Natale di quasi mezzo secolo fa, quando io ero bambino, certo non
aveva lo sfarzo e lo spreco che hanno questi tempi, pieni di tutto
quanto si può immaginare. Le case, ora, si riempiono di regali, di
tavole imbandite, di musiche, di alberi e di presepi. Già dai primi di
novembre, appena dopo i “morti”, compaiono in giro i segni della festa
che dovrebbe essere di gioia per la nascita di Gesù, ma che si trasforma
in uno stucchevole avvenimento consumistico.
Attraversiamo, storditi e veloci, quei giorni di dicembre senza
cogliere il significato profondo di quel tempo in cui nasce il Cristo
degli umili e degli uomini che vogliono ascoltare il cuore. “Stàno no go
sentìo el Natale”, si sente sempre più spesso dire sconsolatamente… “Te
ricordito sti ani quando ca no gavivimo gnente?”. “Fursi jera pì belo
lora”.
Era proprio così un tempo, avevamo poco , ma ci accontentavamo e ce
lo facevamo bastare. Bastava un niente per sognare, per volare lontano
con la fantasia in un mondo incantato e di fiaba che avremmo voluto non
si sciogliesse come un fiocco di neve posato in una mano. Il “profumo”
di Natale calava con la neve dei primi di dicembre, quando la coltre
bianca copriva i campi, le case, gli orti e lo sguardo si spandeva
lontano tra il cielo e la terra confusi col niente. Erano inverni rigidi
e lunghi, con le strade ghiacciate per tanti mesi e tante volte anche
l’acqua in casa gelava nei tubi. Le stufe a legna riscaldavano solo la
cucina e nella camera, per “stemprare” un po’, si metteva la “mónega con
la fogàra e le bronse”, il resto della casa era un frigorifero.
Noi bambini aspettavamo con ansia le vacanze per andare a slittare
sulla “busa de Bastiano”, che costeggiava le scalette per Caltrano. Le
slitte di legno, se così si potevano chiamare, le costruivamo in casa
del “caporion” che era mio cugino Armando con “tole” tenute insieme con
dei chiodi di recupero arrugginiti, che mio nonno Bepi teneva in un
barattolo. Disegnavamo la curvatura degli scii con il profilo di un
piatto da cucina, che poi il buon Olinto de Muri generosamente
ritagliava con la sega a nastro. Assemblavamo il tutto tra lo strepitio
di mio nonno, che non voleva gli consumassimo la sua roba. Dopo aver
applicato una “reja” metallica sotto gli sci, eravamo pronti ad
affrontare le discese e le rive coperte di neve e di siepi, muniti solo
di coraggio e di incoscienza. Non sentivamo nemmeno il freddo, anche se
la nostra tenuta era alquanto modesta: un paio di guanti di lana, un
paio di scarponcini consumati, le braghe di fustagno, un maglioncino
fatto in casa e un berrettino con le “reciare”. Sembravamo folletti o
esseri del bosco, talmente presi dalla neve, che non ci accorgevamo di
essere ridicoli. Tra una “slitada e una imbalocada”, facevamo anche il
“pajasso” sfidando il freddo e le “buganse” e i più “ramenati” si
distendevano per terra a fare lo stampo.
Il maestro a scuola ci faceva imparare la poesia e il canto di tema
natalizio, tentando di mettere insieme un coro che a tenerlo era una
impresa. Ci aiutava anche a preparare la letterina che il giorno di
Natale avremmo messo sotto il piatto del papà nel pranzo di mezzogiorno.
