lunedì 12 dicembre 2016

Martin dei Prudar - una storia vera - di Andrea Nicolussi Golo

Con il racconto che segue ho vinto il primo premio tra gli inediti al premio "Leggimontagna di Tolmezzo" organizzato dall'ASCA sezione del  CAI e dalla regione Friuli. 
Ho avuto l'onore di essere premiato dall'Assessore alla cultura della regione Friuli che è anche presidente della Fondazione Dolomiti UNESCO. Questa la motivazione del premio:

Le ultime ore di Martin dei Prudar sono raccontate nella cornice di un crudo autunno: “stagione cinica e senza cuore”. Ogni momento del paesaggio annuncia l’avanzata del freddo, l’abbandono delle energie vitali. Il villaggio alpino che ospita la casa di riposo è diventato estraneo al vecchio Martin quanto gli squilli dei (detestati) cellulari. Violare i regolamenti è pertanto affermazione di sé. Decide questa volta di salire la montagna per abbandonare la prigione in cui è confinato. Ogni suo passo verso la cima gli consente di ignorare il “frastuono degli anni nuovi”, di recuperare faticosamente nei sentimenti famigliari più profondi il senso dell’esistenza. Anute, la compagna di vita, e Paul, il figlio perduto, lo accolgono in una nuova primavera. La serenità della fine è raccontata dai petali di rosa che inspiegabilmente troveranno tra i suoi capelli. Nel crudo novembre il sorriso sulle sue labbra testimonia la scalata al cielo, la fine del mondo inerte e insensibile da cui era stato circondato."



Martìn dei Prudar:
una storia vera.

