Con il racconto che segue ho vinto il primo premio
tra gli inediti al premio "Leggimontagna di Tolmezzo" organizzato dall'ASCA
sezione del CAI e dalla regione Friuli.
Ho avuto l'onore di essere premiato dall'Assessore alla cultura della regione Friuli che è anche presidente della Fondazione Dolomiti UNESCO. Questa la motivazione del premio:
Ho avuto l'onore di essere premiato dall'Assessore alla cultura della regione Friuli che è anche presidente della Fondazione Dolomiti UNESCO. Questa la motivazione del premio:
Le ultime ore di Martin dei Prudar sono raccontate nella cornice di un crudo autunno: “stagione cinica e senza cuore”. Ogni momento del paesaggio annuncia l’avanzata del freddo, l’abbandono delle energie vitali. Il villaggio alpino che ospita la casa di riposo è diventato estraneo al vecchio Martin quanto gli squilli dei (detestati) cellulari. Violare i regolamenti è pertanto affermazione di sé. Decide questa volta di salire la montagna per abbandonare la prigione in cui è confinato. Ogni suo passo verso la cima gli consente di ignorare il “frastuono degli anni nuovi”, di recuperare faticosamente nei sentimenti famigliari più profondi il senso dell’esistenza. Anute, la compagna di vita, e Paul, il figlio perduto, lo accolgono in una nuova primavera. La serenità della fine è raccontata dai petali di rosa che inspiegabilmente troveranno tra i suoi capelli. Nel crudo novembre il sorriso sulle sue labbra testimonia la scalata al cielo, la fine del mondo inerte e insensibile da cui era stato circondato."
Martìn dei Prudar:
una storia vera.
No, non è vero, si sbaglia chi crede che l’autunno
sia solo stagione di malinconica dolcezza, al contrario, i suoi
colori spaccano la montagna come il gracchiare dei corvi spacca il
cielo. L’autunno è uno sfrido d’acciaio che, affilato, arriva
all’anima e sa far male.
«Vedi ragazzo», sussurrava, e la sua voce era per me,
giovane uomo inquieto, una carezza inusitata, «vedi ragazzo,
l’inverno è addomesticato dal dolce cadere della neve che per un
attimo sa placare l’ansia del nostro cuore. La primavera, con i
suoi colori lievi e le tenere foglie dei faggi, così succose in
bocca, ti ricorda che qualunque cosa accada, la vita continuerà,
anche se tu non ci sarai più, anche se nessun uomo o donna ci
saranno più e questa speranza ti regala una briciola di pace;
comprendi, in primavera, che tutti i tuoi affanni e tutte le tue
corse, alla fine saranno state inutili, non basteranno ad allontanare
nemmeno di un minuto la tua ultima ora. E l’estate? Ah l’estate
delle grandi, grasse, nuvole bianche, adagiate qua e là tra le cime.
È la stagione perfetta, l’estate, per rimanere sotto un abete con
il naso rivolto al cielo e sognare altre terre e altri cieli e in
quelle notti tiepide, odorose di resina, immaginare, tra le stelle,
animali misteriosi, che da lassù, dal firmamento, regolano con
saggezza la tua piccola esistenza e tu, smarrito, respiri una
serenità smisurata come quegli astri infiniti. L’autunno, invece,
è una scheggia di specchio tagliente che riflette la tua miseria e
incide il solco della tua vita ogni volta di più.»
Così la pensava, e così a me raccontava, Martìn dei
Prudar, ma lui, d’autunno, c’era pur sempre nato e ad ogni
autunno contava un anno di più e allora, in fondo, non poteva che
amarla quella stagione cinica e senza cuore.
Il mattino in cui Martìn arrivava a contare novanta di
quelle stagioni ciniche e senza cuore, si svegliò ancora prima del
solito e avanti che la piccola sveglia a carica manuale facesse
sentire il suo trillo meccanico, con la mano aveva già disinserito
la levetta arrugginita e poi tra pollice e indice girava la corona
che dava corda al meccanismo, antiquato, ma ancora straordinariamente
preciso. Il ticchettio dell’orologio riempiva la stanza che Martìn
condivideva con un altro vecchio, come lui lasciato ai bordi della
vita, dentro una casa di riposo. La coperta della notte autunnale
ricopriva ancora il mondo intero, perlomeno, quella parte di mondo
che Martìn conosceva (del rimanente non se ne occupava affatto) e
non accennava nemmeno a sollevarsi.
