Allentate le restrizioni legate alla pandemia, vaccinati e fiduciosi, abbiamo finalmente potuto riprendere qualche antica abitudine, come quella di scambiare quattro chiacchiere con i nostri amici “diversamente giovani”. Matteo Dal Pozzo Sasetto, classe 1931, è uno di questi e recentemente assieme a lui abbiamo rivisto un episodio di una settantina e più di anni fa ...
… erano gli anni del primo dopoguerra, forse il 1948. Avevamo attorno ai 17-18 anni di età, a quei tempi si cominciava a lavorare molto presto e quando a vent’anni partivamo per il servizio militare ne avevamo già viste di cotte e di crude, tante erano le esperienze lavorative e di vita che ogni giovane aveva accumulato. Assieme a Ilario Reja e Antonio Pancane, gli amici di sempre, avevamo rilevato un lavoro a Lavarone, poco oltre il confine con il Trentino. Anche mio padre aveva lavorato spesso in quei paraggi perché stranamente, pur essendo un paese di montagna simile al nostro, in quel posto solamente pochissime famiglie allevavano cavalli, che invece da noi erano molto più diffusi. Il lavoro consisteva nell’esboscare un lotto di legname precedentemente allestito e scortecciato. Eravamo giovani, pieni di entusiasmo e voglia di fare ma anche inesperti, per cui il compenso che ci avevano proposto, e che noi avevamo accettato, pur sembrandoci congruo a conti fatti si rivelò un magro affare. Il legname era posto in basso e bisognava trainarlo verso l’alto: il primo tratto era molto ripido e per ogni tronco serviva la forza di due cavalli appaiati, nel secondo tratto la salita era più dolce ed era sufficiente un solo cavallo, nell’ultimo tratto i tronchi venivano caricati su un “barosso” (un carro a due ruote) trainato da un cavallo e trasportati fino ad una strada dove venivano scaricati e accatastati. Qui, finalmente, venivano caricati su un autocarro “Taurus”, uno dei primi in circolazione, proveniente da Folgaria. Anche il carico del legname sul camion era di nostra competenza. Era un lavoro lungo che ci impegnò per molti mesi. Oltre che faticoso, il lavoro era anche discretamente pericoloso, non solo per noi ma anche per i cavalli che se si fossero azzoppati non sarebbero più guariti e sarebbe stato necessario sostituirli. Perdere un cavallo sarebbe stata una tragedia, una disgrazia da evitare per quanto possibile. Per pochi soldi avevamo affittato una modesta casupola nella contrada Slaghenaufi, dentro c’era l’essenziale, una cucina per prepararci da mangiare e una camera per dormire, una stalla per i cavalli. Gli abitanti della contrada ci volevano tutti bene e i rapporti sono sempre stati più che cordiali, forse a qualcuno di loro ricordavamo qualche figlio non più ritornato dalla guerra. Durante quel periodo successe che Antonio si sentì male, allora le donne della contrà fecero in modo che arrivasse il loro medico condotto il quale, dopo averlo visitato, gli raccomandò fortemente di farsi controllare per bene una volta rientrato a casa. Quel bravo dottore aveva intuito un qualche problema al cuore ed effettivamente aveva visto giusto, tanto che Antonio morì giovane proprio per problemi cardiaci. Gli prescrisse anche una scatola di pastiglie che Antonio non volle prendere, così le prendemmo io e Ilario, anche se non ne avevamo alcun bisogno perché stavamo benissimo. Però ci pareva brutto non utilizzarle. Antonio si riprese quasi subito e proseguimmo il nostro lavoro fino alla conclusione. Avevamo lavorato duramente un'intera estate e una volta pagate le spese - il modesto affitto della casa usata in quei mesi, gli alimenti per noi, la biada e il fieno per i cavalli e qualche allegra bevuta nelle osterie del paese – non avanzammo nemmeno una lira. Ma non eravamo angustiati, era stata una importante esperienza di vita, umana e di lavoro. Sarebbe andata meglio un'altra volta. Ritornammo a casa alla fine dell'estate, era il tempo della semina del frumento, c'erano da arare i campi e servivano i cavalli. A quei tempi quasi tutte le famiglie usavano le vacche, accoppiate al giogo, per arare la terra, ma i campi più tenaci, dove era stata coltivata l'erba spagna, per esempio, richiedevano la forza dei cavalli. Le nostre mamme nel vederci ritornare erano felici, come solo le mamme possono esserlo nel rivedere i propri figli in forza e salute. Anche i nostri padri erano felici, ma loro un'occhiata l'avevano data anche ai cavalli
nella foto: Matteo nella sua casa di Castelletto
(da Biblioteca civica di Rotzo)
Bella testimonianza.Sembra collocata nella notte dei tempi e invece è subito dietro l'angolo di ieri perchè la vita è veloce e breve.Rievocare per non disperdere i ricordi è un dovere anche per non dimenticare un epoca di veri uomini laboriosi dei nostri monti testimoni di rapporti umani a tu per tu senza il tramite dei cellulari.Auguri Matteo Saseto continua così con il futuro che ti arride
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