Come ogni anno, il contadino, prima che sorgesse il sole, poneva in mezzo al suo orto, un vecchio spaventapasseri ,
che da anni le generazioni della sua famiglia, avevano tramandato ai
nuovi, per scandire il lento passare dei mesi e delle stagioni e della
vita. Lo poneva con cura, sistemando il vestito di juta, come fosse un
bambino obbediente al primo giorno di scuola, nei giorni della settimana
santa, quando nel borgo vi era il silenzio della penitenza, del perdono
laddove vecchie contese tra vicini erano ancora in piedi, terminati
ora, con la scusa di portare un esile ramo di ulivo che straordinariame nte
sapeva di pace. Erano quelli i giorni delle croci. Le croci sul pane,
segnate col dito e messo a lievitare e cuocere prima del giovedi santo.
Le croci segnate al passaggio davanti alla chiesa e davanti ai sepolcri,
fatti crescere in silenzio nei luoghi bui da mesi. E croci, ancora, al
suono delle campane la sera del mercoledì, quando le rondini volavano
nel cielo rosa e grigio a cercare spazi di azzurro prima di lasciare
alla luna quasi piena il regno dei pensieri. E la croce che sovrastava
il paese, in quei giorni assumeva un ruolo di monito e perdono, e
sembrava austera, diversa, seppur fosse come sempre lì, all'ombra dei
meli nella piccola piazza in alto e guardava le case che si ripopolavano
pian piano, per coloro che tornavano dalla città. La croce era quella
che la perpetua segnava ad ogni battito di orologio e mentre cuciva il
manto rosso per la via crucis del venerdì, lungo le vie del paese,
pensava a quando da bambina correva nei vicoli che profumavano di dolci,
di lievito, di preghiere e scovava nelle case le lunghe chiome bianche
dei sepolcri, nascosti nelle cantine e che sembravano anziane donne a
testa in giù, pronte a mostrare gli occhi appena i più piccoli si fossero
avvicinati. Ricordava il forte odore di pane nelle piccole strade, ora
come allora, ed il suono del campanello delle greggi che tornavano di
fretta alle stalle e che si mescolava con il suono della fontana che
quando usciva il sole tornava a brillare. In lontananza si sentivano i
tuoni di temporali che avevano bagnato paesi vicini e l'aria profumava
di terra umida e di acqua di aprile. La perpetua, mentre cuciva il
manto, cercava con gli occhi, in mezzo al campo di grano davanti la
chiesa, ora basso e verdissimo, un vecchio spaventapasseri
che ricordava aver visto da bambina, dal cappello grande di paglia, le
mani larghe che tenevano rumorosi fili d'argento e che il vento agitava.
Ricordava che anche lei, come ora accadeva, prima di tornare a casa
correva nel campo sterminato e vedeva sorridendo che anche in quel
giorno tutti i bambini la sera prima di rincasare, passavano a
salutarlo, come lei in estate quando, in mezzo ai grilli che cantavano,
lasciava i fiori della borragine ed i papaveri ai suoi piedi, come doni
all'amico speciale. Lo trovò muovere le mani in mezzo al campo,
guardare verso la collina dove il sole tramontava e forse sorridere a
quel vento che lo faceva sentire vivo, in mezzo ai voli delle rondini
che lo sfiorvano per vedere da vicino se avesse su quella bocca un
ghigno o un sorriso. Come ogni anno, il vecchio pupazzo, aveva passato
l'inverno nel fienile, posto sotto ad un lucernaio dal quale aveva visto
il cielo girare, la neve cadere copiosa e sentito i lupi ululare quando
scendevano vicino la vallata, poi la nuova luna portare di nuovo le
rondini. Era abituato a sopportare il sole cocente dell'estate, quando
il grano poi maturava e veniva tagliato ed allora restava lì, solitario,
e vedeva il bosco perdere le foglie, tingersi di infiniti colori della
terra in ogni sfumatura, sentiva l'odore del mosto ed i canti del
contadino che raccoglieva le mele ed i cachi e li portava a casa mentre
le rondini, voltandosi un'ultima volta nell'ultima sera, andavano via.
Aveva visto amori nascere nelle sere più buie di un'estate lunghissima,
ricordava nei volti di uomini anziani, quei bambini che restavano fermi
davanti a lui a guardarlo incuriositi ed alcuni seppur cresciuti
tornavano davanti a lui, a render conto della loro vita, di ciò che
avevano realizzato e dei dolori in cui avevano fallito. Qualcuno andava
a chiedere consiglio a quella grande faccia sbiadita dai temporali
estivi sotto cui piegando un po' la testa aveva vissuto e poi sotto un
sole feroce, il giorno seguente. Lo spaventapasseri
aveva visto lo spettacolo delle lucciole che danzavano a notte fonda
intorno a lui, quasi fossero tante scintille del fuoco, come quelli che
nella sera dell'ascensione
lui vedeva nei paesi vicini e sentiva la musica in lontananza, l'eco
della banda e la luce dei fuochi d'artificio nelle feste del patrono.
Veniva poi riposto quando la nebbia circondava i dintorni e le vigne
erano vuote, tornava al caldo nel fienile e lo svegliava davanti alla
fessura del lucernaio il sole di novembre e poi ogni giorno fino al
nuovo momento della primavera. Ed ora in quel nuovo anno, quando le
campane del mercoledì santo segnatono l'ora delle preghiere, forse per
il vento o forse per devozione, la perpetua lo vide abbassare la testa
in segno di rispetto e penitenza e chiudere gli occhi onorando i giorni
silenziosi del borgo antico che all'unisono, una casa accanto all'altra,
si addormentava.
(l'odoredelfienodigiugno)
(l'odoredelfienodigiugno)
Vicino a Borgo Valsugana ,in loc.Marter lungo la ciclabile della valle,c’e’ Il Museo degli Spaventapasseri,penso l’unico del suo genere.
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