Non si preoccupò di farsi luce, Martìn, non voleva
disturbare il compagno di cella, come chiamava a volte l’uomo con
cui condivideva quel piccolo spazio, ma anche al buio non aveva
preoccupazioni di sorta, sapeva bene cosa fare senza bisogno di
vedere. Da tanto tempo ormai, per abitudine, ogni sera, quando si
spogliava, riponeva con attenzione le sue cose in bell’ordine sulla
testiera di ferro del letto, in modo da poterle raggiungere anche con
gli occhi chiusi, senza nemmeno doversi alzare dal materasso
ortopedico.
Così, quel mattino, come sempre, Martìn allungò il
braccio e prese le grosse calze di lana, erano ancora quelle che gli
aveva fatto la moglie tanti anni prima, fatte apposta per mettere
negli scarponi, al tempo in cui andava a spaccar pietre, lassù nella
cava. Poi con calma indossò i suoi vecchi pantaloni di fustagno, ora
nei negozi di città andavano persino di moda quei pantaloni, li
chiamavano: di velluto a coste larghe. Quella volta, il figlio più
grande, pensando di fargli uno scherzo, gliene regalò un paio di un
bel colore rosa, ma lui, Martìn, non si scompose e li portò a lungo
e con orgoglio i suoi pantaloni di fustagno rosa. E adesso, benché
fossero tutti spelacchiati, aveva scelto proprio quelli da indossare
in quel giorno così importante. I pantaloni rosa.
La piccola sveglia dorata continuava imperterrita a
battere il tempo con tocchi che rimbombavano nel silenzio della
stanza, erano, quei tocchi, come il battere secco della scure su un
tronco di larice d’inverno. Il vecchio, così lo chiamo oggi,
scrivendo, perché so che lui non potrà più leggere i miei
scarabocchi, altrimenti non sfuggirei alla sua ira. Bene, il vecchio,
dicevo, terminò di vestirsi con cura, ché fuori la brina sfavillava
alla luce di uno spicchio di luna, e a naso, dovevano essere ben più
di dieci gradi sotto allo zero.
Finito di vestirsi, Martìn si versò il solito
bicchiere di acqua dalla brocca che teneva sul comodino quindi, con
passo fermo andò in bagno, zo soacha, come chiamava lui l’azione
fisiologica dell’urinare, poi si rinfrescò la faccia con l’acqua
gelida, così che tutti i cattivi pensieri che la notte era solita
portargli scomparvero come un filo di fumo nel vento. Con la piccola
forbice si spuntò la barba, bianca di anni e di fatiche e alla fine
si avviò verso l’angolo più lontano della camera, dove, sopra un
mobiletto d’acciaio, teneva una di quelle piccole stufette rotonde
a spirale alimentate a elettrico. Quell’aggeggio, il vecchio se lo
portava dietro da anni, dal tempo in cui girava ancora la regione per
tirare su case o dighe o dovunque ci fosse bisogno di gente che
sapesse mettere una pietra sopra un’altra con la dovuta maestria.
Lo aveva comprato, quel fornelletto, in quella ferramenta famosa,
nella via centralissima della città di Trento, la bottega ora non
esisteva più da tempo, prima vi avevano fatto un supermercato, poi
un negozio di tappeti, infine vi si vendevano detersivi e oggi,
forse, al suo posto c’era una banca.
Anche la città era profondamente cambiata negli anni.
L’uomo infilò la spina nella presa di corrente e
preparò la moka e, mentre aspettava che la piccola piastra prendesse
calore, si sedette sul bordo del letto e chiuse gli occhi, cercando
di fare il vuoto dentro la testa, di non pensare a nulla. La cosa
però, non gli riusciva facile, oggi era un giorno speciale,
sarebbero arrivati i figli, tutti, o almeno quelli che erano ancora
in vita. Quattro, erano quelli che gli erano rimasti, uno lo aveva
perduto, gli era morto, travolto da una valanga sul Monte Bianco
un’eternità di tempo prima.
