LA RIFLESSIONE
LA
SOBRIETA' NELL'EPOCA DEGLI ECCESSI
Nell’epoca degli eccessi, della competizione mediatica a chi grida più forte e la “spara” più grossa, della visibilità a tutti i costi, della logorroica “piazza” virtuale di Facebook, delle fila chilometriche per acquisire l’ultimo smartphone, può tornare la voglia di sobrietà?
Soltanto chi si trova nelle condizioni di disporre molto più del necessario e quindi conosce e pratica l’eccesso può avvertire, in una certa fase della sua vita, la necessità di assumere un comportamento più sobrio. È questo di fatto quello che successe ad Alvise Cornaro, l’autore del fortunato testo “Vita sobria” (1558), a cui viene fatta risalire l’origine della trattazione teorica di questa “utile virtù”. In questo testo infatti, l’autore, che ha vissuto per metà della sua vita nell’agio, disponendo e consumando più del necessario, scopre che, adottando uno stile di vita ispirato alla sobrietà, regolamentato quindi non soltanto nella quantità di cibo da consumare, ma anche nel modo di vestire, di abitare, di impegnarsi in attività pratiche o in arti utili, nonché nella condotta morale, fornisce una concreta possibilità di allungare considerevolmente la propria esistenza.
L’adozione di uno stile di vita sobrio è qui esplicitamente concepito come uno strumento per perseguire ciò a cui tutti ambiscono: vivere il più a lungo possibile. Considerata sotto questo aspetto la sobrietà non sembra possedere un fine eticamente molto elevato, dal momento che Alvise Cornaro l’adotta quando sente che la sua vita materiale sta per terminare e ricorre ad essa soltanto per vivere più a lungo, riuscendovi.
Nell’epoca degli eccessi, della competizione mediatica a chi grida più forte e la “spara” più grossa, della visibilità a tutti i costi, della logorroica “piazza” virtuale di Facebook, delle fila chilometriche per acquisire l’ultimo smartphone, può tornare la voglia di sobrietà?
Soltanto chi si trova nelle condizioni di disporre molto più del necessario e quindi conosce e pratica l’eccesso può avvertire, in una certa fase della sua vita, la necessità di assumere un comportamento più sobrio. È questo di fatto quello che successe ad Alvise Cornaro, l’autore del fortunato testo “Vita sobria” (1558), a cui viene fatta risalire l’origine della trattazione teorica di questa “utile virtù”. In questo testo infatti, l’autore, che ha vissuto per metà della sua vita nell’agio, disponendo e consumando più del necessario, scopre che, adottando uno stile di vita ispirato alla sobrietà, regolamentato quindi non soltanto nella quantità di cibo da consumare, ma anche nel modo di vestire, di abitare, di impegnarsi in attività pratiche o in arti utili, nonché nella condotta morale, fornisce una concreta possibilità di allungare considerevolmente la propria esistenza.
L’adozione di uno stile di vita sobrio è qui esplicitamente concepito come uno strumento per perseguire ciò a cui tutti ambiscono: vivere il più a lungo possibile. Considerata sotto questo aspetto la sobrietà non sembra possedere un fine eticamente molto elevato, dal momento che Alvise Cornaro l’adotta quando sente che la sua vita materiale sta per terminare e ricorre ad essa soltanto per vivere più a lungo, riuscendovi.
Ci
pensa Papa Francesco a darci una visione più ampia: ”cercate
di essere liberi nei confronti delle cose”.
Così
come è necessario il coraggio della felicità, ci vuole anche il
coraggio della sobrietà”, nel messaggio di quattro anni fa,
in occasione della XXIX Giornata mondiale della gioventù.
La sobrietà, infatti, non è solo una limitazione più o meno volontaria dei beni terreni, che pure è necessaria se non si vuole distruggere il mondo, ma è uno stile di vita, improntato sulla semplicità e sul rispetto verso gli altri. La sobrietà non è virtù che riguarda unicamente i beni e le ricchezze; è virtù che tocca l'interezza dell'anima e della vita, quella personale, quella civile. Si potrebbe dire che essa abita la terra del «piccolo», è il credere che i tesori sono nascosti nello spazio dei «piccoli», e crederlo testardamente, a dispetto di una “numerosa razza di odierni «scavatori», che persiste a cercare tesori altrove, presso i grandi, all'ombra dei potenti, tra trono e altare” come sostiene Marcello Farina, sacerdote filosofo.
La sobrietà aiuta a costruire la giustizia, perché decide e sceglie secondo un’equa misura ed è rispettosa dei diritti e soprattutto dei doveri che si hanno verso il prossimo. Chi agisce con sobrietà (versione aggiornata della virtù cardinale della temperanza) non è smodato, eccessivo, ingordo, sregolato, ma si gode la sua semplicità in tutto, perché sa ridurre, recuperare, riciclare, riparare, ricominciare.
“La smania del nuovo”, invece, è quella che spinge a voler ricercare qualcosa che non si sa che cosa sia, a non accontentarsi mai di quello che si ha già, a non godere fermamente delle cose fatte. Tutto ciò contiene i semi dell’infelicità e rende estremamente complesso il vivere quotidiano.