Vi erano in commercio le letterine già pronte con dei disegni a cui
erano applicati dei brillantini color argento o color oro. Sembravano
fiabe colorate, che ci portavano lontano in un mondo lieve e leggero
fatto di sogno e di innocenza. Si potevano trovare dalla “Maria Pona”
davanti alla scuola, dall’Alice Manea di fianco alla chiesa nuova e
dalla “Lidia Piandi” in piazza della chiesa vecchia. Quasi tutti però le
preparavamo a scuola, muniti delle forbici, del barattolo di colla
“cocoina”, dal profumo buono di mandorle che veniva voglia di
assaggiare, brillantini e una busta da lettera bianca in cui avremmo
messo il messaggio. Io usavo fare la colla con un po’ di farina bianca
mischiata con l’acqua, ne veniva una pastella appiccicaticcia a buon
mercato. Disegnavamo qualche scena di Natale, magari una capanna con la
cometa, la neve sul tetto o, i più bravi un piccolo albero e il presepe.
Con la colla ripassavamo i contorni per poi applicarvi i brillantini.
Aggiungevamo dei pensierini con i buoni propositi e il ringraziamento se
eventualmente fosse arrivata qualche mancia o regalo. Cominciavano
quasi tutte così: “Caro Gesù bambino, ti voglio bene, ti prometto che
sarò buono e che studierò, non farò arrabbiare la mamma e il fratellino,
aiuterò il papà nei suoi lavori e studierò. Grazie se ti ricorderai di
me, ma ci sono dei bambini che ne hanno più bisogno, magari sono senza
casa o genitori, va prima da loro”. Si giocava un po’ sul patetico,
sull’altruismo che sapevamo far presa sui genitori. Seguiva una piccola
poesia che ci dettava il maestro e che dovevamo recitare in piedi sulla
sedia della cucina quando il papà aveva aperto la busta, fingendo
sorpresa, il giorno di Natale. Era sempre emozionante quel momento; il
papà che faceva gli occhi rossi, la mamma tutta attenta a che le parole
fluissero senza intoppi e le sorelline o i fratelli, che alla fine
applaudivano o in qualche caso “cojonavano”, se la recita non era venuta
gran che bene.
Nelle case, qualche giorno prima della nascita di Cristo, si
allestiva il presepe, più raramente l’albero che era solita farlo solo
mia zia Teresina in un angolo della sala grande con meravigliose palline
di vetro e con le candele di cera che si potevano accendere rischiando
ogni volta l’incendio. Si andava per muschio lungo i pendii in ombra con
un sacco di juta che riempivamo di belle “slorde”. Raccoglievamo anche
qualche rametto di pungitopo con le bacche rosse, per farne dei piccoli
cespugli da porre sulla scena della natività e delle foglie di bucaneve,
che con un po’ di fantasia, diventavano le palme, dei sassi che
diventavano grotte e qualche pezzo di legno per le montagne. Solitamente
il presepe lo si costruiva su una vecchia tavola in un angolo della
cucina, quella che nei giorni precedenti era servita per “far su el
mascio”. Si scartavano le vecchie statuine riposte con cura in una
scatola l’anno prima e lentamente riprendevano vita e ritrovavano posto
su quel magico teatro. C’era il laghetto con le oche fatto con un pezzo
di specchio, le stradine tracciate con la segatura, la stella cometa di
cartone e brillantini, la capanna un po’ scassata e quel pastorello con
la botte che ci guardava negli occhi, che la mamma si era portata in
“dote” dalla casa paterna. Delle candeline dell’anno prima con il
piccolo contenitore di latta per la cera le posizionavamo come impianto
luci che dava alla scena un incanto quasi divino. La stanza profumava di
muschio, di terra e di cera: il presepe era fatto. Il bambinello lo
mettevamo la notte di Natale e i remagi dovevano aspettare il sei
gennaio. La notte del 24 dicembre un ciocco di legno buono bruciava
nella stufa lentamente per accogliere nel tepore il nascituro. Tentavamo
di restare svegli fino a notte fonda, per arrivare all’ora in cui
pensavamo Cristo bussasse alla porta, ma quasi sempre il sonno ci
prendeva e forse il sogno portava noi sin in paradiso.
