Viaggiare m'è sempre piaciuto, lo faccio fin da ragazzo. Prima con la fantasia, volando con le penne di narratori come Verne, Salgari, Stevenson, Melville, Twain, London e tanti altri che mi hanno accompagnato nella mia formazione. Poi i diari di viaggio e avventure, di conquista dei Poli e delle montagne vicine e lontane, con i quali ho coltivato al mia innata passione per le Terre Alte e l'aria sottile.
Da adulto m’è poi capitato
di recarmi in alcuni di quei posti già esplorati virtualmente con l'immaginazione: i Caraibi del
Corsaro Nero, il Messico di Montezuma e Cortéz, le Ande dell’ultimo Figlio del Sole.
L’estate scorsa ero nelle Sundarbans del Bengala, dove mi sembrava di vedere spuntare
da ogni mangrovia uno strangolatore Thug con il suo inesorabile laccio di seta.
Nel frattempo avevo esplorato quasi ogni recesso delle Dolomiti e delle Alpi
Orientali e i massicci occidentali. Circa il viaggio di Marco Polo, poi, destino ha voluto che ne seguissi per anni le tracce nel Celeste Impero.
Proprio ieri
mi trovavo infatti a sorvolare le steppe del bacino dello Junggar diretto a
Urumqi, capoluogo della provincia cinese dello Xinjiang, nell’estremo
nord-ovest del paese. Poche luci e rari segni antropici per centinaia di
chilometri prima di intravedere le prime luci della periferia della città,
dilatate dalla nebbia ghiacciata e tremolanti nell’oscurità incipiente della
sera che risaltava il candore di quelle distese innevate. L’aereo era
già in ritardo, ma dovette rimanere in quota ancora per un'ora buona per esaurire il
carburante residuo e poter atterrare con una qualche, per così dire, sicurezza,
su una pista che in realtà era una lastra di ghiaccio.
Non
so come l’aeroplano sia riuscito a fermarsi e manovrare in quelle condizioni,
fatto sta che eravamo atterrati e mi apprestavo ad affrontare i -10°C della scaletta
in spadina. In realtà questa era solo una tappa del mio trasferimento in
Pakistan, ma l’incombente tempesta di neve aveva mandato in tilt il traffico aereo
di questa parte di mondo e cancellati i voli. La coincidenza era slittata ormai
al mattino dopo e quindi dovevo sostare per la notte.
Il
nuovo giorno si presenta da lupi e faccio colazione assieme all’equipaggio
dell’aereo, il quale tuttavia è assai scettico sulle probabilità di riuscire a
partire; anche tutti i primi voli dell’alba mi dicono siano stati cancellati. Viaggiare
d’inverno in queste zone remote e dal clima inclemente richiede pazienza e
adattamento; nessuno si arrabbia se cancellano i voli o cambiano gli orari,
semplicemente si aspetta, arrangiandosi alla bell’e meglio, senza prendersela più di tanto.
Urumqui detiene il primato di città del mondo posta alla maggiore distanza dal
mare (2.500 Km). Siamo infatti sulla porta della Cina lungo la Via della Seta: poco più a nord si
stende l’immensa Siberia, ad ovest l’altopiano del Pamir e a sud la catena del Tien
Shan, le Montagne Celesti.
Chissà però che da un disagio non nasca un’opportunità: sorvolare di giorno alcune delle più alte e belle montagne della Terra. Speriamo in bene! Inutile dire che mi dovrò assicurare il posto del finestrino: lato A, possibilmente..
Incurante
del tabellone delle partenze rosso di cancellazioni, mi affido speranzoso
all’unico verde del mio volo verso sud e faccio il check-in. Qualcuno guarda
basso e mi lascia pure imbarcarmi in un aereo coperto da un mantello di neve
ghiacciata. La rimozione di quella candida coltre richiede ancora parecchio
tempo, ma poi finalmente si decolla. Dall'oblò non si vede un accidente
finché il velivolo non vira decisamente verso sud, bucando lo spesso tappeto di nuvole nere e mostrando
il sole radioso di un tersissimo e rarefatto mattino: è fatta!
