La casa è sulla grande curva per Caltrano appena dopo il ponte, in
via Costo, dove Chiuppano sfuma, in declinare lento, verso le rive
dell’Astico. E’ una terra dura e sassosa sul un crinale scosceso e
“roverso”, tutta balze e falsopiani coltivati a vite e ad alberi di
ciliegio di grandi dimensioni e, per dire degli anziani, sicuramente
centenari.
Anche le viti erano vecchie, lunghi e grossi tralci erano distesi sui
ferri rugginosi che si incastravano nel legno in un abbraccio
indissolubile. Davano scarsa uva, che mal maturava, anche per
l’abitudine di mio padre di tenere una specie di selva, muri di verde
che non facevano filtrare la poca luce che arrivava di “sbiego”.
Un piccolo orto lo avevamo ricavato scavando col piccone, un “àrdene”
ripido in cui indugiava di più il sole e qualche viola, al riparo dalle
gelate, fioriva anche verso Natale. Lo chiamavamo “l’ortesèlo” e
veniva utilizzato per piantarci un po’ di insalata, la salvia e il
rosmarino, qualche cipolla e del prezzemolo. Mia madre vi teneva anche
una pianta di ruta da mettere nella grappa e dell’erba “maresina” per
le frittelle, quando era tempo d’autunno, specialmente verso le feste
dei morti. La pianta di cachi creava d’inverno una macchia colorata
come la luce arancio di un lampione, che contrastava il grigiore dei
mesi gelati.
Il fico dava d’estate dei dolci frutti che mangiavamo con avidità;
vi era anche un grosso melo che maturava poche e grosse “pome”; dei
“brombari” che un anno sì e uno no si caricavano di frutti e di
“brombajui”; un melo cotogno mal ridotto e un pero posto sul confine con
la proprietà di Tony da Bessè. Quest’ultimo lo chiamavamo, un po’
ironicamente, “el marescialo” per essere stato, nell’arma dei
carabinieri. A volte lui e mio padre parlavano con grande animazione
di caccia e di uccelli, perché tutti e due appassionati dell’arte
venatoria, raramente li vidi dividersi un po’ di vino, però rimanendo
dietro la rete che divideva i loro scarsi poderi. Sembravano due vecchi
soldati in trincea, che nelle pause della battaglia o sotto Natale
fraternizzavano e si scambiavano una sigaretta o un pezzo di pane.
Questo armistizio io avrei desiderato che si allungasse fino ai
nostri giorni , ma bastava un niente per tornare al sospetto e al
disaccordo. In primavera ciuffi di primule annunciavano la fine
dell’inverno che se ne andava con i bucaneve e il freddo, lasciando il
posto ai delicati crocchi e alle tenere viole.
Tappeti di muschio coprivano gli angoli, in ombra, del terreno e
sotto Natale andavamo a raccoglierlo per il presepe, insieme a piccoli
pezzi di legno secco con cui costruivamo le casette e le grotte. Le
siepi di “sànguana, saugàro, orno e russe” incorniciavano l’appezzamento
ed erano il regno di pettirossi e uccelli che cantavano tra i rami e vi
costruivano i loro nidi.
Mio padre si sfiniva su questa terra e dedicava tutto il suo tempo
libero a falciare l’erba, a potare viti e vendemmiare quando era il
tempo. Ricavava qualche ettolitro di vinello “mericàn”, che a malapena
si manteneva sano fino a primavera se tutto andava bene. Spesso
cominciava a “puntare” già alla fine dell’inverno, poi diventava di un
coloretto slavato che “trava sull’asédo”. Lo consumavamo lo stesso
magari torcendo la bocca, ma saldi. Colpa di una cantina poco fresca, o
del “cruajo” che davano quelle viti al “roverso”.
Era duro mio padre, come quella terra sassosa ed aspra, che si
ostinava a coltivare con testarda determinazione. I confini di questa
proprietà seguivano bizzarre linee che la portavano ad essere una
tessera di un puzzle fatto di tanti piccoli pezzi di terra e di riva,
contesi dall’ombra e dalla fatica di lavorarli.
Tra questi vi era ora anche la terra di Aldo, quella che Tony gli
aveva ceduto quando non aveva più avuto la forza di arrampicarsi per
quelle rive. Dunque Aldo divenne nostro confinante. Aveva costruito la
sua casa su un cucuzzolo di terra acquistato anni prima da Italo
“Finco”. Lavorava di notte in fabbrica e di giorno si spartiva tra la
casa ed i campi. La moglie Gabriella badava agli animali e ai tre figli
piccoli. Aldo coltivava il suo piccolo fondo con grande passione e
competenza e ne traeva dei buoni frutti, perché conosceva bene i segreti
della luna coi suoi influssi, i tempi per potare e tagliare le piante, i
momenti delle semine e dei raccolti.