No, non è vero, si sbaglia chi crede che l’autunno sia solo stagione di malinconica dolcezza, al contrario, i suoi colori spaccano la montagna come il gracchiare dei corvi spacca il cielo. L’autunno è uno sfrido d’acciaio che, affilato, arriva all’anima e sa far male.
«Vedi ragazzo», sussurrava, e la sua voce era per me, giovane uomo inquieto, una carezza inusitata, «vedi ragazzo, l’inverno è addomesticato dal dolce cadere della neve che per un attimo sa placare l’ansia del nostro cuore. La primavera, con i suoi colori lievi e le tenere foglie dei faggi, così succose in bocca, ti ricorda che qualunque cosa accada, la vita continuerà, anche se tu non ci sarai più, anche se nessun uomo o donna ci saranno più e questa speranza ti regala una briciola di pace; comprendi, in primavera, che tutti i tuoi affanni e tutte le tue corse, alla fine saranno state inutili, non basteranno ad allontanare nemmeno di un minuto la tua ultima ora. E l’estate? Ah l’estate delle grandi, grasse, nuvole bianche, adagiate qua e là tra le cime. È la stagione perfetta, l’estate, per rimanere sotto un abete con il naso rivolto al cielo e sognare altre terre e altri cieli e in quelle notti tiepide, odorose di resina, immaginare, tra le stelle, animali misteriosi, che da lassù, dal firmamento, regolano con saggezza la tua piccola esistenza e tu, smarrito, respiri una serenità smisurata come quegli astri infiniti. L’autunno, invece, è una scheggia di specchio tagliente che riflette la tua miseria e incide il solco della tua vita ogni volta di più.»
Così la pensava, e così a me raccontava, Martìn dei Prudar, ma lui, d’autunno, c’era pur sempre nato e ad ogni autunno contava un anno di più e allora, in fondo, non poteva che amarla quella stagione cinica e senza cuore.
Il mattino in cui Martìn arrivava a contare novanta di quelle stagioni ciniche e senza cuore, si svegliò ancora prima del solito e avanti che la piccola sveglia a carica manuale facesse sentire il suo trillo meccanico, con la mano aveva già disinserito la levetta arrugginita e poi tra pollice e indice girava la corona che dava corda al meccanismo, antiquato, ma ancora straordinariamente preciso. Il ticchettio dell’orologio riempiva la stanza che Martìn condivideva con un altro vecchio, come lui lasciato ai bordi della vita, dentro una casa di riposo. La coperta della notte autunnale ricopriva ancora il mondo intero, perlomeno, quella parte di mondo che Martìn conosceva (del rimanente non se ne occupava affatto) e non accennava nemmeno a sollevarsi.
Non si preoccupò di farsi luce, Martìn, non voleva disturbare il compagno di cella, come chiamava a volte l’uomo con cui condivideva quel piccolo spazio, ma anche al buio non aveva preoccupazioni di sorta, sapeva bene cosa fare senza bisogno di vedere. Da tanto tempo ormai, per abitudine, ogni sera, quando si spogliava, riponeva con attenzione le sue cose in bell’ordine sulla testiera di ferro del letto, in modo da poterle raggiungere anche con gli occhi chiusi, senza nemmeno doversi alzare dal materasso ortopedico.
Così, quel mattino, come sempre, Martìn allungò il braccio e prese le grosse calze di lana, erano ancora quelle che gli aveva fatto la moglie tanti anni prima, fatte apposta per mettere negli scarponi, al tempo in cui andava a spaccar pietre, lassù nella cava. Poi con calma indossò i suoi vecchi pantaloni di fustagno, ora nei negozi di città andavano persino di moda quei pantaloni, li chiamavano: di velluto a coste larghe. Quella volta, il figlio più grande, pensando di fargli uno scherzo, gliene regalò un paio di un bel colore rosa, ma lui, Martìn, non si scompose e li portò a lungo e con orgoglio i suoi pantaloni di fustagno rosa. E adesso, benché fossero tutti spelacchiati, aveva scelto proprio quelli da indossare in quel giorno così importante. I pantaloni rosa.
La piccola sveglia dorata continuava imperterrita a battere il tempo con tocchi che rimbombavano nel silenzio della stanza, erano, quei tocchi, come il battere secco della scure su un tronco di larice d’inverno. Il vecchio, così lo chiamo oggi, scrivendo, perché so che lui non potrà più leggere i miei scarabocchi, altrimenti non sfuggirei alla sua ira. Bene, il vecchio, dicevo, terminò di vestirsi con cura, ché fuori la brina sfavillava alla luce di uno spicchio di luna, e a naso, dovevano essere ben più di dieci gradi sotto allo zero.
Finito di vestirsi, Martìn si versò il solito bicchiere di acqua dalla brocca che teneva sul comodino quindi, con passo fermo andò in bagno, zo soacha, come chiamava lui l’azione fisiologica dell’urinare, poi si rinfrescò la faccia con l’acqua gelida, così che tutti i cattivi pensieri che la notte era solita portargli scomparvero come un filo di fumo nel vento. Con la piccola forbice si spuntò la barba, bianca di anni e di fatiche e alla fine si avviò verso l’angolo più lontano della camera, dove, sopra un mobiletto d’acciaio, teneva una di quelle piccole stufette rotonde a spirale alimentate a elettrico. Quell’aggeggio, il vecchio se lo portava dietro da anni, dal tempo in cui girava ancora la regione per tirare su case o dighe o dovunque ci fosse bisogno di gente che sapesse mettere una pietra sopra un’altra con la dovuta maestria. Lo aveva comprato, quel fornelletto, in quella ferramenta famosa, nella via centralissima della città di Trento, la bottega ora non esisteva più da tempo, prima vi avevano fatto un supermercato, poi un negozio di tappeti, infine vi si vendevano detersivi e oggi, forse, al suo posto c’era una banca.
