venerdì 30 dicembre 2016

I Viaggi di Marco Pollo (Brutti incontri)


Sto sorvolando la parte settentrionale della Cordigliera delle Ande in direzione di Bogotà, su un volo di linea proveniente dal Perù. L’impatto è meno impressionante di quello vissuto la settimana prima verso Lima, quando mi sono visto apparire di fronte, nel sole della sera, l’alta e candida muraglia delle Ande Centrali. 
Bogotà, la capitale della Colombia, l’antica Santa Fé de Bogotà fondata dagli Spagnoli nel XVI° secolo appare ora lì sotto. Adesso è una metropoli di oltre 7 milioni d’abitanti collocata su un altipiano lungo e stretto a 2640 m sul livello del mare e contornata da una corona di montagne sui 3000 m di quota. La città si è dunque sviluppata in direzione sud-nord lungo l’asse di questo altopiano. Viaggio con un amico cinese col quale condivido, oltre agli affari, anche un certo spirito d’avventura e voglia di conoscere posti nuovi; cosa che ogni tanto aiuta a perder l’oca quando si gira il mondo per lavoro.
Il nostro albergo è situato nella zona nord della città, quella più moderna e sviluppata. Infatti sono sorpreso di vedere una qualità di infrastrutture, servizi, parchi e architetture che non mi aspettavo di trovare a queste latitudini. So bene che non è tutta così, Bogotà, ma tuttavia non mi dispiace; soprattutto il frescolino pungente di quest’aria sottile che mi pare d’essere sulle nostre montagne.
Ci dobbiamo incontrare con un referente locale per degli appuntamenti di lavoro, ma domani è domenica e qui non si batte, anche giustamente, chiodo. Ne approfitteremo dunque per una visita alla città. Noi non ci rivolgiamo verso le mete turistiche, i tour, i musei e i monumenti; questi li frequentiamo giusto quando ci capitano davanti per caso (tanto succede sempre, anche senza volerlo). Preferiamo il vagabondaggio casuale per vedere l’anima autentica del paese in cui siamo. Raggiungiamo il centro con un taxi preso al volo e girovaghiamo per la città vecchia. Il centro è dominato dall’imponente mole della Cattedrale di Santa Fé con edifici e decori dell’epoca coloniale spagnola. Nella grande piazza prospicente c’è un comizio; domenica prossima si terrà il referendum per la ratifica dell’accordo firmato lunedì scorso.   Per il paese è un appuntamento storico, che dovrebbe metter fine ad una guerriglia durata ben 52 anni e permettere alla Colombia di stabilizzarsi. Alle nostre spalle, in cima alla montagna domina la conca il bianco Santuario del Monserrate. Pensiamo di andarci più tardi e intanto risalire per le ripide stradine dei quartieri situati sui declivi delle colline qui dietro per avere una panoramica dell’intera città.
Abbandonata la zona trafficata, c’inoltriamo in uno di questi quartieri, accorgendoci subito del mutato ambiente. Case fatiscenti addossate le une alle altre senza intonaco, ceffi poco rassicuranti che circolano con muso duro e bareta fracà. Dico al mio amico che forse è meglio soprassedere, ma questi è attratto da un mercatino coperto in un edificio barocco e ci infiliamo lì dentro. Una volta usciti, il sole diventa fastidioso per cui ci mettiamo in maniche di camicia riponendo tutto il resto in uno zainetto che portiamo a turno e che contiene tutti i fondamentali: passaporti, carte di credito, valute estere e ammenicoli vari.
Da queste parti non si usano tornanti, ma le strade s’inerpicano diritte con forti pendenze, affiancate dalle abitazioni, pertanto guadagniamo presto quota, mentre la vista sulla città sottostante si allarga sempre più, così ci soffermiamo a fotografare. Qui la povertà si avverte dall’aspetto delle strade, delle botteghe e da quello rabberciato delle case, dalle facce rassegnate della gente, molti di colore. Povertà, ma non miseria, condizione di chi che vive ai margini della metropoli e ne esercita i mestieri più umili, con alte percentuali di disoccupazione e diffusa criminalità. Un cliché comune a molte metropoli del Sudamerica e non solo. La poca gente del primo pomeriggio ci guarda sbigottita chiedendosi di certo cosa mai ci verranno a fare in questi posti derelitti un bianco barbuto e un cinese in spadina. Puntiamo spediti verso la cima della collina, anche perché ci sentiamo addosso sguardi poco rassicuranti. Ora siamo all’aperto in un prato in pendenza che ospita un piccolo anfiteatro decorato di graffiti; più a destra c’è una scuola chiusa con qualche attrezzatura ludica. 