Sotto di me si stende, in tutta la sua maestosità, la catena del Tien Shan (o
Tengri Tagli, in lingua locale), che
al suo interno presenta uno spartiacque dal quale si dipartono una variegata
serie di creste montuose si estendono lungo i confini tra Cina, Kirghizistan e
Kazakistan e dove
l’altitudine delle montagne supera i settemila metri. Culmina con lo Jengish Chokusu, che con i
suoi 7.439 m ne è la cima più alta. Più ad ovest si erge il Kan
Tängiri (6.995 m), che è il maggiore picco del Kazakistan. Nomi di
montagne che non mi sono familiari, ma che viste dall’alto danno uno spettacolo unico.
Picchi, ghiacciai e nevai di susseguono in un candore accecante; vorrei
gettarmi dall’aereo con gli sci ai piedi su quelle lunghissime e ripide discese che nessuno penso abbia ancora violato.
Sorvolare il suolo alla quota di volo di un jet, solitamente non permette di apprezzare e identificare granché, ma quando questo sopravanza di 6 o 7 mila metri il livello del mare, è quasi come guardar giù la Valle dell’Astico dal Forte di Campolongo.
Sorvolare il suolo alla quota di volo di un jet, solitamente non permette di apprezzare e identificare granché, ma quando questo sopravanza di 6 o 7 mila metri il livello del mare, è quasi come guardar giù la Valle dell’Astico dal Forte di Campolongo.
L’ambiente
e il profilo di queste montagne assomiglia in modo impressionante alle nostre
Alpi, anche se presenta spesso dislivelli di quasi sette chilometri fra cime e
fondovalle. Osservo rapito un susseguirsi di vallate e picchi innevati di una
bellezza primordiale, praticamente intonsa, dato che solo nelle sue valli più
profonde si intravede qualche segno di presenza umana.
Queste sono montagne poco conosciute e praticate di una regione, lo Xinjiang, che è terra vastissima e di estremi e marcati contrasti, dove il deserto e la steppa lasciano il posto anche ad oasi e a foreste di tipo alpino e a bellissime valli e praterie.
Queste sono montagne poco conosciute e praticate di una regione, lo Xinjiang, che è terra vastissima e di estremi e marcati contrasti, dove il deserto e la steppa lasciano il posto anche ad oasi e a foreste di tipo alpino e a bellissime valli e praterie.
È abitato in
prevalenza da musulmani di etnia Uigura e di lingua turcomanna e la Cina sta
investendo molto in uomini e mezzi per sviluppare questa sua remota e complessa
regione autonoma, dotandola di servizi e moderne infrastrutture.
Queste
montagne spariscono in fretta sotto di me per lasciare spazio all’immensa
depressione del Tarim, che ospita uno dei deserti più inospitali del pianeta: il Taklamakan, che in uiguro significa: “se ci vai, non ne esci più”, tanto
per dare l’idea. Un’aspra e arida distesa
di sabbia, dune e neve, vasta 270.00 Km2 e priva di insediamenti
umani se si esclude qualche rara visione di probabili obsolete installazioni
militari o di prospezioni minerarie e sporadici stalli di pastori ai suoi
margini. Si staglia invece evidente, nella sua direzione nord-sud, l’autostrada
che lo attraversa dividendolo a metà: quella Tarim Desert Highway che solo i
cinesi avrebbero potuto pensare e realizzare nel 1995, corredandola di infrastrutture
e di imponenti barriere vegetali frangivento per evitare che il deserto
cicatrizzi con la sabbia quella lunga e diritta ferita.
Anche neve, si, perché questo è un deserto
“freddo”, in quanto si trova nell’ombra pluviometrica dell’Himalaya e le
temperature possono scendere anche sotto i meno venti. Il Taklamakan, quel
luogo favoloso e misterioso che tanto spaventava i traffici carovanieri è li che si dipana sotto il mio oblò. Più a est, in lontananza,
s’innalza, altrettanto evocativo, l’imponente e arido bastione roccioso del Tibet occidentale, difeso dalla catena orientale del Kunlun.
Spero
solo che non compaiano nuvole.