Ci sarebbero stati i nipoti e le nuore, perché ognuno,
a suo modo, aveva il desiderio di stare vicino al nonno in quel
giorno che doveva essere di festa. Ma lui, il vecchio Martìn, sapeva
che non sarebbe riuscito a far felice nessuno, il suo mondo era
scomparso da così tanti anni, che ogni volta che gli capitava di
incontrare gente, anche la sua gente, aveva l’impressione di
viaggiare nel futuro e questa cosa non gli piaceva proprio. No, non
gli piaceva per nulla.
La vita, nel suo pazzo correre, lo aveva stropicciato un
bel po’ quell’uomo, ma non era mai riuscita a strapparne la
trama, fatta di ruvida fibra di iuta come quella dei sacchi per le
patate o per le lenzuola per raccogliere il fieno. Nemmeno le
disgrazie più grandi, la morte di un figlio, erano riuscite a fargli
cambiare il suo modo di esistere. Ora però il frastuono degli anni
nuovi, che principiavano con il numero due, lentamente, quasi senza
darsene per inteso, lo stava piegando. Sentiva che non era più
capace di ritrovare, nemmeno per un momento, quella dolce e serena
tranquillità, che poteva persino somigliare a quel sentimento, che
lui mai avrebbe ammesso: la felicità. Sentiva pesare in maniera
indefinita sopra lo stomaco, quel fatto di non riuscire più a
restare da solo con i propri pensieri. Da qualche tempo ci si erano
messi di mezzo anche i nipoti, lo avevano persino dotato, come diceva
lui, di uno di quei piccoli telefoni che ti seguono dovunque perché
non abbisognano di filo. Per il vecchio, nato al tempo del telegrafo,
quel piccolo arnese aveva il valore di un miracolo, e all’inizio,
infatti, lo accettò con gratitudine, anche se la precisazione con
cui i nipoti glielo consegnarono, lo fece andare su tutte le furie:
«È fatto apposta per le persone anziane, nonno, ha solo due tasti e
i numeri grandi», gli spiegarono.
«Beh, intanto io non sono anziano
ma vecchio, che è tutta un’altra cosa, e anche questo è poi da
vedere, vecchio rispetto a chi, il Peatar ha tre anni meno di me e
lui sì è vecchio e rincoglionito io, per mia fortuna, ho ancora
tutti i sentimenti al loro posto, carina.» Pronunciò la frase tutta
in un soffio e quando si accorse di essere guardato con severità,
forse per farsi perdonare, allungò una leggera carezza alla più
piccola delle nipoti, che poteva avere, sì e no, otto o nove anni. I
figli, ma soprattutto le nuore, quando Martìn si esprimeva in
maniera un po’ rustica lo guardavano di traverso, i nipoti, invece,
se la ridevano di gusto e trovavano conferma nella loro opinione che,
il vecchio fosse un po’ andato.
Quel piccolo marchingegno elettronico di un bel colore
rosso acceso che teneva sprofondato in una tasca dei pantaloni,
all’apparenza così innocuo, si rivelò presto un supplizio, aveva
il potere di suonare nei momenti più inopportuni, sembrava lo
facesse apposta; quando lui era sull’apòrt,
la tazza del water, con i pantaloni calati, oppure quando aveva le
braccia occupate dalla legna, o stava cercando di addomesticare il
fuoco. Perché il fuoco coltiva ancora un’anima ribelle e a volte
non vuole proprio saperne di sottomettersi all’uomo che l’aveva
domato in tempi lontani e allora occorre tutta la pazienza del mondo
e soffiare alla giusta maniera alla base dei saitla,
i pezzettini di legno scelti tra i più secchi della catasta.
Un giorno il diabolico ordigno incominciò la sua
stizzosa musichetta proprio mentre Martìn stava osservando incantato
il gioco di corna tra due giovani caprioli e uno dei due era bianco
latte. Avvertiti, i selvatici sparirono in un attimo nel fitto del
bosco. Quel giorno il vecchio si prese la soddisfazione di lanciarlo
sul fondo di un burrone, dove il piccolo telefono continuò a suonare
a lungo. «L’ho perso», si giustificò con i nipoti. Ne avrebbe
persi ancora altri in
seguito, sino a quando i figli capirono che era inutile dotare il
vecchio padre di collare elettronico come un orso indisciplinato.