Anche la città era profondamente cambiata negli anni.
L’uomo infilò la spina nella presa di corrente e preparò la moka e, mentre aspettava che la piccola piastra prendesse calore, si sedette sul bordo del letto e chiuse gli occhi, cercando di fare il vuoto dentro la testa, di non pensare a nulla. La cosa però, non gli riusciva facile, oggi era un giorno speciale, sarebbero arrivati i figli, tutti, o almeno quelli che erano ancora in vita. Quattro, erano quelli che gli erano rimasti, uno lo aveva perduto, gli era morto, travolto da una valanga sul Monte Bianco un’eternità di tempo prima.
Ci sarebbero stati i nipoti e le nuore, perché ognuno, a suo modo, aveva il desiderio di stare vicino al nonno in quel giorno che doveva essere di festa. Ma lui, il vecchio Martìn, sapeva che non sarebbe riuscito a far felice nessuno, il suo mondo era scomparso da così tanti anni, che ogni volta che gli capitava di incontrare gente, anche la sua gente, aveva l’impressione di viaggiare nel futuro e questa cosa non gli piaceva proprio. No, non gli piaceva per nulla.
La vita, nel suo pazzo correre, lo aveva stropicciato un bel po’ quell’uomo, ma non era mai riuscita a strapparne la trama, fatta di ruvida fibra di iuta come quella dei sacchi per le patate o per le lenzuola per raccogliere il fieno. Nemmeno le disgrazie più grandi, la morte di un figlio, erano riuscite a fargli cambiare il suo modo di esistere. Ora però il frastuono degli anni nuovi, che principiavano con il numero due, lentamente, quasi senza darsene per inteso, lo stava piegando. Sentiva che non era più capace di ritrovare, nemmeno per un momento, quella dolce e serena tranquillità, che poteva persino somigliare a quel sentimento, che lui mai avrebbe ammesso: la felicità. Sentiva pesare in maniera indefinita sopra lo stomaco, quel fatto di non riuscire più a restare da solo con i propri pensieri. Da qualche tempo ci si erano messi di mezzo anche i nipoti, lo avevano persino dotato, come diceva lui, di uno di quei piccoli telefoni che ti seguono dovunque perché non abbisognano di filo. Per il vecchio, nato al tempo del telegrafo, quel piccolo arnese aveva il valore di un miracolo, e all’inizio, infatti, lo accettò con gratitudine, anche se la precisazione con cui i nipoti glielo consegnarono, lo fece andare su tutte le furie: «È fatto apposta per le persone anziane, nonno, ha solo due tasti e i numeri grandi», gli spiegarono.
«Beh, intanto io non sono anziano ma vecchio, che è tutta un’altra cosa, e anche questo è poi da vedere, vecchio rispetto a chi, il Peatar ha tre anni meno di me e lui sì è vecchio e rincoglionito io, per mia fortuna, ho ancora tutti i sentimenti al loro posto, carina.» Pronunciò la frase tutta in un soffio e quando si accorse di essere guardato con severità, forse per farsi perdonare, allungò una leggera carezza alla più piccola delle nipoti, che poteva avere, sì e no, otto o nove anni. I figli, ma soprattutto le nuore, quando Martìn si esprimeva in maniera un po’ rustica lo guardavano di traverso, i nipoti, invece, se la ridevano di gusto e trovavano conferma nella loro opinione che, il vecchio fosse un po’ andato.
Quel piccolo marchingegno elettronico di un bel colore rosso acceso che teneva sprofondato in una tasca dei pantaloni, all’apparenza così innocuo, si rivelò presto un supplizio, aveva il potere di suonare nei momenti più inopportuni, sembrava lo facesse apposta; quando lui era sull’apòrt, la tazza del water, con i pantaloni calati, oppure quando aveva le braccia occupate dalla legna, o stava cercando di addomesticare il fuoco. Perché il fuoco coltiva ancora un’anima ribelle e a volte non vuole proprio saperne di sottomettersi all’uomo che l’aveva domato in tempi lontani e allora occorre tutta la pazienza del mondo e soffiare alla giusta maniera alla base dei saitla, i pezzettini di legno scelti tra i più secchi della catasta.
Un giorno il diabolico ordigno incominciò la sua stizzosa musichetta proprio mentre Martìn stava osservando incantato il gioco di corna tra due giovani caprioli e uno dei due era bianco latte. Avvertiti, i selvatici sparirono in un attimo nel fitto del bosco. Quel giorno il vecchio si prese la soddisfazione di lanciarlo sul fondo di un burrone, dove il piccolo telefono continuò a suonare a lungo. «L’ho perso», si giustificò con i nipoti. Ne avrebbe persi ancora altri in seguito, sino a quando i figli capirono che era inutile dotare il vecchio padre di collare elettronico come un orso indisciplinato.
Ora la moka da sei gorgogliava allegra e la notte andava sciogliendosi, come a volte fa il ghiaccio nelle pozze, formando frammenti di ombra e luce, i contorni della grande montagna si facevano sempre più nitidi, ma pure non si distinguevano ancora gli alberi e le case, ci sarebbero voluti un bel po’ di minuti, prima che tutto diventasse chiaro.
