【Gianni Spagnolo © 20X11】
Appartengo a quella parte di mondo che preferisce il caffè al tè. Nonostante bazzichi da tempo l’Estremo Oriente, che m’alletta con le sue innumerevoli e preziose qualità di tè, non mi sono ancora convertito. Sarà l’imprinting ricevuto in famiglia, dalla vecchia e borbottante cògoma de me pora nona. Dalla Gusta, infatti, la cògoma era regina indiscussa della casa e l’ambiente intriso dei suoi aromatici effluvi.
Nella grande cucina troneggiava allora la vecchia fornèla bianca che a me pareva enorme, e lo era per davvero. L’avevano comprata nel 1936 i miei nonni materni alle Seghe, dai Rossi Balansa, che oggi si sono ingranditi e hanno anche modernizzato il nome. Aveva un bel corrimano cromato sui tre lati attorno, ben quattro ordini di sìrci, una vaschetta dell'acqua monumentale e e una canna fumaria che sembrava un obice; non per niente era chiamata canòn. Era quasi sempre accesa, visto che serviva per tutto: scaldare l’ambiente, far da magnàre, scaldar l’acua e .. far el cafè. Quando non era in azione, la cògoma era parcheggiata in calda nell’angolo estremo della piastra della stua, pinlà dei sircìti. Era una caffettiera francese, a gravità; in Italia era chiamata Napoletana, ma era improprio, visto che fu un transalpino, tal Morize, a idearla già nel 1819. Mia nonna infatti era vissuta a lungo in Francia, mentre con le tradizioni partenopee non aveva niente da spartire. In quella cucina era un via vai di comari e perciò le occasioni per meter sù la cògoma non mancavano davvero.
Dalla Francia aveva portato anche uno splendido macinino da caffè in legno, istoriato con paesaggi colorati. Il rito del caffè prevedeva infatti la preventiva macinazione dei chicchi, con il macinino stretto fra le ginocchia e ampi giri di manovella, che diffondeva l’aroma nella stanza e riempiva il cassettino della bruna polvere, che poi veniva caricata direttamente nel filtro della caffettiera. Una volta aggiunta l’acqua, la macchinetta finiva sopra i sìrci a bòjere, intanto che me Nona la pareciàva i piatéi, le cìcare e i guciarìti; i cosiddetti parecìti, seitando a ciacolare con le vicine o le comare. Dugàre a parecìti era allora anche il gioco preferito delle bambine, e c'era un perché.
La Nena brija, la Giulia spaca, l’Ana pesaventa, la Sunta de Roco, so sorela Maria bota e altre che non mi ricordo più… cuanti cafè che ga fato cuéla cògoma... e quante ciàcole. A volte mi prendevo io l’incarico di macinare il caffè, perché ne gradivo l’aroma che scaturiva da quel macinino e mi divertivo un sacco a paràr torno la manovèla.
Ad un certo punto, dal buchino situato sulla metà della cògoma, fuoruscivano delle gocce d’acqua bollente che cadevano sui cerchi roventi della stufa sfritegando e dividendosi in minuscole palline argentee saltellanti. Era questo il segnale che bisognava girare sottosopra la caffettiera, cioè voltar la cògoma, affinché l’acqua filtrasse attraverso la polvere di caffè estraendone l’aroma. Atteso il tempo necessario che si compisse l’operazione, quel liquido nero e fumante era pronto a riempire le tazzine attraverso il beccuccio del contenitore inferiore, che invece prima del rabaltaménto troneggiava di sopra come un lungo e arcigno naso rivolto all'ingiù.
Mia mamma invece usava la moka, quella inventata da Alfonso Bialetti nel 1933, l'omino con i baffi. Il risultato era simile, anche se la preparazione era più veloce e meno coreografica. Si alzava presto per accendere il fuoco, quel rito millenario che si celebrava nelle nostre case e che fu prerogativa di mio nonno, finché visse. Nelle gelide mattine d’inverno io mi precipitavo svelto giù per le scale fino in cucina per farmi abbracciare da quel caldo tepore intriso di un aroma indefinibile fatto di caffè, di latte bollito, di fuoco di legna di fagàro e di sòlfro. Zolfo, sì, perché allora i fuminànti sbarà i spussava albisogno da sòlfro. Quello era il profumo di casa e ancor oggi, quando avverto anche uno solo di questi odori, immediatamente ritorno a quei momenti. Lo stesso mi capita con quello della polenta, legato ad altri orari della giornata. Il profumo della polenta cucinata nel caliéro di rame sulla stufa a legna è inconfondibile per chi l’ha sperimentato da bambino, significa casa nella nostra lingua e in tutte le parti della Terra dove ci siamo dispersi.
Del caffè delle comari mi ricordo che certe versavano il caffè nel piattino per raffreddarlo e poi nella tazzina.
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