Ora la moka da sei gorgogliava allegra e la notte andava
sciogliendosi, come a volte fa il ghiaccio nelle pozze, formando
frammenti di ombra e luce, i contorni della grande montagna si
facevano sempre più nitidi, ma pure non si distinguevano ancora gli
alberi e le case, ci sarebbero voluti un bel po’ di minuti, prima
che tutto diventasse chiaro.
Martìn, in quegli istanti che non erano più notte e
che non erano ancora giorno, avvertì una volta di più la presenza
di un suo vecchio compare: il tempo. Più andava avanti negli anni e
più subiva, come fosse una presenza concreta, quello che per tutti
noi è soltanto un concetto astratto: il tempo, appunto.
Martìn avvertiva il tempo, in modo fisico, molto più
reale del ticchettio della sveglia o del suono cadenzato della
pendola. Quando ancora stava nella vecchia casa, sentiva i passi del
tempo che salivano le scale di pietra, consumandole ogni giorno un
po’ di più, sentiva il tempo adagiarsi placido sugli stampi di
rame appesi alle pareti, che a ogni Pasqua si facevano più scuri,
era quello, il periodo di Pasqua, il momento di lucidarli, ma nessuna
pulitura poteva più riportarli all’antico splendore.
Come gli uomini, pensava. Come gli uomini.
Il tempo non si arrestava mai, nemmeno là dove era
adesso. Non lo fermava la soglia di quella camera così straniera.
Ecco, oggi il tempo aveva scelto di sedergli accanto sul
letto e, sfiorandogli il viso con mano leggera, gli imprimeva ancora
un’altra ruga e gli rubava attimi preziosi di vita. «Adesso o mai
più», si disse Martìn «tra un po’ non ne avrò più la forza».
Allora, con fare deciso l’uomo si alzò, si scrollò dalle spalle
quell’ingombrante presenza sempre più difficile da sopportare, si
versò il caffè bollente, poi, distrattamente, si avvicinò alla
finestra e guardò fuori e si perse lungo il filo dei ricordi.
Il cielo a oriente aveva preso quel colore che pochi
conoscono, perché in pochi spiano il cielo prima del sorgere
dell’alba; il cielo adesso aveva quel colore indaco che può vedere
solo chi lo guarda da un angolo del Paradiso.
Oramai anche il grande faggio, che sovrastava di alcuni
metri il profilo uniforme del bosco ceduo, si distingueva benissimo.
Martìn era affezionato al grande albero, ottanta anni prima era
forse un po’ meno maestoso e un po’ più isolato di quanto lo
vedesse ora, ottanta anni sono tanti, anche per un albero e per un
bosco. Forse è stato proprio per quello, per il suo isolamento,
aveva scelto quel faggio come suo totem, vi aveva costruito sopra
casette di ogni foggia, una addirittura, l’aveva composta a forma
di nido, intrecciando rami di betulla come aveva visto fare al nonno
per costruire le ceste.
Chissà se Martìn sorrise al ricordo o se scacciò
quell’emozione con un gesto brusco della mano a toccarsi la testa,
glielo aveva insegnato suo padre quel gesto; era un metodo
infallibile per dimenticare i brutti sogni.
Caro lettore, spero perdonerai se a questo punto mi
rivolgo direttamente a te in prima persona e, contro ogni regola di
scrittura, interrompo il mio raccontare per fare una precisazione,
forse oziosa per alcuni, ma per me molto importante. Scrivere delle
vite altrui, pur con l’aiuto di una goccia di fantasia, è
un’impresa difficile, soprattutto se non si vuole ricorrere alla
menzogna per ricostruire i pezzi mancanti, con l’effetto devastante
di certe ripitture dentro gli antichi affreschi. Se si vuole rimanere
il più possibile onesti, occorre saper accettare qualche spazio
bianco dentro il quadro, là dove il restauratore ignora cosa vi
fosse dipinto, e chi scrive non sa e non saprà mai cosa sia successo
a Martìn nei momenti appena dopo aver bevuto il suo caffè bollente.
