di Maurizio Boschiero
Il
Natale di quasi mezzo secolo fa, quando io ero bambino, certo non
aveva lo sfarzo e lo spreco che hanno questi tempi, pieni di tutto
quanto si può immaginare.
Le case, ora, si riempiono di regali, di
tavole imbandite, di musiche, di alberi e di presepi. Già dai primi
di novembre, appena dopo i “morti”, compaiono in giro i segni
della festa che dovrebbe essere di gioia per la nascita di Gesù, ma
che si trasforma in uno stucchevole avvenimento consumistico.
Attraversiamo,
storditi e veloci, quei giorni di dicembre senza cogliere il
significato profondo di quel tempo in cui nasce il Cristo degli umili
e degli uomini che vogliono ascoltare il cuore. “Stano no go
sentìo el Nadàle”, si sente sempre più spesso dire
sconsolatamente…
“Te ricordito sti ani quando ca no gavivimo
gnente?”. “Fursi jera pì belo lora”.
Era
proprio così un tempo, avevamo poco, ma ci accontentavamo e ce lo
facevamo bastare. Bastava un niente per sognare, per volare lontano
con la fantasia in un mondo incantato e di fiaba che avremmo voluto
non si sciogliesse come un fiocco di neve posato in una mano.
Il
“profumo” di Natale calava con la neve dei primi di dicembre,
quando la coltre bianca copriva i campi, le case, gli orti e lo
sguardo si spandeva lontano tra il cielo e la terra confusi col
niente. Erano inverni rigidi e lunghi, con le strade ghiacciate per
tanti mesi e tante volte anche l’acqua in casa gelava nei tubi. Le
stufe a legna riscaldavano solo la cucina e nella camera, per
“stemprare” un po’, si metteva la “mónega con la fogàra e
le bronse”, il resto della casa era unfrigorifero.
Noi
bambini aspettavamo con ansia le vacanze per andare a slittare sulla
“busa de Bastiano”, che costeggiava le scalette per Caltrano. Le
slitte di legno, se così si potevano chiamare, le costruivamo in
casa del “caporion” che era mio cugino Armando con “tole”
tenute insieme con dei chiodi di recupero arrugginiti, che mio nonno
Bepi teneva in un barattolo. Disegnavamo la curvatura degli sci con
il profilo di un piatto da cucina, che poi il buon Olinto de Muri
generosamente ritagliava con la sega a nastro. Assemblavamo il tutto
tra lo strepitio di mio nonno, che non voleva gli consumassimo la sua
roba. Dopo aver applicato una “reja” metallica sotto gli sci,
eravamo pronti ad affrontare le discese e le rive coperte di neve e
di siepi, muniti solo di coraggio e di incoscienza. Non sentivamo
nemmeno il freddo, anche se la nostra tenuta era alquanto modesta: un
paio di guanti di lana, un paio di scarponcini consumati, le braghe
di fustagno, un maglioncino fatto in casa e un berrettino con le
“reciàre”. Sembravamo folletti o esseri del bosco, talmente presi
dalla neve, che non ci accorgevamo di essere ridicoli. Tra una
“slitàda e una imbalocàda”, facevamo anche il “pajasso”
sfidando il freddo e le “buganse” e i più “ramenati” si
distendevano per terra a fare lo stampo.
Il
maestro a scuola ci faceva imparare la poesia e il canto di tema
natalizio, tentando di mettere insieme un coro che a tenerlo era una
impresa. Ci aiutava anche a preparare la letterina che il giorno di
Natale avremmo messo sotto il piatto del papà nel pranzo di
mezzogiorno. Vi erano in commercio le letterine già pronte con dei
disegni a cui erano applicati dei brillantini color argento o color
oro. Sembravano fiabe colorate, che ci portavano lontano in un mondo
lieve e leggero fatto di sogno e di innocenza. Si potevano trovare
dalla “Maria Pona” davanti alla scuola, dall’Alice Manea di
fianco alla chiesa nuova e dalla “Lidia Piandi” in piazza della
chiesa vecchia. Quasi tutti però le preparavamo a scuola, muniti
delle forbici, del barattolo di colla “cocoina”, dal profumo
buono di mandorle che veniva voglia di assaggiare, brillantini e una
busta da lettera bianca in cui avremmo messo il messaggio. Io usavo
fare la colla con un po’ di farina bianca mischiata con l’acqua,
ne veniva una pastella appiccicaticcia a buon mercato. Disegnavamo
qualche scena di Natale, magari una capanna con la cometa, la neve
sul tetto o, i più bravi, un piccolo albero e il presepe. Con la
colla ripassavamo i contorni per poi applicarvi i brillantini.
Aggiungevamo dei pensierini con i buoni propositi e il ringraziamento
se eventualmente fosse arrivata qualche mancia o regalo. Cominciavano
quasi tutte così: “Caro Gesù bambino, ti voglio bene, ti prometto
che sarò buono e che studierò, non farò arrabbiare la mamma e il
fratellino, aiuterò il papà nei suoi lavori e studierò. Grazie se
ti ricorderai di me, ma ci sono dei bambini che ne hanno più
bisogno, magari sono senza casa o genitori, va prima da loro”. Si
giocava un po’ sul patetico, sull’altruismo che sapevamo far
presa sui genitori. Seguiva una piccola poesia che ci dettava il
maestro e che dovevamo recitare in piedi sulla sedia della cucina
quando il papà aveva aperto la busta, fingendo sorpresa, il giorno
di Natale. Era sempre emozionante quel momento; il papà che faceva
gli occhi rossi, la mamma tutta attenta a che le parole fluissero
senza intoppi e le sorelline o i fratelli, che alla fine applaudivano
o in qualche caso “cojonavano”, se la recita non era venuta gran
che bene.