Martìn, in quegli istanti che non erano più notte e che non erano ancora giorno, avvertì una volta di più la presenza di un suo vecchio compare: il tempo. Più andava avanti negli anni e più subiva, come fosse una presenza concreta, quello che per tutti noi è soltanto un concetto astratto: il tempo, appunto.
Martìn avvertiva il tempo, in modo fisico, molto più reale del ticchettio della sveglia o del suono cadenzato della pendola. Quando ancora stava nella vecchia casa, sentiva i passi del tempo che salivano le scale di pietra, consumandole ogni giorno un po’ di più, sentiva il tempo adagiarsi placido sugli stampi di rame appesi alle pareti, che a ogni Pasqua si facevano più scuri, era quello, il periodo di Pasqua, il momento di lucidarli, ma nessuna pulitura poteva più riportarli all’antico splendore.
Come gli uomini, pensava. Come gli uomini.
Il tempo non si arrestava mai, nemmeno là dove era adesso. Non lo fermava la soglia di quella camera così straniera.
Ecco, oggi il tempo aveva scelto di sedergli accanto sul letto e, sfiorandogli il viso con mano leggera, gli imprimeva ancora un’altra ruga e gli rubava attimi preziosi di vita. «Adesso o mai più», si disse Martìn «tra un po’ non ne avrò più la forza». Allora, con fare deciso l’uomo si alzò, si scrollò dalle spalle quell’ingombrante presenza sempre più difficile da sopportare, si versò il caffè bollente, poi, distrattamente, si avvicinò alla finestra e guardò fuori e si perse lungo il filo dei ricordi.
Il cielo a oriente aveva preso quel colore che pochi conoscono, perché in pochi spiano il cielo prima del sorgere dell’alba; il cielo adesso aveva quel colore indaco che può vedere solo chi lo guarda da un angolo del Paradiso.
Oramai anche il grande faggio, che sovrastava di alcuni metri il profilo uniforme del bosco ceduo, si distingueva benissimo. Martìn era affezionato al grande albero, ottanta anni prima era forse un po’ meno maestoso e un po’ più isolato di quanto lo vedesse ora, ottanta anni sono tanti, anche per un albero e per un bosco. Forse è stato proprio per quello, per il suo isolamento, aveva scelto quel faggio come suo totem, vi aveva costruito sopra casette di ogni foggia, una addirittura, l’aveva composta a forma di nido, intrecciando rami di betulla come aveva visto fare al nonno per costruire le ceste.
Chissà se Martìn sorrise al ricordo o se scacciò quell’emozione con un gesto brusco della mano a toccarsi la testa, glielo aveva insegnato suo padre quel gesto; era un metodo infallibile per dimenticare i brutti sogni.
Caro lettore, spero perdonerai se a questo punto mi rivolgo direttamente a te in prima persona e, contro ogni regola di scrittura, interrompo il mio raccontare per fare una precisazione, forse oziosa per alcuni, ma per me molto importante. Scrivere delle vite altrui, pur con l’aiuto di una goccia di fantasia, è un’impresa difficile, soprattutto se non si vuole ricorrere alla menzogna per ricostruire i pezzi mancanti, con l’effetto devastante di certe ripitture dentro gli antichi affreschi. Se si vuole rimanere il più possibile onesti, occorre saper accettare qualche spazio bianco dentro il quadro, là dove il restauratore ignora cosa vi fosse dipinto, e chi scrive non sa e non saprà mai cosa sia successo a Martìn nei momenti appena dopo aver bevuto il suo caffè bollente.
Ritroviamo l’uomo già in cammino sulla montagna, ben oltre il grande faggio. Il giorno affondava ancora in quella tenerezza che hanno tutti i cuccioli e la notte nascondeva appena una rancorosa malinconia, come certi vecchi, che contano i giorni mancanti al lungo addio. Il sentiero adesso spianava e l’orizzonte si apriva sul grande muro di pietra, finemente intagliato dal Creatore, delle Dolomiti di Brenta.
Sarebbe facile per chi scrive questa storia creare un’atmosfera adatta al racconto, e narrarvi dei grandi silenzi e della pace che circondava l’uomo in quell’alba d’autunno, ma non sarebbe la verità, e allora, per quel pessimo vizio dell’onestà, vi devo dire, che no, non è cosi, non è vero che in montagna ci sia il Silenzio, ci sono solo rumori diversi, ecco tutto. Il brusio delle autostrade, giù nelle valli, arriva su sino a tremila metri, puoi sentire il rumore secco di uno sparo lontano dieci chilometri e lo schianto di un ramo, apparentemente senza motivo, ti fa voltare di scatto. Spesso, soprattutto nella stagione di cui vi sto parlando, si sente il frastuono delle motoseghe, non c’è nulla di cui scandalizzarsi è la vita della montagna. A volte, invece, è il fruscio del volo radente di qualche grosso volatile a farti sobbalzare, o l’abbaiare senza fine dei cani di qualche contrada dispersa. Il rumore sordo dei jet di linea, lassù a dodicimila metri, si confonde e si mescola con il sussurro del vento, ma soprattutto, in queste strane albe autunnali, puoi sentire lo scalpiccio delle stelle che corrono nel cielo per prendersi il posto migliore dall’altra parte dell’orizzonte.
La musica delle stelle, le parole del vento, sorrise il vecchio Martìn, «cagate» sospirò, «tutte cagate, immaginate da scrittorucoli falliti per fare colpo sui fessi di città che, assordati da rumori di ogni genere, sognano un mondo incantato che non esiste e che non è mai esistito. Gli sciocchi comprano libri che parlano di montagna, pieni di aria pura, pieni di aria fritta», bofonchiò ancora tra sé e sé il vecchio.
