domenica 15 agosto 2021

Valìse dure



【Gianni Spagnolo © 21H15】

Oggi che è il giorno di Ferragosto, tradizionalmente dedicato agli emigranti del Paese, parliamo un po' di valigie, l'iconico accessorio che sempre ha accompagnato l'Emigrante. 

Valige o comunque contenitori, dato che non sempre, almeno nelle prime rotte migratorie, era presente la valigia come la  intendiamo noi. Fagotti, scatole, casse, involti, ecc. facevano spesso la funzione di improvvisati contenitori delle poche cose che si portavano appresso gli Emigranti.

La mia vita, come probabilmente quella di molti che leggono, è stata condizionata dalle valigie; tanto da provocarne una repulsione. Ancor oggi dispongo d'un intero armamentario di valigie, perché comunque le uso ancora, ma non posso vederle fuori, devo riporle nell’armadio, fuori dalla vista. A no soporto le valise sora l’armaròn, ... le fa massa male! Sono sensazioni che può capire solo chi è figlio, nipote e pronipote di Emigranti ed Emigrante egli stesso, anche se in forme certo diverse dai progenitori. Le valigie della mia infanzia erano in simil-cuoio con gli angoli rinforzati e divenivano una festa solo quando ritornava mio padre con qualche pensiero per noi; altrimenti erano solo segno di distacco, di lontananza e di provvisorietà.

In questi giorni, riordinando un po’ di cose vecchie, sono riemerse le valigie di mio nonno. Hanno più d’un secolo e non sono neanche propriamente valigie, ma casse di legno, vecchie casse di munizioni della Grande Guerra. Un tempo gli operai dovevano portarsi appresso i propri attrezzi di lavoro, che non erano forniti dal datore di lavoro. Ecco allora che nella cassa, oltre ai pochi indumenti di ricambio, qualche accessorio personale e un po’ di cibo per il viaggio, si portavano gli attrezzi del mestiere. Minatori, carpentieri, muratori, scalpellini... Il martello, la masséta, la cassòla, qualche punta, il filo a piombo, un carboncino, do stéche de metro, ecc. spesso ricavati da residuati bellici. 

Ci si avviava a piedi verso la prima stazione del treno, ma anche oltre..., par sparagnare. Con questa cassa sulle spalle mio nonno andava in Tirolo (su par Bolzàn..) negli anni Venti dello scorso secolo. Era finita la guerra e i paesi devastati erano stati riedificati in quella spasmodica, breve ed effimera opera di ricostruzione che aveva portato illusioni e tanta inflazione. Poi l’amara disillusione e il ritorno all’emigrazione, come e più di prima. 

Solo la cassa pesava il suo e non aveva nessun dispositivo che ne aiutasse la trasportabilità a spalle, se non dei cinghioli da giberna adattati allo scopo. Ironia della sorte, l’emigrazione era rivolta nella direzione da cui discesero quelle orde straniere irrise dal Bollettino della Vittoria del generale Diaz: “.. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.

Ora quelle valli tornavano a salirle i Nostri con l’atavica speranza e senza orgoglio. Avevano fatto quasi tutti la guerra e ne portavano i segni; molti nell’anima e qualcuno anche nel corpo. Capitò anche che avessero combattuto contro loro compagni di lavoro nelle miniere della Slesia o della Renania, o nei boschi della Stiria. Ora s’avviavano ai cantieri ferroviari, alle dighe e alla ricostruzione di mezza Europa.

Altra ironia: le casse. Erano i contenitori delle munizioni della mitragliatrice Schwarzlose,  quella che dalle trincee del Basson aveva fatto scempio dei fanti della Treviso e che sull’Ortigara segò le penne ai nostri Alpini mandati all’assalto senza criterio né scrupolo. Oppure dei caricatori a pacchetto in calibro 8x50R del Mannlicher 95, il famoso ta-pum. Sul retro della cassa si vede ancora impressa una scritta in tedesco: “Leer zurück kommen” (ritornarla vuota), che suona anch’essa piuttosto ironica nel contesto.  Significava probabilmente che la cassa dovesse ritornare al magazzino una volta svuotata al reparto, in modo da poter essere riutilizzata per il rifornimento di munizioni in prima linea. Chissà dove le aveva recuperate mio Nonno quelle casse, fursi proprio in Vèsena. Ma non c’era spazio allora per riflessioni sulle cose, si adoperava quello che c’era e che serviva. Bastava chel vegnesse bon. Alòra vegnéa bon un fià tuto, a se fava fogo co le legne che se ghéa.







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