Per me, bambino, che mi inoltravo lentamente nel nostro piccolo
“brolo” lungo il ripido “stroso”, era il paradiso terrestre. D’estate i
nidi e le rondini davano voci a quegli angoli in ombra. D’inverno
diventava un presepio con il muschio e la neve che coprivano tutto.
Anche il cielo era bello sopra di noi. Di là del confine, che di solito
era di reticolato ruggine e malmesso, se non il nemico, c’era sempre
qualcuno da guardare, per lo meno, con sospetto. Attorno, tutti erano
così. Almeno così ne parlavano in casa. Sembrava il fronte della prima
guerra. Un’altra terra ed un altro cielo stavano al di là della rete.
Qualcuno da ex combattente e quasi tutti lo erano, aveva scambiato la
terra per un campo di battaglia, che bisognava difendere a tutti i
costi. Mi guardavo dall’avvicinarmi alla rete, a sfiorarla mi venivano i
brividi, temevo una scarica di parole. Mia madre mi raccomandava sempre
di stare nella nostra parte, perché potevano nascere discussioni e liti
anche per poco. Una gallina che si fosse spinta oltre il confine, un
sasso rotolato per caso o dei rami che avessero passato il segno erano
motivi di mugugni tra mio padre e i vicini.
Erano sospettosi l’uno dell’altro e negli anni la situazione peggiorò
finché proprio non si salutarono più. Io seguivo i mugugni di mio padre
in casa e cercavo di stare attento coi miei giochi a non entrare nel
fondo del vicino. Più grande, non mi occupai più di tanto della cosa,
anche perché ormai ero troppo preso con lo studio, prima, ed il lavoro
poi.
Mio padre, sapevo, aveva un carattere scabroso e duro, che sfiorava
la testardaggine e questo peggiorò anche con gli anni quando io cercavo
di ritagliarmi degli spazi, che non mi erano concessi se non dopo liti, a
volte, aspre. Certo non mi suonava bene nemmeno che scaricasse in casa
le sue tensioni, quando magari parlava di confini e di vicini. Anche se
poco conoscevo le storie, anch’io un po’ alla volta mi ero fatta l’idea
che Aldo fosse una persona rissosa e chiusa, “da non avere affari”
diceva mio padre.
Guardavo da lontano quell’ometto pallido, magro come un chiodo, che
lavorava di notte alla “Lanerossi” e di giorno tra quella terra. La vita
era stata dura anche per lui; suo padre era stato intrappolato ed
ucciso a Pedescala dai Tedeschi in ritirata e troppo presto aveva
conosciuto la durezza della vita. Emigrò in Svizzera a lavorare in una
fattoria e tornò per seppellire sua madre. Se mi capitava davanti, lo
salutavo in fretta e cercavo di non dare adito a discorsi che supponevo
fossero astiosi anche nei miei confronti.
Passarono gli anni, ognuno chiuso nel suo mondo e in una pace armata
in equilibrio su uno spillo. Bastava un niente per mandare all’aria
tutto. Mio padre si fece vecchio e sempre più di rado si spingeva giù
per la riva tra i suoi posti che aveva difeso sempre quasi ferocemente.
Io dovetti prendere in mano la situazione, anche se malvolentieri. Avevo
paura di trovarmi nella situazione che in tanta parte aveva creato mio
padre, forse neanche per cattiveria, ma figlio di un tempo in cui tutto
era guadagnato e difeso, non importava come. Bisognava “procurare” per
la famiglia, per i figli, dare loro tutto ciò che si poteva in una
pulsione atavica, che non aveva ricercatezza e sensibilità, solo spirito
di sopravvivenza, e di attaccamento alla “roba”.
Cominciai così a muovermi per quella riva, ma in fondo poco mi
interessava la terra e quello che poteva dare; io volevo che la messe
fosse una nuova fraternità con chi mi abitava intorno, con chi
condivideva la fatica del lavoro su quella riva aspra, che poco dava,
almeno mi avesse dato il modo di fraternizzare.
Le prime volte con Aldo ci salutammo un po’ freddamente, un saluto di
cortesia, senza concedere nulla di più a quel ciao breve e secco.
Passarono i giorni e qualche parola di più tra un lavoro ed un altro
cominciammo a scambiarla e sempre di più accettavamo la presenza l’uno
dell’altro come una possibilità che avrebbe potuto arricchirci di parole
e di un rapporto diverso. Cominciammo così un po’ alla volta a
trovarci, oltre confine, senza accorgerci del tempo che passava con il
solo piacere di parlarci, uno accanto all’altro. Passò una stagione,
poi un’altra e un’altra ancora ed i lavori che dovevano essere fatti non
mi erano pesanti, perché avevo trovato chi mi consigliava e chi mi
incoraggiava, nel poco tempo che potevo dedicare a quell’occupazione.