Le città, oh le città, le aveva conosciute lui le città, e aveva conosciuto anche gli uomini e le donne che vi abitavano e a volte ne provava persino qualcosa di simile alla nostalgia, questo gli accadeva soprattutto quando pensava alle grandi librerie e ai cinema.
Martìn, si fermò per breve istante e si accese un mozzicone di sigaro toscano che era riuscito a nascondere nonostante la stretta sorveglianza delle inservienti. Certo, costruire un ospizio per anziani proprio al centro del paese non è stata una cattiva idea, si poteva persino fingere di continuare a stare in casa propria, invece che al ricovero. Solo fingere però, pensò l’uomo, mentre aspirava voluttuosamente il fumo acre. Comunque non è stata proprio una cattiva idea, no; di notte poi, c’era solo una signorina che, beata gioventù, se la dormiva sempre della grossa, così non era difficile uscire indisturbati per poi presentarsi puntuali in sala mensa per la colazione.
Oggi però non ci sarebbe stata colazione, «oggi si fa a modo mio altroché.» Allungò il passo, Martìn, la voglia di arrivare a guardare oltre era rimasta la stessa di cinquanta anni prima e poco importava se il cuore brontolava, «io brontolo più forte », si disse, a voce alta il mio vecchio amico. Parlare da solo a voce alta, era un’abitudine che aveva sin da quando era bambino e che gli aveva procurato, negli anni, più di un imbarazzo. Alcuni corvi si alzarono in volo, sicuramente avevano sentito la voce del vecchio, ma, come sempre fanno i corvi, assunsero un’aria di superiore indifferenza.
Avanti di arrivare sulla prima cresta da dove poteva guardare oltre, si voltò verso la contrada, laggiù in basso, più nulla era rimasto uguale al tempo in cui lui quelle strade le faceva correndo. Per un attimo provò una tenerezza infinita immaginando, dai camini che avevano incominciato a fumare o dalle finestre che si illuminavano una a una, chi fosse già sveglio e chi invece ancora indugiasse tra le lenzuola. Solo, faceva attenzione che il suo sguardo non incrociasse mai sulla grande costruzione, che negli ultimi mesi era diventata la sua dimora, mai l’avrebbe chiamata casa, huam nella sua lingua antica. No, proprio niente era rimasto uguale. Il grande letamaio, davanti a quella, che invece era stata la sua vera casa, era scomparso ormai anche dai ricordi.
Tutto questo indugiare per la verità è alquanto strano. Se voi, infatti, aveste incontrato anche una sola volta il vecchio Martìn, sapreste che non era uomo da voltare le spalle e guardarsi indietro. Mai, per esempio, mi raccontò delle guerre o della fame oppure della fatica di spaccare pietre o di quella di tirar su case in giro per mezza Europa e solo per caso venni a sapere di quella volta che, cadendo da sette, otto metri, si vide venire incontro i ferri piantati nel cemento ma, grazie ad un ultimo disperato colpo di reni, da saltatore in lungo, riuscì ad atterrare su di un mucchio di sabbia e dopo qualche momento di sconcerto, risalì in cima al ponteggio e ricominciò il lavoro da dove lo aveva interrotto cadendo.
No, il vecchio non mi raccontava di quelle cose, amava piuttosto raccontarmi dei letamai e della loro scomparsa, come quel poeta che raccontava della scomparsa delle lucciole, lui, la fine del suo mondo e del suo tempo lo identificava con la fine dei mucchi di letame per strada, già, infatti, lui non era un poeta. Credo che Martìn, nemmeno sapesse di bestemmiare, quando diceva che Gesù Cristo si sbagliò, e di molto, quella volta che ordinò ai suoi: «Siate il sale del mondo». Il sale non sfama, ripeteva sempre, ma distorce il sapore del cibo e, se messo nei campi li sfrutta, non li nutre. Avrebbe dovuto dire quell’uomo di Palestina: «Siate il letame del mondo», lo stallatico da cibo alla terra e la terra da cibo all’uomo e poi certi monsignori con le croci e i gemelli al polso di oro massiccio avrebbero toccato ogni giorno la loro contraddizione, invece così… «Ma cosa vuoi che ne sapesse un falegname di terra e di campi» Concludeva indulgente verso quel Cristo cui, aldilà di tutto, voleva bene, specialmente quando vi premetteva l’aggettivo, povero.
Povero Cristo.
La fede di Martìn, nel suo Dio povero, aveva tremato più volte, come una giovane betulla scossa dalle incornate di un cervo, la morte di un figlio di vent’anni ne ha la stessa devastante potenza, ma alla fine, il suo credo rimase saldo, senza recedere di mai di un solo passo.
Insomma, non era proprio un sentimentale il vecchio, eppure oggi, guardando là sotto quella casa, che per generazioni aveva accolto la sua famiglia, sentiva che qualcosa dentro di lui non andava come avrebbe dovuto, a novanta anni sentiva forte la voglia di piangere senza ritegno come un bimbo abbandonato, ecco che cosa era: un bimbo abbandonato. Il nido era vuoto e ben presto sarebbe stato invaso dai rovi, nessuno si sarebbe accorto della quercia caduta, nessuna capinera avrebbe mai pianto.
Rimaneva solo lui a farlo. Lui da solo.