Nei giorni che precedevano il Natale, gruppi di ragazzi andavano per
le famiglie a “cantar la stella” in cambio di qualche lira. Una volta in
gruppo con mio cugino Armando e altri ragazzi del Costo ci esibimmo in
un canto davanti alla casa del segretario Simonato. Eravamo così stonati
e bolsi che ne uscì una nenia da “sgrisole”. Uscirono in fretta a darci
qualcosa perché finissimo il lamento.
Il giorno di Natale mia madre mi portava a messa prima, a Caltrano.
Era tutto silenzio alle sei di mattina e il freddo forte tagliava il
viso giù per la strada buia del ponte. Il fondo era una lastra di
ghiaccio scivoloso e bisognava avanzare senza “sbrissiare”, magari
affondando i passi nella neve delle cunette. Solo il chiarore della luna
ci faceva un po’ di luce e, in lontananza, il rumore dell’acqua
dell’Astico rendeva meno pesante quel silenzio. Sullo sfondo il paese di
Caltrano con le case una sull’altra e qualche luce agli angoli delle
strade sembrava un presepe addormentato sotto la neve. Era un momento
meraviglioso con l’alba che rischiarava il cielo verso Calvene. Al ponte
si univa a noi la vecchia Ancilla ed era la prima che ci faceva gli
auguri. Pensavo fosse il fiato del bue e dell’asinello che riscaldava
Gesù a “stemprare” anche la chiesa, che ci accoglieva nella penombra
delle navate che poco il sole illuminava. Erano dolci quei momenti con i
canti, le luci e il grande presepe nell’ombra. Al ritorno andavamo al
Costo da mia nonna “Silia”, che ci preparava la cioccolata calda e a me
dava una piccola mancia. Aveva in un angolo un presepe che preparava con
delle statuine piene di anni e di poesia. Mi regalò un pastorello, che
ancora conservo insieme con una palma spelacchiata che mia madre mi
comprò a Thiene quando un anno mi portò, in bicicletta, a visitare la
bottega al Corso.
A mezzogiorno il pranzo con i tortellini in brodo, l’arrosto, “la
salsetta” per la carne lessa e il “bussolao”. Aprivamo con ansia il
pacco che la Lanerossi dava ai dipendenti e dentro c’era ogni ben di
Dio, persino il panettone. Finiva sempre che a me veniva la “gnagnara”,
con il freddo che avevo preso in quei giorni e me ne stavo “immagato” su
per la finestra a guardare verso il monte di “Mea”, dove mi avevano
detto abitava la Befana, che proprio quei giorni cominciava a muoversi a
cavallo della scopa per controllare se i bambini erano buoni. Io
aspettavo sognando, forse “savariando” per la febbre, i suoi regali, ma
questa era un’altra storia.
Maurizio Boschiero
I Natali e inverni del passato erano più freddi, con più neve, più lunghi ecc... e cosi che se li ricorda la nostra memoria, forse per ricreare la magia dei Natali dell'infanzia. Ma sono sempre stati cosi ? Anche peggio : Vedere link con informazioni sulla "piccola era glaciale"
RispondiEliminahttp://meteolive.leonardo.it/news/In-primo-piano/2/Viaggio-negli-inverni-piu-freddi-del-passato-ecco-quelli-del-1400-/43152/
-inverno 1466-67 la Senna a Parigi fu gelata per alcune settimane
-inverno 1468-69, il vino ghiacciò nelle botti, in Francia
http://meteolive.leonardo.it/news/In-primo-piano/2/viaggio-negli-inverni-pi-freddi-del-passato-il-1500-e-il-1600-/43164/
-inverno 1568-69 la città di Torino fu ricoperta da 200cm di neve.
-inverno 1572-73 il porto di Marsiglia gelato.
http://meteolive.leonardo.it/news/In-primo-piano/2/viaggio-negli-inverni-freddi-del-passato-il-1700-/43204/
-inverno 1708-1709 : per la prima ed unica volta nella sua storia, gelò interamente il Lago di Garda.
-dicembre 1788, la temperatura crollò fino a -21 ° a Londra e Parigi.
Difficile imaginare, al giorno d'oggi.