Nelle
case, qualche giorno prima della nascita di Cristo, si allestiva il
presepe, più raramente l’albero che era solita farlo solo mia zia
Teresina in un angolo della sala grande con meravigliose palline di
vetro e con le candele di cera che si potevano accendere rischiando
ogni volta l’incendio. Si andava per muschio lungo i pendii in
ombra con un sacco di juta che riempivamo di belle “slorde”.
Raccoglievamo anche qualche rametto di pungitopo con le bacche rosse,
per farne dei piccoli cespugli da porre sulla scena della natività e
delle foglie di bucaneve, che con un po’ di fantasia, diventavano
le palme, dei sassi che diventavano grotte e qualche pezzo di legno
per le montagne. Solitamente il presepe lo si costruiva su una
vecchia tavola in un angolo della cucina, quella che nei giorni
precedenti era servita per “far su el mascio”. Si scartavano le
vecchie statuine riposte con cura in una scatola l’anno prima e
lentamente riprendevano vita e ritrovavano posto su quel magico
teatro. C’era il laghetto con le oche fatto con un pezzo di
specchio, le stradine tracciate con la segatura, la stella cometa di
cartone e brillantini, la capanna un po’ scassata e quel pastorello
con la bòtte che ci guardava negli occhi, che la mamma si era portata
in “dote” dalla casa paterna. Delle candeline dell’anno prima
con il piccolo contenitore di latta per la cera le posizionavamo come
impianto luci che dava alla scena un incanto quasi divino. La stanza
profumava di muschio, di terra e di cera: il presepe era fatto. Il
bambinello lo mettevamo la notte di Natale e i re magi dovevano
aspettare il sei gennaio. La notte del 24 dicembre un ciocco di legno
buono bruciava nella stufa lentamente per accogliere nel tepore il
nascituro. Tentavamo di restare svegli fino a notte fonda, per
arrivare all’ora in cui pensavamo Cristo bussasse alla porta, ma
quasi sempre il sonno ci prendeva e forse il sogno portava noi sin in
paradiso.
Nei
giorni che precedevano il Natale, gruppi di ragazzi andavano per le
famiglie a “cantar la stella” in cambio di qualche lira. Una
volta in gruppo con mio cugino Armando e altri ragazzi del Costo ci
esibimmo in un canto davanti alla casa del segretario Simonato.
Eravamo così stonati e bolsi che ne uscì una nenia da “sgrìsole”.
Uscirono in fretta a darci qualcosa perché finissimo il lamento.
Il
giorno di Natale mia madre mi portava a messa prima, a Caltrano. Era
tutto silenzio alle sei di mattina e il freddo forte tagliava il viso
giù per la strada buia del ponte. Il fondo era una lastra di
ghiaccio scivoloso e bisognava avanzare senza “sbrissiàre”,
magari affondando i passi nella neve delle cunette. Solo il chiarore
della luna ci faceva un po’ di luce e, in lontananza, il rumore
dell’acqua dell’Astico rendeva meno pesante quel silenzio. Sullo
sfondo il paese di Caltrano con le case una sull’altra e qualche
luce agli angoli delle strade sembrava un presepe addormentato sotto
la neve. Era un momento meraviglioso con l’alba che rischiarava il
cielo verso Calvene. Al ponte si univa a noi la vecchia Ancilla ed
era la prima che ci faceva gli auguri. Pensavo fosse il fiato del bue
e dell’asinello che riscaldava Gesù a “stemprare” anche la
chiesa, che ci accoglieva nella penombra delle navate che poco il
sole illuminava. Erano dolci quei momenti con i canti, le luci e il
grande presepe nell’ombra. Al ritorno andavamo al Costo da mia
nonna “Silia”, che ci preparava la cioccolata calda e a me dava
una piccola mancia. Aveva in un angolo un presepe che preparava con
delle statuine piene di anni e di poesia. Mi regalò un pastorello,
che ancora conservo insieme con una palma spelacchiata che mia madre
mi comprò a Thiene quando un anno mi portò, in bicicletta, a
visitare la bottega al Corso.
A
mezzogiorno il pranzo con i tortellini in brodo, l’arrosto, “la
salsetta” per la carne lessa e il “bussolao”. Aprivamo con
ansia il pacco che la Lanerossi dava ai dipendenti e dentro c’era
ogni ben di Dio, persino il panettone. Finiva sempre che a me veniva
la “gnàgnara”, con il freddo che avevo preso in quei giorni e me
ne stavo “immagato” su per la finestra a guardare verso il monte
di “Mea”, dove mi avevano detto abitava la Befana, che proprio
quei giorni cominciava a muoversi a cavallo della scopa per
controllare se i bambini erano buoni. Io aspettavo sognando, forse
“savariando” per la febbre, i suoi regali, ma questa era un’altra
storia.
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