Il sole oramai forava il bosco di faggio con raggi obliqui, spade di luce dorata facevano brillare i piccoli moscerini che, nonostante la stagione riempivano a tratti, l’aria. Quella follia di andarsene in giro per la montagna nel giorno del suo compleanno, era certo non glielo avrebbero mai perdonato i figli e in fondo all’anima sentiva un vago senso di colpa, ma oramai era troppo tardi per i ripensamenti e poi, a dire il vero, Martìn non era uso a tornare sui propri passi e questo nella sua vita gli era costato ben più di qualcosa.
Senza nemmeno accorgersene l’uomo arrivò nelle vicinanze della piramide di pietre che in altri tempi indicava il cammino verso la cima, quel menndle, ometto, lo aveva iniziato lui stesso, accatastando due grandi ammoniti poi, per anni, le persone che passavano di là, vi aggiungevano una pietra e ora, la costruzione, pur parzialmente franata, superava ancora l’altezza di un uomo. Più per consuetudine, che per precisa volontà, Martìn prese una pietra da terra e la pose sopra il segnavia. Fu allora, che tutto attorno a lui cambiò o almeno sembrò cambiare.
Il vecchio non capiva più fino a che punto arrivasse la realtà e dove incominciasse l’illusione dei sensi, o meglio, dove finiva la ragione e incominciasse la demenza senile. L’ampio pendio di erba secca, già preda delle prime gelate autunnali, improvvisamente fu tutto un fiorire di genziane blu come il cielo e grosse macchie di giacinti selvatici bianchi e rossi e viola odoravano l’aria del loro profumo. Da in fondo al sentiero, una figura di donna, inconfondibile, veniva verso di lui, con passo agile come di capriolo. «Anute» Mormorò il mio vecchio amico. «Anute! No, non puoi essere tu». La figura si fermò a due passi e sorrise, come sanno sorridere le donne delle nostre montagne, gli occhi verdi come i larici di maggio brillavano di allegrezza appena velata di sottile ironia. «Quanto la fai lunga, Martìno, sono io, chi vuoi che sia, dopo sessanta anni camminati assieme, dovresti riconoscermi.»
«Ho gli occhi stanchi Anute e la mente che vacilla, io so che siamo a novembre e invece questo prato ha i colori della primavera, ho pregato a lungo sulla tua tomba e invece ora sei qui davanti a me e io non so darmi spiegazioni.»
Un vento colorato incominciò a soffiare, dapprima piano, poi sempre più forte. Le cime degli abeti si muovevano come il mare in attesa della tempesta, imprevista sembrò vorticare perfino la neve, ma neve non era, solo petali di rose, che mulinavano nell’aria senza mai toccare terra. «Anute, che stagione è mai questa?»
Per risposta arrivò solo il silenzio, quell’immenso silenzio che non esiste sulla montagna, ma che è il riflesso del nostro cuore, quell’assenza di suoni, che la nostra anima a volte desidera sentire, anche in mezzo al traffico della città.
«Stagione stramba», arrivò appena a pensare Martìn e Anute parve dissolversi in una nebbia gialla che lentamente prendeva il colore e la consistenza della polvere d’oro, di questo naturalmente Martìn dei Prudar non poteva accorgersi, non avendo mai visto in vita sua la polvere d’oro. Aveva un gusto amaro in bocca e la testa gli girava come se fosse ubriaco di assenzio. «E forse lo sono per davvero ubriaco» pensò, perché, dal fianco della montagna, che ora gli appariva coperta di neve vera, arrivò potente un grido: «Tatta. Papà.» A passi doppi si stava avvicinando rapidamente un ragazzone con il volto bruciato dal sole dei ghiacciai. «Paul» gridò Martìn, allargò le braccia e corse incontro al figlio per abbracciarlo. Quel figlio, che lui non aveva voluto vedere nel gelo della morte, ora gli veniva incontro vivo, avvolto di neve. «Paul» urlò ancora con tutta la voce che a novant’anni poteva trovare e non gli importava più nulla se ciò che accadeva fosse vero, se fosse un inganno della sua mente, se la sua mente lo stesse lasciando o se fosse la vita stessa a lasciarlo.
Paul, suo figlio, era con lui e niente altro oramai importava.
Lo trovammo così, il mio vecchio amico, con il sorriso sulle labbra, gli occhi aperti che continuavano a guardare il correre delle nuvole e le braccia larghe come per abbracciare il paradiso. Aveva seguitato a salire anche quando la montagna era finita. Dove il blu cobalto del firmamento si adagia sulla terra e ne disegna il profilo delle vette, lui non si era fermato, il mio amico Martìn per primo aveva arrampicato il cielo.
In paese ci fu del trambusto. Si parlò di inspiegabile incidente. Qualcuno accusò la casa di riposo di omessa sorveglianza, ma poi tutto finì con una severa ramanzina alle assistenti, perché alla fine tutti dovettero ammettere che quello non era un carcere e che le persone sane potevano entrare e uscire con giusta libertà e Martìn era sicuramente sano, nonostante i suoi novanta anni.
Una cosa però non si riuscì mai a spiegare, tanto che con il passare degli anni si incominciò a dire che fosse solo una leggenda, messa in giro per chissà quali reconditi motivi, ma io che ne sono stato testimone posso confermarlo; nella mano destra chiusa a pugno, Martìn teneva alcuni giacinti selvatici, freschi come appena colti, è una cosa strana questa, perché quei fiori delicati fioriscono solo a Maggio e per pochi giorni e quando Martìn cadde, o salì, verso il cielo era la metà di novembre. E fatto ancora più strano, ma io ho visto e posso testimoniare, tra i capelli aveva dei petali di rosa.