Lì intorno, seduti o sdraiati sul prato, ci sono ragazzotti con lo sguardo spento nel vuoto, in preda agli effetti della colla o di altri sniffi della notte prima. Sotto di noi si stende Bogotà in tutta la sua vastità e il colpo d’occhio è davvero notevole. Facciamo quindi una bella panoramica di foto. O meglio, le fa il mio amico cinese, perché io come fotografo valgo una cicca e ne prendo un po’ qui e un po’ là alla rinfusa, tanto poi so che non le guardo. Preferiamo disimpegnarci da quell’area perché nel frattempo vediamo approssimarsi tre figuri, che pare stiano seguendoci a distanza. Condivido i miei sospetti con l’amico dicendogli che è meglio proseguire e cambiare repentinamente direzione per verificare le intenzioni del trio. Mentre proseguo, egli si attarda ad osservarli e quei pochi metri che ci dividono fanno palesare immediatamente l’intenzione del terzetto. L’amico viene repentinamente aggredito e minacciato alla gola con un grosso coltello che il più giovane aveva fulmineamente estratto dalla canna dei pantaloni. Pochi attimi concitatissimi e il trio s’allontana correndo a perdifiato giù per la riva con il nostro zainetto.
Il mio amico è pallido e ammutolito; s’è comportato bene, non ha opposto resistenza o fatto l’eroe, ma ha visto la morte in faccia. Quei tipi avevano poco da perdere e in queste zone, lo scopriremo poi, non vanno molto per il sottile con il coltello.
Ecco fatto! Adesso siamo nel guano più spesso, in cima ad un suburbo sudamericano senza documenti, senza soldi e senza più rassicuranti connessioni con  qualche strumento di civiltà. Beh, per la verità ci restano i telefonini, che tenevamo in tasca per le foto, ma il mio è quasi scarico e anche quello del mio socio, per le troppe fotografie; inoltre non c’è campo! D’altra parte non possiamo che prendercela con noi stessi, dato che ce la siamo andata propri0 a cercare.
Che fare ora?
Ottocento dollari, due passaporti e 4 carte di credito volatilizzate, con in più neanche la possibilità immediata di bloccarle. Speranza di recupero uguale a zero. Tutti i nostri programmi sono miseramente saltati e ci si profila dinanzi una lunga peripezia in due ambasciate per ottenere in qualche modo il rimpatrio. Darci del mona, anche in mandarino, non giova comunque a farci sentire meglio.
Dopo un rapido consulto scendiamo nei pressi delle case e individuo una donna e un ragazzo fra i pochi esseri umani decenti in circolazione. La donna non sembra interessata alle nostre disgrazie, mentre il giovanotto ci bada. Naturalmente non ha visto niente, non sa nulla e non conosce nessuno. Gli  chiedo se magari, forse, visto che è del posto, potesse eventualmente venire a sapere qualcosa, che ce lo facesse sapere che i soldi se li possono pure tenere ma che almeno ci restituiscano i passaporti,  per i quali siamo pure disposti a pagare. Tutta questa tiritera mette alla prova il mio spagnolo che, a discapito del cognome, è una lingua con cui non sono particolarmente fluente. Il ragazzo annota diligentemente i riferimenti che gli do, segno che forse c’è una remotissima speranza; non credo lo faccia per cortesia..
In tasca ci sono rimasti i cellulari e qualcosa di contante in valuta locale, perciò scendiamo ancora alla ricerca di un mezzo di trasporto che ci porti via di lì.  Fortunatamente troviamo un conducente che si presta allo scopo e il quale chi chiede ragione del nostro essere lì. Ci consiglia di rivolgerci subito alla polizia di quartiere e si offre d’accompagnarci. Non faccio neanche tempo a riflettere sull’opportunità di attardarci in denunce sul posto, facendo un rapido ragionamento al risultato che otterremmo se ci trovassimo in Italia, che incrociamo una pattuglia. La polizia metropolitana è onnipresente in città, ma ben poco in periferia, inoltre non pare goda fama di specchiato rigore. I due poliziotti ci caricano sulla camionetta, che in pratica è un specie di cellulare con sedili di ferro e sbarre ai finestrini e ci portano alla prima minuscola stazione di polizia. Approfondimento dell’accaduto, generalità, spiegazioni, interrogatorio di prassi,ecc. La faccenda non si profila granché entusiasmante, riconoscendo essi stessi che è praticamente impossibile recuperare qualcosa. Mandano però subito una pattuglia in motocicletta sul luogo dell’aggressione. 
Se non che, il mio amico, armeggiando col cellulare, riesce a rintracciare delle foto panoramiche in cui s’intravedono i tre loschi figuri: per fortuna che la qualità della telecamera dell’S6 permette ingrandimenti al limite dei pixel. Bingo! 
