martedì 24 dicembre 2019

Aspettando il Natale


di Fiorenzo Barzanti
 
‘’Stan a fasiv ad gros par Nadel? ‘’ (Quest’anno farete di grosso per Natale? Cioè avrete molti invitati?) chiese mia mamma alla Talina ad Pidariel. Era la terzultima domenica prima di Natale, le due donne erano uscite dalla chiesa di San Tommaso alla fine della messa delle sette e si erano fermate a casa mia. Fuori aveva ripreso a nevicare e la neve cadeva sullo strato di quella precedente che era sul terreno ormai da dieci giorni. Quella mattina in chiesa era un gran freddo. La Teresa che era la perpetua era a letto con l’influenza e nessuno aveva provveduto a riscaldare la chiesa. Il sistema di riscaldamento era geniale. Una quindicina di scaldini riempiti di carboni ardenti e ricoperti di cenere per conservare il calore venivano distribuiti in mezzo alla panche.
Il prete si scusò per l’inconveniente e fece durare la messa molto poco, anzi quando fu il momento di illustrare il brano del vangelo tagliò corto e disse: la faremo più lunga domenica prossima.
Noi abitavamo a circa 50 metri dalla chiesa invece molte delle donne che andavano alla messa alla domenica mattina alle 7 venivano da lontano e percorrevano anche alcuni chilometri a piedi. Per fare prima ‘’al taieva ad travers’’ (tagliavano di traverso) cioè percorrevano scorciatoie per abbreviare il tragitto ma i sentieri erano spesso fangosi in inverno. Comunque alcune impiegavano anche un’ora e mezza. Oltre alla Talina ad Pidariel (Pedrelli) c’era la Maria ad Furel (Valdinocci), la Iolanda ad Giaz (Bagnolini), la moglie ad Varen (Guiducci) e tante altre. Camminavano in gruppo perché le più vicine aspettavano quelle che venivano da più lontano. Portavano grandi stivali e calzavano grandi calzettoni di lana ‘’trabseda’’ (lana multicolore ottenuta da lane vecchie di diversi colori). Molte si fermavano a casa mia dove le aspettava mia mamma, si cambiavano le calzature e si davano una ‘’radanata’’. Le altre si sistemavano nella sala vicino alla canonica. Quando la messa terminava si fermavano sul piazzale a scambiare delle chiacchiere. Erano momenti molto belli e per alcune era l’unica occasione settimanale per vedere persone lontane ed imparare notizie nuove che poi raccontavano in famiglia ed alle vicine di casa. Era il Facebook artigianale di quei tempi. Così si scoprì che il pagliaio del contadino Biundin aveva preso fuoco. Si ipotizzava un incendio doloso ed addirittura si vociferava di uno spasimante respinto dalla bella figlia. Chi avrebbe mai saputo che la Lora, sposa di fresco perché era rimasta incinta, dopo la nascita del bambino era tornata a casa dei suoi genitori perché la suocera la trattava molto male?
Dopo le chiacchiere il gruppo si scioglieva con le motivazioni più varie: vado a casa perché ho messo su la pentola per il brodo e quell’incantato di mio marito non la schiuma mica nonostante io mi sia raccomandata oppure, ho fretta perché oggi devo fare 8 uova di sfoglia per fare le pappardelle in brodo perché piacciono molto al moroso di mia figlia che è nostro ospite, sapete, a casa sua mangiano solo della gran pastasciutta che ormai ‘’lai scapa dagl’ureci’’ (gli esce dalle orecchie).
Tornando a noi, quella mattina dopo la messa ci fu un fuggi fuggi perché era freddo e nevicava forte. Ma la Talina non poteva non fermarsi a casa nostra per una mezz’oretta e rispose a mia mamma: il proverbio dice Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi ma a casa mia siamo abituati diversamente. Pensa che saremo in quattordici a tavola il 25 dicembre e fare tutti quei cappelletti alla vigilia di Natale avrò il mio bel da fare.
Notate che mia mamma gli dava del voi perché era più giovane mentre la Talina gli dava del tu.
E’ bene che sappiate che a quei tempi nessuno aveva il frigorifero e quindi tutti i cibi deperibili si preparavano sul momento. Per fortuna per Natale c’era la neve ed era freddo e quindi si poteva ammazzare il cappone per fare il brodo anche due giorni prima perché si conservava nel freddo della cantina. I conigli inoltre, a quei tempi erano molto apprezzati in arrosto nel tegame di terracotta oppure arrotolati con all’interno uova soda , prosciutto e finocchio selvatico, avevano una preparazione prima della cottura che durava anche tre giorni. Al giorno d’oggi la potremmo chiamare marinatura. Prima venivano scuoiati e tenuti a mollo nell’acqua fredda per 24 ore. L’acqua veniva cambiata spesso. Poi venivano tagliati a pezzi e conditi con aglio, olio buono, sale, pepe e rosmarino. Rimanevano in questo stato per almeno 12 ore. Poi la cottura a fuoco molto basso durava almeno 5 ore con l’aggiunta di pomodorini alla fine. Mi sono sempre chiesto come fanno certi ristoranti oggigiorno a proporre un buon coniglio con una sola ora di cottura. Misteri della tavola.