Ecco perdonate, con tutte queste parole ho cercato di spiegare il mistero dei giacinti e dei petali di rosa, ricorrendo anche, lo ammetto, a quelle obbrobriose ripitture per ricomporre l’affresco perduto, ma rimango convinto, che così sia andata e mi auguro solo, quando verrà il mio tempo, di avere anch’io la forza per arrampicare il cielo come mi ha insegnato lui: Martìn dei Prudar.
Così è andata.
Andrea Nicolussi Golo

8 commenti:

  1. Grazie Andrea per questo bel racconto, anche a me ( e penso a molti altri) piacerebbe finire con i petali di rosa, invece temo che le rose, se ci va bene, saranno solo quelle del fiorista.....

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  2. Andaloche Golo, .. a ti si proprio bravéto, setu, a farghe le gatele ai letori intei posti giusti. A go caro a lexerte, anca se ale volte te sarissi na sciantina massa sbrodoloso pai me gusti. Comunquemente brao, desso bion ca me procure el to novo libro. Statento che par casa a no go mia tole che bala.

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  3. Gli altri muoiono, è un fatto! Ma io non sono un altro, dunquemente non dovrei morire. Purtroppamente è anche vero che il primo requisito per l'immortalità è la morte medesima stessa, quindi la cosa si fa na sciantina complicata. Bruta roba vegner veci, ciò!