La sobrietà, infatti, non è solo una limitazione più o meno volontaria dei beni terreni, che pure è necessaria se non si vuole distruggere il mondo, ma è uno stile di vita, improntato sulla semplicità e sul rispetto verso gli altri. La sobrietà non è virtù che riguarda unicamente i beni e le ricchezze; è virtù che tocca l'interezza dell'anima e della vita, quella personale, quella civile. Si potrebbe dire che essa abita la terra del «piccolo», è il credere che i tesori sono nascosti nello spazio dei «piccoli», e crederlo testardamente, a dispetto di una “numerosa razza di odierni «scavatori», che persiste a cercare tesori altrove, presso i grandi, all'ombra dei potenti, tra trono e altare” come sostiene Marcello Farina, sacerdote filosofo.
La sobrietà aiuta a costruire la giustizia, perché decide e sceglie secondo un’equa misura ed è rispettosa dei diritti e soprattutto dei doveri che si hanno verso il prossimo. Chi agisce con sobrietà (versione aggiornata della virtù cardinale della temperanza) non è smodato, eccessivo, ingordo, sregolato, ma si gode la sua semplicità in tutto, perché sa ridurre, recuperare, riciclare, riparare, ricominciare.
“La smania del nuovo”, invece, è quella che spinge a voler ricercare qualcosa che non si sa che cosa sia, a non accontentarsi mai di quello che si ha già, a non godere fermamente delle cose fatte. Tutto ciò contiene i semi dell’infelicità e rende estremamente complesso il vivere quotidiano.
Anche
il continuo bombardamento sensoriale, che la società dei consumi
effettua rende dipendenti dalle novità.
D’altra parte, il volere più di quello che si ha è un’esigenza legittima dell’essere umano, laddove essa è fonte di un miglioramento della qualità della vita.
D’altra parte, il volere più di quello che si ha è un’esigenza legittima dell’essere umano, laddove essa è fonte di un miglioramento della qualità della vita.
La
trappola scatta quando si desidera di più senza godere appieno di
quello che nel frattempo si è raggiunto.
In
tal senso Cristopher Carlson, scrittore svedese, osserva che “…
Se pensi che di più sia meglio, non sarai mai soddisfatto…
ricordati che anche se ottieni quello a cui stai pensando, non sarai
più soddisfatto di prima, perché continuerai a desiderare sempre di
più…”.
Alla luce di ciò, il nostro benessere passa attraverso una riscoperta della sobrietà e della semplicità, che consentono di apprezzare quello che si è, quello che si ha e quello che si fa.
Alla luce di ciò, il nostro benessere passa attraverso una riscoperta della sobrietà e della semplicità, che consentono di apprezzare quello che si è, quello che si ha e quello che si fa.
Si
scopre così nella frugalità l’origine della propria grandezza.
“Temo
un uomo dal discorso frugale... temo che egli sia grande…” (Peter
Dickinson, 1996).
Alberto Leoni – pensieri in libertà -
LA POESIA
Così piccolo tutto,
ridotto in poco spazio
anche il sentire,
represso, costretto
a non sentire.
Agita i germogli il vento
e non sa
che fa nascere domande,
si chiedono, i piccoli
dei fiori e delle foglie:
"dove ci porterà un giorno?"
Chi ha il coraggio di dire
che non sono figli del cielo,
ma della terra
a cui torneranno
prima o poi...
Francesca Stassi
LA FRASE
Impara a dire quello che ti disturba, quando ti disturba, non quando non ce la fai più...
Così potrai dirlo con le tue parole migliori e non con le tue offese peggiori.
MODI DI DIRE
Perché si dice : FIRMA IN CALCE?
L’espressione in calce è una locuzione di origine latina, derivata da ‘calx calcis’, ovvero ‘tallone’, ‘calcagno’, da cui il significato “in fondo”.
Il termine è stato dapprima usato per indicare la parte bassa del fucile (il ‘calcio’, per l’appunto), quindi, più in generale, per designare la parte bassa di qualcosa. “Firmare in calce” significa dunque porre la firma più sotto, in basso, in fondo al foglio. Allo stesso modo, una “nota in calce” sarà posta a piè di pagina.
Il termine è stato dapprima usato per indicare la parte bassa del fucile (il ‘calcio’, per l’appunto), quindi, più in generale, per designare la parte bassa di qualcosa. “Firmare in calce” significa dunque porre la firma più sotto, in basso, in fondo al foglio. Allo stesso modo, una “nota in calce” sarà posta a piè di pagina.
Secondo
una diversa interpretazione, l’espressione deriverebbe invece dal
linguaggio sportivo e precisamente dalla parola greca ‘calix’,
letteralmente ‘calce’, la stessa utilizzata per segnalare l’arrivo
della corsa delle bighe, così che il bianco acceso della striscia lo
rendesse ben visibile anche da lontano. Da qui il significato di “alla fine”, “al termine”.
Quale che sia la derivazione corretta, l’espressione in calce è ancora oggi utilizzata frequentemente nel linguaggio burocratico per
indicare la posizione (in basso, alla fine del testo, in fondo alla
pagina) di una nota aggiunta al documento o della firma dei contraenti.
Un capolavoro da rileggere l'articolo di Leoni.
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