Ritroviamo l’uomo già in cammino sulla montagna, ben
oltre il grande faggio. Il giorno affondava ancora in quella
tenerezza che hanno tutti i cuccioli e la notte nascondeva appena una
rancorosa malinconia, come certi vecchi, che contano i giorni
mancanti al lungo addio. Il sentiero adesso spianava e l’orizzonte
si apriva sul grande muro di pietra, finemente intagliato dal
Creatore, delle Dolomiti di Brenta.
Sarebbe facile per chi scrive questa storia creare
un’atmosfera adatta al racconto, e narrarvi dei grandi silenzi e
della pace che circondava l’uomo in quell’alba d’autunno, ma
non sarebbe la verità, e allora, per quel pessimo vizio dell’onestà,
vi devo dire, che no, non è cosi, non è vero che in montagna ci sia
il Silenzio, ci sono solo rumori diversi, ecco tutto. Il brusio delle
autostrade, giù nelle valli, arriva su sino a tremila metri, puoi
sentire il rumore secco di uno sparo lontano dieci chilometri e lo
schianto di un ramo, apparentemente senza motivo, ti fa voltare di
scatto. Spesso, soprattutto nella stagione di cui vi sto parlando, si
sente il frastuono delle motoseghe, non c’è nulla di cui
scandalizzarsi è la vita della montagna. A volte, invece, è il
fruscio del volo radente di qualche grosso volatile a farti
sobbalzare, o l’abbaiare senza fine dei cani di qualche contrada
dispersa. Il rumore sordo dei jet di linea, lassù a dodicimila
metri, si confonde e si mescola con il sussurro del vento, ma
soprattutto, in queste strane albe autunnali, puoi sentire lo
scalpiccio delle stelle che corrono nel cielo per prendersi il posto
migliore dall’altra parte dell’orizzonte.
La musica delle stelle, le parole del vento, sorrise il
vecchio Martìn, «cagate» sospirò, «tutte cagate, immaginate da
scrittorucoli falliti per fare colpo sui fessi di città che,
assordati da rumori di ogni genere, sognano un mondo incantato che
non esiste e che non è mai esistito. Gli sciocchi comprano libri che
parlano di montagna, pieni di aria pura, pieni di aria fritta»,
bofonchiò ancora tra sé e sé il vecchio.
Le città, oh le città, le aveva conosciute lui le
città, e aveva conosciuto anche gli uomini e le donne che vi
abitavano e a volte ne provava persino qualcosa di simile alla
nostalgia, questo gli accadeva soprattutto quando pensava alle grandi
librerie e ai cinema.
Martìn, si fermò per breve istante e si accese un
mozzicone di sigaro toscano che era riuscito a nascondere nonostante
la stretta sorveglianza delle inservienti. Certo, costruire un
ospizio per anziani proprio al centro del paese non è stata una
cattiva idea, si poteva persino fingere di continuare a stare in casa
propria, invece che al ricovero.
Solo fingere però, pensò l’uomo, mentre aspirava voluttuosamente
il fumo acre. Comunque non è stata proprio una cattiva idea, no; di
notte poi, c’era solo una signorina che, beata gioventù, se la
dormiva sempre della grossa, così non era difficile uscire
indisturbati per poi presentarsi puntuali in sala mensa per la
colazione.
Oggi però non ci sarebbe stata colazione, «oggi si fa
a modo mio altroché.» Allungò il passo, Martìn, la voglia di
arrivare a guardare oltre era rimasta la stessa di cinquanta anni
prima e poco importava se il cuore brontolava, «io brontolo più
forte », si disse, a voce alta il mio vecchio amico. Parlare da solo
a voce alta, era un’abitudine che aveva sin da quando era bambino e
che gli aveva procurato, negli anni, più di un imbarazzo. Alcuni
corvi si alzarono in volo, sicuramente avevano sentito la voce del
vecchio, ma, come sempre fanno i corvi, assunsero un’aria di
superiore indifferenza.
