【Gianni Spagnolo © 21F10】
Credo che la nostra sia la prima generazione digiuna del concetto di fame vera, mi si perdoni il bisticcio di parole. Nel senso che la fame non ci appartiene come sperimentazione fisica, tralasciando qualche languorino che ci assale fra un pasto e l’altro o magari l’impari lotta con la bilancia. Niente a che vedere comunque con situazioni in cui il cibo sia carente di suo e richieda una quotidiana battaglia per mettere insieme le calorie e i nutrienti sufficienti per un’alimentazione di sussistenza. Il concetto era più chiaro ai nostri genitori e ancor più ai nonni. Ai loro tempi, fra guerre, penuria e circostanze varie, capitava di affrontare periodi in cui il pane sulla tavola non era scontato.
Ecco che ci pensa l’amico Giorgio Toldo Polaco a rinfrescarci le idee attingendo dal suo archivio la foto di apertura, che mostra le marche della tessera annonaria risalenti a tempi piuttosto recenti. Rimandano infatti a quel 1948 in cui la guerra era già finita da un po' e l’Italia stava avviandosi ad una fase di prodigiosa ricostruzione e sviluppo economico. Beh, .. in verità allora i nostri padri erano più intenti a ricostruire la Francia che l’Italia, ma non divaghiamo.
Si, proprio così! Ancora a quella data il pane era razionato. A San Piero si tirava la cinghia e si andava dai Polachi con la tessera! Non solo da loro, per la verità, solo che loro sono stati bravi a conservarne documentazione.
Il 1948 fu l’ultimo anno di limitazione e la quota di pane per un adulto era salita a quasi un chilo a testa, contro il minimo dei 150 grammi del tempo di guerra. Nonostante il tesseramento, la situazione era quindi accettabile e il pane non mancava. Senza tessera, un chilo di pane costava più di mezza giornata di lavoro di un operaio (500 lire al giorno la paga, 300 un chilo di pane). I dati sono indicativi perché le oscillazioni temporali erano vistose e variavano da una zona all’altra, ma ci si può fare un’idea.
Facciamoci un’idea anche della penuria di cibo durante gli anni del conflitto: La fame comincia a picchiar duro per le famiglie operaie e quelle del ceto medio impiegatizio, abituate a vivere del loro stipendio. Secondo una inchiesta sull’alimentazione degli italiani, condotta nella primavera del 1942 dall’università di Trieste, circa 2.500.000 di famiglie soffrono la fame «nel pieno senso fisiologico della parola» e almeno altrettante hanno un vitto insufficiente. Complessivamente, oltre il 40% del campione esaminato vive al di sotto del livello alimentare minimo. (P. Luzzatto Fegiz, Alimentazione e prezzi in tempo di guerra, pp. 94-95). Del medesimo periodo è un rapporto delle Questure stesse, che allertano il potere centrale di quanto sta succedendo: «Spesso i medici hanno constatato che gli operai sono diminuiti nel peso anche di 10 e 15 chili per cui la diagnosi è quella di deperimento organico», segnalando l’esistenza di una fascia di popolazione le cui condizioni sono ormai al limite della sopravvivenza (Questore di Bologna, 30 settembre 1942).
Guerre a parte, non è che neanche gli altri periodi siano stati particolarmente prodighi di cibo in quantità e varietà: lo testimonia la cronicità dell’emigrazione che ha caratterizzato la nostra valle. Sarebbe ora di sfatare la leggenda della “buona e sana cucina della nonna", oppure quella osannata come "tradizionale", poiché, se si fa eccezione di brevi parentesi, il "popolo", ovvero la quasi totalità della popolazione non benestante, ha sempre consumato cibi scarsi e poveri di contenuti nutrizionali. Allora era il vino, con le sue “calorie vuote” a fornire quell’energia che mancava al cibo per corroborare gli animi, ma ne conosciamo purtroppo gli effetti. Le ricette culinarie cosiddette “tradizionali” potevano in realtà essere realizzate solo in ristretti nuclei familiari di ceto elevato. D'altronde i manuali di cucina erano scritti da cuochi o da operatori al servizio di aristocratici e potenti.
Chissà cosa ci direbbe di questo passato l’analisi critica dei libroni mastri dei nostri casolini, dove veniva registrata la spesa del “libréto” delle nostre famiglie, la carta di credito di allora. Quanti drammi, quanta mascherata normalità, talvolta quanta dignitosa miseria nascondevano quelle striminzite annotazioni di acquisto di beni primari. Sarebbe forse una storia da raccontare, prima che sparisse del tutto. Certo non sarebbe una storia gloriosa e perciò temo che non interesserebbe a nessuno.
Stiani le persone un po' "burrose" e in carne erano rare e invidiate, dato che la maggioranza era secca secca e più conforme ai nostri correnti dettami estetici. La palestra e la cyclette erano gratis e al peso forma era più difficile arrivarci salendo che scendendo. Allora chi era misso veniva compatito, prova ne sia che per le nostre mamme l'obiettivo principale era: Chèl magne! Talvolta penso che la facilità con cui acquistiamo peso sia frutto dell'efficientissima selezione genetica e secoli di necessità di far tesoro di ogni caloria.
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