Due
piste dell'antica Via della Seta contornavano a nord e a sud questa landa desolata e
infida per confluire poi nella valle del Fiume Giallo e dirigersi a Xi’An,
l’antica Chang’an, vecchia di più di tremila anni e capitale di ben 13 dinastie, nonché terminale orientale di quell’antica Via. Questa città mi è peraltro
familiare, perché proprio lì ho l’ufficio e la mia base operativa nel Regno di Mezzo.
Ecco
ora che dalla depressione del Tarim s'innalzano gli aridi contrafforti delle bianchissime vette della parte occidentale della catena del Kunlun. Questa non è un corpo unico, ma piuttosto
una triade di catene parallele che separano il bacino del Tarim dal Kashmir
pachistano e indiano. Un baluardo roccioso largo circa 200 km, i cui picchi più
alti sono il Kongur (7.719 m), il Muztagata (7.546 m) e il Muztag (7.723m). Qui si
susseguono nevai e steppe in cui s’intravedono segni antropici nelle valli, e in quota (siamo sopra i 4000
m), quelli della pastorizia nomade. Tracce di strade e sentieri sottili
tagliano gli altipiani e risalgono i crinali, doppiando passi e segnando il
territorio con quella logica razionalistica che la natura non può avere.
Ora vedo apparire, in un panorama indicibile di frastagliata e abbacinante bellezza, le catene del Karakorum alla mia sinistra e dell’Hindu Kush alla mia destra; fatico a fissare quel bagliore accecante, ormai ho anche la piaga da finestrino. Verso est, lungo una serie infinita di superbe creste e vette, interrotta solo dall'alta valle dell'Indo, si stende l’Himalaya. Wow!
Finalmente
eccolo: il K2 (8.611 m) e dietro il Broad Peak (8.047 m) e il Gasherbrum (8.035
m).
No, non posso sbagliarmi, quello che brilla sotto di me è l’immensa forca glaciale del Baltoro, che con i suoi 700 km2 di superficie e 60 km di lunghezza è uno dei più grandi bacini glaceologici vallivi della Terra e da qui sembra la schiuma di una generosa birra che tracima dal boccale.
No, non posso sbagliarmi, quello che brilla sotto di me è l’immensa forca glaciale del Baltoro, che con i suoi 700 km2 di superficie e 60 km di lunghezza è uno dei più grandi bacini glaceologici vallivi della Terra e da qui sembra la schiuma di una generosa birra che tracima dal boccale.
L’austera piramide del K2 si mostra ora in tutta la sua maestosità tagliata sotto la vetta da una sottile lama di nuvole: impressionante, stupendo!
È la Montagna degli Italiani, da quando fu vinta dalla spedizione di Ardito Desio il 31 luglio del 1954, con Achille Compagnoni e Lino Lacedelli che scrissero una pagina epica e memorabile dell’alpinismo, condita purtroppo dalle polemiche sorte poi con Walter Bonatti. Noi italiani siamo bravi a sporcare le nostre cose belle.
Ora capisco perché la conquista di questa vetta sia stata così ardua e richieda
ancor oggi un impressionante tributo umano: uno su quattro di chi l’ha
affrontato ha infatti lasciato la vita su quei ripidissimi e affilati contrafforti
di granito. Anche se il K2 deve cedere il primato di altitudine all’Everest, il
suo accesso è di gran lunga più difficile, presentando elevate difficoltà
alpinistiche fino alla vetta e non, come il più blasonato collega, soltanto le pur impegnative problematiche legate alle sue estreme
condizioni ambientali e climatiche.
Sono emozionato e frastornato, questa poi non l’avevo programmata: ora non mi resta che di completare il sogno di riuscire un giorno di andarci a piedi.
Sono emozionato e frastornato, questa poi non l’avevo programmata: ora non mi resta che di completare il sogno di riuscire un giorno di andarci a piedi.
Ecco
ora che si snoda l’imponente impluvio dell'alta valle dell’Indo, mentre le montagne si
abbassano di quota nella regione del Kashmir pachistano. La neve gradatamente
scompare rivelando un panorama familiare di villaggi sparsi, boschi, praterie,
tortuose stradine di collegamento, sentieri che risalgono i passi, tratturi e
alpeggi. Se non fosse per le casette dal tetto piatto e i minareti delle
moschee, non sfigurerebbe come paesaggio alpino. Ora qui sotto si vede il lago
di Tarbela, con la sua possente diga completata dagli italiani dell’Impregilo
nel 1976; a destra c’è Peshavar e più a ovest il passo di Torkham che digrada verso
Jalalabad e Kabul; nomi che ci sono stati resi familiari dai telegiornali degli
ultimi vent’anni.