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  4. A chi che te ghe lo disi!!!! Lo ripeteva spesso anche
    un certo Valentin C. anche se era per altri motivi!!!

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  5. Sì Don in effetti è sbrodoloso. Sono vecchi racconti di quando pensavo appunto a far le gatele ai lettori. Il mio ultimo libro e quelli che seguiranno (forse) non hanno più questi obbiettivo. Piano piano si impara. E si invecchia.

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    1. Eh, già, ... la vecchiaia è la più inattesa tra tutte le cose che possono capitare ad un uomo.

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    2. L’esperienza è nelle dita e nella testa. Il cuore non ha esperienza. E per questo che non invecchia mai.
      @DS : Trotski ha detto giusto, purtroppamentemente ! Chi si prepara alla vecchiaia ? "La vieillesse est un naufrage" = la vecchiaia è un naufragio, diceva De Gaulle. Un naufragio è inatteso.
      Oggi, dei genetisti dicono che la vecchiaia potrebbe essere un problema di salute e non di usura normale del corpo...E se fosse il cuore ad aver ragione ?

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  6. Ho letto con grande piacere questo racconto forse, ma non solo, perchè anch'io vorrei che qualcuno mi desse ragione di una farfalla bianca che mi aspettava in cucina, al ritorno dall'ospedale, il giorno in cui è morta la mia mamma: era il 26 gennaio 2014. Per tre giorni ogni tanto appariva con qualche piccolo, esitante volo, finchè una sera si fermò vicino ai miei piedi, mentre ero seduta a guardare la televisione e lì la trovai morta la mattina dopo. Complimenti Andrea e grazie

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