Avanti di arrivare sulla prima cresta da dove poteva
guardare oltre, si voltò verso la contrada, laggiù in basso, più
nulla era rimasto uguale al tempo in cui lui quelle strade le faceva
correndo. Per un attimo provò una tenerezza infinita immaginando,
dai camini che avevano incominciato a fumare o dalle finestre che si
illuminavano una a una, chi fosse già sveglio e chi invece ancora
indugiasse tra le lenzuola. Solo, faceva attenzione che il suo
sguardo non incrociasse mai sulla grande costruzione, che negli
ultimi mesi era diventata la sua dimora, mai l’avrebbe chiamata
casa, huam nella sua lingua antica. No, proprio niente era rimasto
uguale. Il grande letamaio, davanti a quella, che invece era stata
la sua vera casa, era scomparso ormai anche dai ricordi.
Tutto questo indugiare per la verità è alquanto
strano. Se voi, infatti, aveste incontrato anche una sola volta il
vecchio Martìn, sapreste che non era uomo da voltare le spalle e
guardarsi indietro. Mai, per esempio, mi raccontò delle guerre o
della fame oppure della fatica di spaccare pietre o di quella di
tirar su case in giro per mezza Europa e solo per caso venni a sapere
di quella volta che, cadendo da sette, otto metri, si vide venire
incontro i ferri piantati nel cemento ma, grazie ad un ultimo
disperato colpo di reni, da saltatore in lungo, riuscì ad atterrare
su di un mucchio di sabbia e dopo qualche momento di sconcerto,
risalì in cima al ponteggio e ricominciò il lavoro da dove lo aveva
interrotto cadendo.
No, il vecchio non mi raccontava di quelle cose, amava
piuttosto raccontarmi dei letamai e della loro scomparsa, come quel
poeta che raccontava della scomparsa delle lucciole, lui, la fine del
suo mondo e del suo tempo lo identificava con la fine dei mucchi di
letame per strada, già, infatti, lui non era un poeta. Credo che
Martìn, nemmeno sapesse di bestemmiare, quando diceva che Gesù
Cristo si sbagliò, e di molto, quella volta che ordinò ai suoi:
«Siate il sale del mondo». Il sale non sfama, ripeteva sempre, ma
distorce il sapore del cibo e, se messo nei campi li sfrutta, non li
nutre. Avrebbe dovuto dire quell’uomo di Palestina: «Siate il
letame del mondo», lo stallatico da cibo alla terra e la terra da
cibo all’uomo e poi certi monsignori con le croci e i gemelli al
polso di oro massiccio avrebbero toccato ogni giorno la loro
contraddizione, invece così… «Ma cosa vuoi che ne sapesse un
falegname di terra e di campi» Concludeva indulgente verso quel
Cristo cui, aldilà di tutto, voleva bene, specialmente quando vi
premetteva l’aggettivo, povero.
Povero Cristo.
La fede di Martìn, nel suo Dio povero, aveva tremato
più volte, come una giovane betulla scossa dalle incornate di un
cervo, la morte di un figlio di vent’anni ne ha la stessa
devastante potenza, ma alla fine, il suo credo rimase saldo, senza
recedere di mai di un solo passo.
Insomma, non era proprio un sentimentale il vecchio,
eppure oggi, guardando là sotto quella casa, che per generazioni
aveva accolto la sua famiglia, sentiva che qualcosa dentro di lui non
andava come avrebbe dovuto, a novanta anni sentiva forte la voglia di
piangere senza ritegno come un bimbo abbandonato, ecco che cosa era:
un bimbo abbandonato. Il nido era vuoto e ben presto sarebbe stato
invaso dai rovi, nessuno si sarebbe accorto della quercia caduta,
nessuna capinera avrebbe mai pianto.
Rimaneva solo lui a farlo. Lui da solo.
Il sole oramai forava il bosco di faggio con raggi
obliqui, spade di luce dorata facevano brillare i piccoli moscerini
che, nonostante la stagione riempivano a tratti, l’aria. Quella
follia di andarsene in giro per la montagna nel giorno del suo
compleanno, era certo non glielo avrebbero mai perdonato i figli e in
fondo all’anima sentiva un vago senso di colpa, ma oramai era
troppo tardi per i ripensamenti e poi, a dire il vero, Martìn non
era uso a tornare sui propri passi e questo nella sua vita gli era
costato ben più di qualcosa.
