A laóro a laoràrghe drìo al laóro che me ga petà sù Jorjo polaco chel vorìa ca ghe laórasse sora ala cuestiòn de come che jén doparà laoràre intela parlata nostrana. Ma messà che xe un laoràsso!
“A laóro” equivale a “son drìo” e sta per “sto facendo” dell’italiano corrente. “a son drìo” parrebbe indicare però un impegno meno incisivo che “a laóro”, dove evocare questo verbo fattivo conferisce maggior operatività al concetto.
Messà che xe mejo ca femo come la Gabriela, che la laóra a dormire. Laórare a dormire è peraltro un’attività ristoratrice consueta di notte, mentre per alcuni lo è anche di giorno. In quest'ultimo caso il verbo rappresenta più una situazione di fatto che un'azione in divenire.
Da rénte la se mete anca la Odette a tacar issa cola cuestiòn de “un pasto” (tanti, molti), chel xe anca un modo di dire nostràn.
In veneto, "pasto" ha lo stesso significato che nell'italiano e deriva dal latino "pastus", che è il participio passato di "pascere" cioè pascolare e quindi, per estensione, l'atto del mangiare in senso lato.
Quando però il sostantivo è completato dall'articolo indeterminativo un/on "on pasto" - e solo in questo caso - in veneto assume stranamente il significato di "molti, tanti", cosa che non avviene in italiano. Non è chiara l'origine di questa accezione della nostra lingua; forse deriva dal fatto che, in tempore famis, aver disponibilità di un buon pasto era di per se stesso sinonimo di abbondanza.
Il concetto potrebbe essere rafforzato da una tradizione che imponeva al parroco dei nostri paesi (di sicuro per San Pietro, non so degli altri) l'onere di offrire un pranzo all’anno ai cantori della chiesa. Questa consuetudine era ben cara ai parrocchiani, ma assai poco amata dai preti, che cercarono spesso di svicolare.
Capitò infatti che i paesani si appellassero addirittura al vescovo per richiamare il parroco al rispetto dell'usanza e il prelato non si sottraesse a confermarli. Il problema era che al pranzo dei cantori si presentava di solito una moltitudine di gente, anche chi aveva cantato una volta solo nell’anno o addirittura mai, o s’era aggregato furtivo e silente al coro al solo scopo di maturare il diritto. Questa tradizione comportava perciò un onere economico assai impegnativo per il parroco e una remunerazione ritenuta sproporzionata al servizio svolto dai beneficiati, peraltro volontario. Non stupisce perciò che i preti cercassero di affossare questa tradizione, che però aveva dalla sua nientemeno che il Vangelo.
Infatti, nella parabola dei lavoratori della vigna, in Matteo 20,1-16, era il Signore stesso che non badava certo alla proporzionalità dell’impegno e quindi, a malincuore, anche il prete doveva adeguarsi e far buon viso a cattivo gioco.
Fu così che nacque in paese il detto sarcastico: “I xe in tanti fa al pasto dei canturi!” (Sono in tanti come al pranzo dei cantori) a significare una moltitudine di gente. “Cuanti ghin’élo? Ghin’é on pasto!”. (Quanti ce ne sono? Tanti!)
Quindi stiàni in paese, per avere un riferimento per un assembramento di molta gente, il rimando era al pasto dei cantori; per molti l’unica occasione per mangiare fuori e a sbafo.
Anca ancò a laoravo a dormire ma no un pasto, appena na scianta de colasion
RispondiEliminaChe belli ricordi questa lingua veneta. Ho ancora presente, "n'tele recie" la voce di mia mamma deceduta 30 anni fà. E un piacere constatare, ogni volta che veniamo in Veneto, che il dialetto non è morto.
RispondiEliminaHo 75 anni e non mi ricordo di aver mai sentito dire:
RispondiElimina"I xe tanti fa al pasto dei canturi"
Forse in altre zone, ma a san piero mai sentio. Fursi Lino da la veneranda età ch'l ha pol saverlo.
Ne ho 64 e a S. Piero sempre sentìa😊
EliminaOk va bene, era solo una riflessione
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