Ma ecco che, tacchete, si spegne il telefono. Cavetti dell’iPhone li non ce ne sono, i poliziotti hanno tutti l’Android. Fortuna vuole che nella tasca della camicia  abbia precedentemente riposto la mia powerbank con relativo prezioso filetto. Fiuuuu!! Con una concitata indagine che coinvolge tutta la stazione, riusciamo a scaricare le foto nel computer della polizia e ingrandire i particolari fino a rendere riconoscibili volti e abbigliamento dei nostri aggressori.
Miracoli della moderna tecnologia!
Via radio e per telefono vengono diramate le informazioni ad altre pattuglie e le foto; pare che questi poliziotti sappiano il fatto loro e non si perdano in formalità. Peraltro siamo favorevolmente sorpresi dall’attrezzatura e dall’organizzazione di questo piccolo avamposto di frontiera metropolitana. Assistiamo per una buona mezzora al rimpallo delle chiamate via radio, cercando di capire l’evolversi della situazione, finché ci confermano che li hanno beccati. Siamo basiti e confortati da tanta tempestiva efficienza. In realtà non è che si capisca bene cosa sia realmente avvenuto perché in ufficio si avvicendano poliziotti con versioni spezzettate, finché il comandante non ci conferma che sono stati recuperati i passaporti e le carte di credito e che ci porteranno i tre per il riconoscimento. Infatti poco dopo ecco arrivare un terzetto ammanettato che entra dondolando nella stanza. No, non sono loro, non assomigliano minimamente ai nostri tre ceffi. Sono tre ragazzoni drogati che faticano a capire dove sono, ad uno gli viene trovata una bustina di coca e quindi verbalizzata la denuncia. Ordinaria amministrazione, credo.
Ecco ora sopraggiungere un poliziotto in moto e ci porta il malloppo. Passaporti, portafogli, carte di credito, carte varie, la mappa della città, perfino le mie caramelle……  Sospirone di sollievo. Al mio amico comincia a riassorbirsi anche la cascata di adrenalina e lo vedo un po’ più disteso. I soldi ovviamente non ci sono e nemmeno il mio zainetto nuovo e il mio bel golfino azzurro. La versione ufficiale è che il materiale recuperato è stato gettato via nella fuga e che i malviventi hanno trattenuto ovviamente il contante. Del confronto all’americana nessuno parla più, possiamo baciarci le manine del risultato raggiunto e ringraziare l’abitudine dei cinesi a fotografare sempre tutto. Ringraziamo i solerti tutori dell'ordine e firmiamo il verbale, mettendo a tacere il nostro grillo parlante che ci sussurra le incongruenze dell’operazione. Ce la siamo cavata in meno d’un paio d’ore: mica male! Rinunciamo pure alla facoltà di sporgere denuncia presso la sede centrale: vorrebbe dire bruciare la giornata e con nessuna possibilità di riavere i nostri soldi. Un po’ anche ci vergogniamo della nostra dabbenaggine e non vogliamo darne ulteriore pubblica testimonianza.
La polizia si offre di scortarci in albergo, dall’altro capo della città, ma decliniamo la proposta preferendo continuare il nostro giro; ci facciamo quindi accompagnare fino in centro. Lì mi compro un marsupio in cui sistemo il prezioso carico coprendolo con la camicia. Quindi prendiamo la funicolare che sale alla quota di 3000 m in qui si trova il belvedere del Monserrate.
La tensione accumulata va via via scemando e gli animi si rasserenano contemplando la conca di Bogotà dalla stupenda specola di quel Santuario.
La parte meridionale della città è circondata da colline su cui s’inerpicano i quartieri suburbani più degradati, su tutti l’immenso agglomerato di Ciudad Bolivar e pertinenze annesse, zone off-limit per qualsiasi straniero sano di mente; l’abbiamo appena verificato nella sua parte forse meno peggio e possiamo dirci fortunati.
Invece è proprio là che andremo nei prossimi giorni accompagnati dal nostro amico Oscar, un ingegnere ben introdotto nel contesto locale dei nostri interlocutori, ovvero costruttori, produttori di materiali e proprietari di miniere che hanno sede proprio sopra quegli agglomerati e danno lavoro a parecchia di quella gente. Attraverseremo in lungo e in largo i quartieri più malfamati per un'intera settimana senza patema alcuno perché siamo ospiti di Chaco, un potente uomo d'affari dai molteplici interessi. Chaco ovviamente non è il suo nome e nemmeno ci abita li, ma qui tutti lo conoscono con questo appellativo e la sua parola val più di qualsiasi altro passaporto.
Averlo saputo prima!
Gianni Spagnolo
XXII-XII-MMXVI 

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