Senza nemmeno accorgersene l’uomo arrivò nelle
vicinanze della piramide di pietre che in altri tempi indicava il
cammino verso la cima, quel menndle,
ometto, lo aveva iniziato lui stesso, accatastando due grandi
ammoniti poi, per anni, le persone che passavano di là, vi
aggiungevano una pietra e ora, la costruzione, pur parzialmente
franata, superava ancora l’altezza di un uomo. Più per
consuetudine, che per precisa volontà, Martìn prese una pietra da
terra e la pose sopra il segnavia. Fu allora, che tutto attorno a lui
cambiò o almeno sembrò cambiare.
Il vecchio non capiva più fino a che punto arrivasse la
realtà e dove incominciasse l’illusione dei sensi, o meglio, dove
finiva la ragione e incominciasse la demenza senile. L’ampio pendio
di erba secca, già preda delle prime gelate autunnali,
improvvisamente fu tutto un fiorire di genziane blu come il cielo e
grosse macchie di giacinti selvatici bianchi e rossi e viola
odoravano l’aria del loro profumo. Da in fondo al sentiero, una
figura di donna, inconfondibile, veniva verso di lui, con passo agile
come di capriolo. «Anute» Mormorò il mio vecchio amico. «Anute!
No, non puoi essere tu». La figura si fermò a due passi e sorrise,
come sanno sorridere le donne delle nostre montagne, gli occhi verdi
come i larici di maggio brillavano di allegrezza appena velata di
sottile ironia. «Quanto la fai lunga, Martìno, sono io, chi vuoi
che sia, dopo sessanta anni camminati assieme, dovresti
riconoscermi.»
«Ho gli occhi stanchi Anute e la mente che vacilla, io
so che siamo a novembre e invece questo prato ha i colori della
primavera, ho pregato a lungo sulla tua tomba e invece ora sei qui
davanti a me e io non so darmi spiegazioni.»
Un vento colorato incominciò a soffiare, dapprima
piano, poi sempre più forte. Le cime degli abeti si muovevano come
il mare in attesa della tempesta, imprevista sembrò vorticare
perfino la neve, ma neve non era, solo petali di rose, che mulinavano
nell’aria senza mai toccare terra. «Anute, che stagione è mai
questa?»
Per risposta arrivò solo il silenzio, quell’immenso
silenzio che non esiste sulla montagna, ma che è il riflesso del
nostro cuore, quell’assenza di suoni, che la nostra anima a volte
desidera sentire, anche in mezzo al traffico della città.
«Stagione stramba», arrivò appena a pensare Martìn e
Anute parve dissolversi in una nebbia gialla che lentamente prendeva
il colore e la consistenza della polvere d’oro, di questo
naturalmente Martìn dei Prudar non poteva accorgersi, non avendo mai
visto in vita sua la polvere d’oro. Aveva un gusto amaro in bocca e
la testa gli girava come se fosse ubriaco di assenzio. «E forse lo
sono per davvero ubriaco» pensò, perché, dal fianco della
montagna, che ora gli appariva coperta di neve vera, arrivò potente
un grido: «Tatta. Papà.» A passi doppi si stava avvicinando
rapidamente un ragazzone con il volto bruciato dal sole dei
ghiacciai. «Paul» gridò Martìn, allargò le braccia e corse
incontro al figlio per abbracciarlo. Quel figlio, che lui non aveva
voluto vedere nel gelo della morte, ora gli veniva incontro vivo,
avvolto di neve. «Paul» urlò ancora con tutta la voce che a
novant’anni poteva trovare e non gli importava più nulla se ciò
che accadeva fosse vero, se fosse un inganno della sua mente, se la
sua mente lo stesse lasciando o se fosse la vita stessa a lasciarlo.
Paul, suo figlio, era con lui e niente altro oramai
importava.
Lo trovammo così, il mio vecchio amico, con il sorriso
sulle labbra, gli occhi aperti che continuavano a guardare il correre
delle nuvole e le braccia larghe come per abbracciare il paradiso.
Aveva seguitato a salire anche quando la montagna era finita. Dove il
blu cobalto del firmamento si adagia sulla terra e ne disegna il
profilo delle vette, lui non si era fermato, il mio amico Martìn per
primo aveva arrampicato il cielo.