Un giorno che l’erba era alta proposi ad Aldo che se la tagliasse per
i suoi animali, visto che ne aveva parecchi e la raccattava anche in
posti scomodi e lontani da casa sua. All’inizio fu incerto, ancora forse
non aveva ben messo a fuoco il mio essere e le mie intenzioni, non
erano sufficienti le parole che ci eravamo scambiate; da buon e saggio
contadino contavano anche i fatti, forse aveva sofferto tanto dal
rapporto con mio padre. A volte vi accennava, ma non più di tanto, forse
per non ferire me e non mettermi a disagio. Io arrivai a scusarmi per
quello che aveva patito, avrei voluto dare un colpo di spugna su quegli
anni per cancellarli . Mi fece capire che non dovevo. Era andata così:
un gioco crudele che aveva logorato i due confinanti.
Cominciò a falciare l’erba e a portarsela a casa, poi gli cedetti
delle piante da abbattere e lo facemmo insieme. Infine gli proposi di
lavorare la terra di mio padre per suo conto; che ne facesse ciò che
voleva. Accettò ed un giorno mi disse:” Pensavo che i figàri fasesse
sempre fìghi, ma no ze mia sempre vero”. Come a dire: “Pensavo che tu
fossi uguale a tuo padre, ma non è sempre così”. Filosofia spicciola di
un uomo della terra, arguto ed intelligente, fattosi tra i campi e le
stagioni come un frutto raro e prezioso. Fu come mi avesse dato un
abbraccio infinito, un regalo bellissimo da una persona che avevo
imparato a conoscere e che si era rivelato di una sensibilità
straordinaria.
Cominciai a frequentare la sua casa e le sue porte mi si aprirono
come il suo cuore, se avesse potuto mi avrebbe dato latte di gallina ed
io altrettanto. Quell’uomo magro che io avevo sempre visto da lontano
oltre il confine era per me diventato mio fratello, mio padre ed un
amico.
Quell’inverno la nostra riva si era coperta di neve e di muschio
gelato. Pochi i lavori col freddo, ma tracce di animali, forse anche la
volpe aveva lasciato un segno. Un colore immacolato come un velo aveva
reso candidi i nostri cuori.
E venne il Natale del 2001 ed in casa avevamo fatto il presepe ed un
piccolo albero addobbato di palline colorate e di luci. Il presepe con
le antiche statuine che avevo da bambino, le pecorelle, i piccoli
pastori. Non avevo sentito granché la festa, troppe vetrine colorate,
supermercati traboccanti e pubblicità vuota. Erano passati i giorni ed
io speravo in un sogno che mi ridesse quella festa che da bambino mi
incantava.
La mattina di Natale verso le nove suonò il campanello di casa mia.
Nevischiava un po’; orme sulla stradina davanti alla finestra. Qualcuno
era sulla porta. Aprii pensando fosse un parente; un mio cugino o un
mio zio, quelli che di solito vengono per gli auguri. Era Aldo invece.
Zoccoli da stalla ai piedi, una giacca marrone, dei calzoni di fustagno
ed un cartoccio nelle mani. “Son vignù al verso par farte i aguri de bon
Nadale e te go portà dele parane de mas-cio ca go copà stì giorni”. Fui
sorpreso e commosso. Gli strinsi forte la mano, l’avrei tenuta ancora
tra le mie mani, ma poi giocò e vinse la timidezza. Era una mano
callosa e ruvida, calda come una carezza. Lo feci entrare, era Gesù che
entrava in casa mia, era il pastorello che mi mancava nel presepe, un
regalo del cielo. Fuori nevicava e copriva le ombre di quegli anni duri
di ripicche e liti, che avevano segnato le nostre famiglie. Guardai
dalla finestra, giù nella riva, qualche scricciolo infreddolito saltava
tra i rami nudi. I cachi erano diventati “spumilie par i merli”, come
direbbe il mio amico poeta Claudio Cappozzo; la neve aveva coperto i
confini ed ora tutto era bianco.
Erano caduti anche in noi quei muri che negli anni erano diventate
montagne. Le avevamo scalate. Fu il più bel Natale che avevo vissuto,
bello come quel Natale povero della mia infanzia quando bastava la neve
per rendere incantata la vita. Aldo se ne andò che ancora nevicava,
dalla finestra guardavo le tracce che i suoi zoccoli lasciavano sulla
neve come la traccia, che aveva lasciato nel mio cuore in una dolcezza
senza confine.
Ora le nostre terre non hanno reticolati e sono nello stesso cielo.
Auguri Aldo, ti voglio bene, le nostre terre non hanno più confini ed il
cielo sopra ci accompagna insieme. Auguro a tutti di vivere una storia
come questa, allora il Natale sarà ancora una grande festa profumata di
muschio e di scorza d’arancia bruciata sul fuoco.
Che bel racconto e che grande testimonianza. Caro Maurizio non ti conoscevo ma ora sto cercando i tuoi racconti per leggermeli la sera quando si ha voglia di qualcosa che rilassa il cuore. Grazie. Luciano
RispondiEliminaTroppo bello, un racconto che scalda il cuore. Grazie. Gabriella
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