Un’ampia virata verso est ed ecco che compare Islamabad,
capitale del Pakistan, con la sua grande e moderna moschea Faisal,
piantonata dai due imponenti e bianchi minareti. La temperatura è confortevole, siamo sui
venti gradi, molti indossano il pakol, il caratteristico copricapo in feltro arrotolato
dei Pashtun, che nel nostro immaginario è collegato ai conflitti nel vicino
Afghanistan.
Nei prossimi giorni sarò a Lahore e poi scenderò la valle dell’Indo fino alla sua foce sul Mar Arabico, a Karachi, che dicono sia la seconda più popolosa metropoli del mondo
con i suoi ventiquattro e più milioni d'abitanti.
Io
non amo il mare, il caldo, la folla, la vita artificiale delle megalopoli; pur vivendo di tecnologia, m'inchino alla sapienza di altri fattori. Preferisco di gran lunga il silenzio e il
fresco dell’aria rarefatta delle montagne; il riflesso del sole sulla neve, il rumore dell'acqua che scorre o la trasparenza del ghiaccio che la trattiene.
Credo proprio che lascerò ancora per un po’ il mio spirito a ristorarsi
nell’abbacinante chiarore del Baltistan.
Gianni Spagnolo
XXVIII-XI-MMXVI
Ben Gianni! te me fè rosegàre....
RispondiEliminaBen Gianni, complimenti !!! Un'esperienza unica e straordinaria. Non bisogna, come nel mio caso, soffrire di vertigini ,ne' dell'aereo.
RispondiEliminaGrazie Gianni. Stupenda descrizione di luoghi lontani e ancora avvolti nel mistero. Sono lieto di leggerti ed anche un po' invidioso. Sei completo, convincente, affascinante. Il tuo stile è segnato da pennellate di alta poesia, e un delicato senso dell'umorismo. Meriti un 10 e lode. Alla prossima.
RispondiEliminaMARCO POLO
Lo dico con sincerità. Alcuni personaggi per le loro elevate capacità, dovrebbero e potrebbero servire le istituzioi.
EliminaMolto interessante, Gianni. Grazie per questo bel viaggio ; un vero cambiamento di orizzonti !
RispondiEliminaLo scritto mi ricorda i fotoreport di Walter Bonatti, noto esploratore e alpinista, letti in epoca in cui ero ragazzo.
RispondiEliminaI reportage erano illustrati da numerose fotografie, ma erano piuttosto scarni nella descrizione e, quindi, lasciavano poco all’immaginazione.
In questo post, invece, che scatena forti emozioni, la fantasia viene stimolata intensamente, e riporta alla mente i mercanti come Marco Polo, ma anche i condottieri come Gengis Kan, che, per invadere l’impero del Khorasan, contro ogni strategia militare prevedibile, condusse il suo esercito lungo percorsi impervi delle valli ghiacciate del Karacorum e, attraverso l’Hindu Kush e l’Afghanistan, sorprese alle spalle e distrusse le forze nemiche.
Platone, nella sua “Repubblica”, esprimeva l’opinione che l’uomo potesse approcciarsi ad amministrare la cosa pubblica solamente dopo aver esercitato con successo un’arte, o un mestiere.
Sono dello stesso parere dell’ anonimo delle 12,54 di ieri, tanto talento, tanto bagaglio culturale, dovrebbe essere, non appena possibile, utilizzato per le istituzioni: il Comune di Valdastico, ma anche l’intera Valle, ne trarrebbe indiscutibile vantaggio.
Ben, ciò, .. anca a MMS che piaxe svolassare co la fantasia, a xe l'unica roba che daromai i me lassa fare. Anche MMS collaborò alla diga di Tarbela nel 1971, impianto colossale ed esempio di cosa sanno fare gli italiani in collaborazione con tecnici di tutto il mondo, quasi 20 mila persone coinvolte. Dopo a ghemo scumissià a no valer pi na cica.
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