel computer della polizia e ingrandire i particolari fino a rendere riconoscibili volti e abbigliamento dei nostri aggressori.
Miracoli
della moderna tecnologia!
Via
radio e per telefono vengono diramate le informazioni ad altre pattuglie e le
foto; pare che questi poliziotti sappiano il fatto loro e non si perdano in
formalità. Peraltro siamo favorevolmente sorpresi dall’attrezzatura e dall’organizzazione di
questo piccolo avamposto di frontiera metropolitana. Assistiamo per una buona
mezzora al rimpallo delle chiamate via radio, cercando di capire l’evolversi
della situazione, finché ci confermano che li hanno beccati. Siamo basiti e confortati da tanta tempestiva efficienza. In realtà non è che si
capisca bene cosa sia realmente avvenuto perché in ufficio si avvicendano poliziotti
con versioni spezzettate, finché il comandante non ci conferma che sono stati
recuperati i passaporti e le carte di credito e che ci porteranno i tre per il
riconoscimento. Infatti poco dopo ecco arrivare un terzetto ammanettato che entra dondolando
nella stanza. No, non sono loro, non assomigliano minimamente ai nostri tre
ceffi. Sono tre ragazzoni drogati che faticano a capire dove sono, ad uno gli
viene trovata una bustina di coca e quindi verbalizzata la denuncia. Ordinaria amministrazione, credo.
Ecco ora sopraggiungere un poliziotto in moto e ci porta il malloppo. Passaporti, portafogli,
carte di credito, carte varie, la mappa della città, perfino le mie caramelle…… Sospirone di sollievo. Al mio amico comincia
a riassorbirsi anche la cascata di adrenalina e lo vedo un po’ più disteso. I
soldi ovviamente non ci sono e nemmeno il mio zainetto nuovo e il mio bel
golfino azzurro. La versione ufficiale è che il materiale recuperato è stato
gettato via nella fuga e che i malviventi hanno trattenuto ovviamente il contante. Del
confronto all’americana nessuno parla più, possiamo baciarci le manine del
risultato raggiunto e ringraziare l’abitudine dei cinesi a fotografare sempre
tutto. Ringraziamo i solerti tutori dell'ordine e firmiamo il verbale, mettendo
a tacere il nostro grillo parlante che ci sussurra le incongruenze dell’operazione.
Ce la siamo cavata in meno d’un paio d’ore: mica male! Rinunciamo pure alla
facoltà di sporgere denuncia presso la sede centrale: vorrebbe dire bruciare la
giornata e con nessuna possibilità di riavere i nostri soldi. Un po’ anche ci
vergogniamo della nostra dabbenaggine e non vogliamo darne ulteriore pubblica testimonianza.
La
polizia si offre di scortarci in albergo, dall’altro capo della città, ma
decliniamo la proposta preferendo continuare il nostro giro; ci facciamo quindi
accompagnare fino in centro. Lì mi compro un marsupio in cui sistemo il
prezioso carico coprendolo con la camicia. Quindi prendiamo la funicolare che
sale alla quota di 3000 m in qui si trova il belvedere del Monserrate.
La
tensione accumulata va via via scemando e gli animi si rasserenano contemplando
la conca di Bogotà dalla stupenda specola di quel Santuario.
La
parte meridionale della città è circondata da colline su cui s’inerpicano i
quartieri suburbani più degradati, su tutti l’immenso agglomerato di Ciudad
Bolivar e pertinenze annesse, zone off-limit per qualsiasi straniero sano di mente; l’abbiamo appena
verificato nella sua parte forse meno peggio e possiamo dirci fortunati.
Invece
è proprio là che andremo nei prossimi giorni accompagnati dal nostro amico
Oscar, un ingegnere ben introdotto nel contesto locale dei nostri interlocutori,
ovvero costruttori, produttori di materiali e proprietari di miniere che hanno sede proprio
sopra quegli agglomerati e danno lavoro a parecchia di quella gente. Attraverseremo
in lungo e in largo i quartieri più malfamati per un'intera settimana senza patema alcuno perché siamo ospiti
di Chaco, un potente uomo d'affari dai molteplici interessi. Chaco
ovviamente non è il suo nome e nemmeno ci abita li, ma qui tutti lo conoscono con questo appellativo e la sua parola val più di qualsiasi altro passaporto.
Averlo
saputo prima!
Gianni Spagnolo
XXII-XII-MMXVI