Cosa ci è rimasto, in fondo all’anima, dopo la trasferta romana della
settimana scorsa, nella quale abbiamo accompagnato e salutato il nostro
albero più famoso nel suo viaggio più importante?
Un tumulto di emozioni
che dureranno nel tempo e un sedimento di ricordi che non se ne
andranno più. Ci rimarranno le immagini di un S. Padre affaticato e
stanco, quando è apparso in aula Nervi, ma pur sempre determinato e
tenace nel voler salutare moltissime delle persone presenti, iniziando
oltretutto dalla gente comune per passare poi alle autorità; resteranno a
lungo le immagini dell’accensione del presepe e dell’albero, con il
contorno di saluti, musica, sbandieratori di Conegliano e un malinconico
volo di gabbiani indugianti al tramonto; ci rimarranno le
contraddizioni di una città come Roma, con il suo traffico caotico e
arrogante, i senzatetto distesi sotto le stelle, la presenza
rassicurante, ma quasi ossessiva delle forze di polizia a ricordarci
quanto sia cambiato il mondo negli ultimi anni. Resterà impresso nella
nostra memoria l’impatto con Piazza San Pietro quando, sbucati dal
sottopasso del Gianicolo, ce la siamo trovata davanti quasi
all’improvviso, rimanendone abbagliati. C’era troppa bellezza di fronte e
attorno a noi, ben oltre la nostra capacità di assorbirla: la forza del
colonnato, sormontato dalle statue, lo splendore della basilica e
l’imponenza della cupola, l’eleganza verticale dell’obelisco egizio,
posto proprio al centro di tutto. Ma in quella piazza tutto era grande,
immenso, anche ciò che non si vedeva, ma si percepiva: la storia
dell’uomo, l’antichità, la fede, l’Eternità. Con lo sguardo abbiamo
subito cercato il motivo per il quale in così tanti eravamo calati fin
laggiù: un abete rosso di 26 metri, proveniente dai boschi dei 7 Comuni e
donato da tre minuscole comunità di montagna. Nei giorni precedenti lo
avevamo visualizzato spesso nella webcam di Piazza San Pietro e scrutato
nelle foto che ogni tanto venivano pubblicate, cercando di intuire il
suo stato di salute. Lo sapevamo un po’ acciaccato, causa le
peregrinazioni di un lungo viaggio, ora finalmente lo avevamo davanti e
potevamo vederlo: riscontrando una forma fisica e un aspetto più che
buono. L’albero, il nostro albero, quello nato e cresciuto nelle nostre
montagne, che per tanti anni si è nutrito dell'acqua e dell'aria di
malga Trugole e che alla sera volgeva i rami al tramonto per cogliere
anche l'ultimo raggio di sole, svettava alto, nel centro della piazza
più famosa del mondo. Sembrava quasi piccolo a confronto con la stele
egizia posta al suo fianco, però recava in sé messaggi e significati che
tanto piccoli non erano e su cui ritorneremo. Un mezzo miracolo lo
aveva comunque già compiuto, chiamando a raccolta e riunendo sotto le
sue chiome, come mai era successo prima, un nutrito gruppo di pellegrini
delle tre comunità donatrici:
Rotzo, Pedescala e S. Pietro Valdastico.
E
se il nostro abete è stato latore principalmente di un messaggio di
pace – a cento anni dalla Grande Guerra e dal rientro delle popolazioni
dal profugato – bisogna pur dire che la pace andrebbe cercata a partire
da dentro e attorno a noi. Una pace vera, autentica, duratura: ecco la
nostra speranza, il regalo più bello che potremmo augurarci di trovare
sotto i rami dell’albero volante.
Biblioteca civica di Rotzo
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