Siamo alla fine degli anni 50 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato da famiglie di contadini mezzadri. La mia era una di queste ed io ero un bambino al quale sono rimasti impressi molti ricordi.
Quel giorno vidi arrivare un furgoncino bianco. Si fermò davanti al ‘’bitulen’’ (circolo dei comunisti) che era davanti a casa mia. Era una bella tradizione che si ripeteva ogni anno. Chiamò il gestore che si chiamava Ezio e scaricarono molti scatoloni che contenevano, udite udite i panettoni Pineta. A quei tempi il panettone si mangiava solo per Natale ed il più conosciuto ed economico era il Pineta che si produceva a Ravenna. C’erano tre pezzature, quello da 250 grammi e da 500 grammi che erano avvolti in una carta trasparente ed erano allungati tipo maritozzo con una crosta sopra al sapore di mandorla oltre ai canditi ed all’uva sultanina. C’era poi quello da 750 grammi che invece aveva la scatola colorata di cartone ed era alto e rotondo. Erano una bontà. Ogni tanto anche da noi in campagna arrivava qualche panettone famoso come Motta o Alemagna. Chi lo assaggiava ne decantava le qualità per molti giorni. A noi ne portava uno da Cesena mio zio Mario, fratello di mio babbo faceva il meccanico dei distributori della Esso.
Comunque dal furgoncino furono scaricati anche tanti ‘’boeri’’, erano i famosi cioccolatini con la ciliegia ed il liquore dentro ed avvolti con una carta rossa a forma di caramella.
Avrete già capito che eravamo all’inizio del lungo periodo delle feste natalizie.
Tutti quei panettoni Pineta, i boeri, i wafer, le ‘’luarie’’ erano i premi in palio per chi giocava a carte o per la tombola. Proprio la tombola si giocava tutte le sere fino all’epifania. Per l’occasione non c’erano nel ‘’bitulen’’ solo gli uomini ma anche molte donne e noi bambini.
Una mattina mi svegliai e trovai sul comodino un panettoncino Pineta. L’aveva vinto mio babbo giocando a ‘’marafone’’ la sera prima. Grande fu la sorpresa. Lo mangiammo per colazione io e mia sorella, metà per uno.
Tanto facemmo che quel sabato sera riuscimmo a portare anche mia mamma a giocare a tombola. Era la prima volta ed io e mia sorella ci sentivamo responsabili e facevamo i ciceroni di cose che non conoscevamo bene neppure noi. Non so se lo sapete ma nei locali di quel tempo soprattutto frequentati da uomini le battute anche con il doppio senso si sprecavano.
Fuori nevicava fortissimo ma per fortuna il tragitto era molto breve. Come entrammo nel locale una ventata di caldo bollente ci assalì. Infatti era pieno di gente e le due stufe a ‘’sgantena’’ (segatura del legno) funzionavano a tutta canna.
Come ci vide arrivare, il contadino Bin ad Varen disse ad alta voce rivolto a mio babbo ‘’osta, staseira te purtè la tu padrona, savevla paura che tat pardess?’’ (perdinci questa sera hai portato la tua padrona, riferendosi a mia mamma, forse aveva paura che ti smarrissi? ). Rispose mio babbo ‘’An ciò miga cum a te che tat vargogna ad fela aldei’’ (non sono mica come te che ti vergogni di farla vedere).
Ci sedemmo in un tavolino da quattro e vicino c’era anche la moglie di Battistini amica di mia mamma. Prendemmo una cartella per uno al prezzo di 5 lire ciascuna. Al primo giro nulla, al secondo nulla, al terzo indovinate un po’, mia mamma fece tombola. Quasi quasi non ci credevamo. Quando ci consegnarono il panettone Pineta, quello grande, scoppiò un grande applauso. Inutile dire che ogni tombolata durava molto tempo perché chi estraeva il numero prima di dirlo ad alta voce lo commentava. Poi seguivano i commenti degli altri. Gli slogano erano sempre gli stessi ed uguali a quegli degli anni precedenti ma scatenavano comunque delle grandi risate.


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