In paese ci fu del trambusto. Si parlò di inspiegabile
incidente. Qualcuno accusò la casa di riposo di omessa sorveglianza,
ma poi tutto finì con una severa ramanzina alle assistenti, perché
alla fine tutti dovettero ammettere che quello non era un carcere e
che le persone sane potevano entrare e uscire con giusta libertà e
Martìn era sicuramente sano, nonostante i suoi novanta anni.
Una cosa però non si riuscì mai a spiegare, tanto che
con il passare degli anni si incominciò a dire che fosse solo una
leggenda, messa in giro per chissà quali reconditi motivi, ma io che
ne sono stato testimone posso confermarlo; nella mano destra chiusa a
pugno, Martìn teneva alcuni giacinti selvatici, freschi come appena
colti, è una cosa strana questa, perché quei fiori delicati
fioriscono solo a Maggio e per pochi giorni e quando Martìn cadde, o
salì, verso il cielo era la metà di novembre. E fatto ancora più
strano, ma io ho visto e posso testimoniare, tra i capelli aveva dei
petali di rosa.
Ecco perdonate, con tutte queste parole ho cercato di
spiegare il mistero dei giacinti e dei petali di rosa, ricorrendo
anche, lo ammetto, a quelle obbrobriose ripitture per ricomporre
l’affresco perduto, ma rimango convinto, che così sia andata e mi
auguro solo, quando verrà il mio tempo, di avere anch’io la forza
per arrampicare il cielo come mi ha insegnato lui: Martìn dei
Prudar.
Così è andata.
Andrea Nicolussi Golo
Grazie Andrea per questo bel racconto, anche a me ( e penso a molti altri) piacerebbe finire con i petali di rosa, invece temo che le rose, se ci va bene, saranno solo quelle del fiorista.....
RispondiEliminaAndaloche Golo, .. a ti si proprio bravéto, setu, a farghe le gatele ai letori intei posti giusti. A go caro a lexerte, anca se ale volte te sarissi na sciantina massa sbrodoloso pai me gusti. Comunquemente brao, desso bion ca me procure el to novo libro. Statento che par casa a no go mia tole che bala.
RispondiEliminaGli altri muoiono, è un fatto! Ma io non sono un altro, dunquemente non dovrei morire. Purtroppamente è anche vero che il primo requisito per l'immortalità è la morte medesima stessa, quindi la cosa si fa na sciantina complicata. Bruta roba vegner veci, ciò!
RispondiEliminaA chi che te ghe lo disi!!!! Lo ripeteva spesso anche
RispondiEliminaun certo Valentin C. anche se era per altri motivi!!!
Sì Don in effetti è sbrodoloso. Sono vecchi racconti di quando pensavo appunto a far le gatele ai lettori. Il mio ultimo libro e quelli che seguiranno (forse) non hanno più questi obbiettivo. Piano piano si impara. E si invecchia.
RispondiEliminaEh, già, ... la vecchiaia è la più inattesa tra tutte le cose che possono capitare ad un uomo.
EliminaL’esperienza è nelle dita e nella testa. Il cuore non ha esperienza. E per questo che non invecchia mai.
Elimina@DS : Trotski ha detto giusto, purtroppamentemente ! Chi si prepara alla vecchiaia ? "La vieillesse est un naufrage" = la vecchiaia è un naufragio, diceva De Gaulle. Un naufragio è inatteso.
Oggi, dei genetisti dicono che la vecchiaia potrebbe essere un problema di salute e non di usura normale del corpo...E se fosse il cuore ad aver ragione ?
Ho letto con grande piacere questo racconto forse, ma non solo, perchè anch'io vorrei che qualcuno mi desse ragione di una farfalla bianca che mi aspettava in cucina, al ritorno dall'ospedale, il giorno in cui è morta la mia mamma: era il 26 gennaio 2014. Per tre giorni ogni tanto appariva con qualche piccolo, esitante volo, finchè una sera si fermò vicino ai miei piedi, mentre ero seduta a guardare la televisione e lì la trovai morta la mattina dopo. Complimenti Andrea e grazie
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