domenica 11 ottobre 2015

Dar Martin von Tunkhlbalt - Martin di Boscoscuro - 2 -

Una brezza leggera arrivò da lontano ad accarezzare il fieno maturo dei piccoli prati, che aspettava la falce come una liberazione e alzò un profumo inebriante di erba e di fiori e tutto attorno la natura parve scuotersi, qualche uccello cantò, alcuni caprioli uscirono allo scoperto a pascolare, Martìn avrebbe voluto saperne di più sul vecchio cimitero, e gli sarebbe piaciuto chiedere come si può fare per riportare la piazza e i bambini a Boscoscuro, ma Barbabianca era già andato lontano con il suo passo da montagna.



Quella notte al ragazzo non riusciva di prendere sonno, troppi pensieri gli giravano per la testa, alla fine si decise; scese dal letto senza far rumore e uscì dalla porticina delle galline sul retro della casa, incontro al buio. Per la prima volta nella sua vita comprese perché i suoi compagni avessero paura di Boscoscuro, le tenebre erano così compatte che anche gli uccelli notturni, gufi e civette, si rifiutavano di volare. Aveva l’impressione Martìn, che se si fosse appoggiato, tutto quel buio lo avrebbe sorretto come un muro di pietra. Dopo i primi attimi di smarrimento si guardò intorno cercando di capire da dove venisse tutto quel buio, in cielo c’erano la luna e anche le stelle ma la loro luce non arrivava a toccare terra, la selva degli alberi neri ne tratteneva il bagliore. Martìn si arrampicò su uno degli alberi neri più alti che c’erano là attorno per vedere se sopra la chioma ci fosse un po’ più luce, ma più in alto andava più la luna si allontanava nel cielo e più il suo chiarore si faceva fioco, le stelle sembravano addirittura scomparse, sprofondate negli spazi siderali.



Adesso il timore si fece paura o meglio: fifa gialla… E… peggio che andar di notte… una voce, a cui ben presto se ne unirono molte altre, intonò un canto… Non era però il canto agghiacciante, di cui avevano detto sottovoce i compagni di scuola, ma era piuttosto un canto intriso di dolce malinconia, di sospesa dolcezza, di attesa; parlava di mogli lontane, di figli mai conosciuti, di una sporca guerra non voluta, parlava di montagne e di amicizia, di nostalgia anche, e con grande sorpresa di Martìn, di … Mamma…



Martìn scese dall’albero rapido come uno scoiattolo preso di mira dall’astore, e dentro di lui una voce, quella della prudenza, flebile per la verità, gli suggeriva di tornarsene quatto, quatto nel suo lettuccio, un’altra invece, molto più forte, quella della curiosità, gli diceva che doveva andare a vedere. Nulla è più potente della curiosità in un ragazzo di dieci anni, così pochi minuti più tardi, ben dentro il grande bosco si trovò in mezzo a una scena che dubitava potesse essere reale: «Forse mi sono addormentato e tutto questo è solo un sogno». Ma sogno non era, un gruppo di uomini, alcuni erano poco più che ragazzi, stavano seduti in cerchio attorno ad una stele di pietra, che per magia Martìn sapeva chiamarsi, nell’antica lingua perduta: pillele.



L’uomo, forse il più anziano del gruppo, che gli venne incontro aveva qualcosa di familiare, assomigliava un po’ a suo padre, e un po’ a nonno Khrist, come appariva nel dagherrotipo appeso in camera dei Genitori. «Sono Barba Erik, il fratello maggiore di nonno Khrist». La voce di quell’uomo arrivava dritto al cuore del ragazzo senza passare per le orecchie. «Siamo quelli del vecchio cimitero dei soldati, recisi come margherite in un prato fuori stagione, di maggio, morti troppo presto, e troppo presto dimenticati da tutti, solo Barbabianca di tanto in tanto ci porta un fiore. Cantiamo per ricordare che siamo esistiti, se il mondo potesse ricordarsi di noi e ascoltarci diventerebbe migliore, e noi smetteremo di cantare per riposare finalmente in pace». Martìn raccolse tutto il coraggio che il suo piccolo cuore riusciva a dargli prima di fare la domanda che gli bruciava sulle labbra: «Perché c’è cosi tanto buio a Boscoscuro e come si può fare per far tornare la luce e i bambini e una piazza di paese». «Mio piccolo Martìn – ancora una volta la voce del misterioso zio Erik scendeva in fondo all’anima del ragazzo senza sfiorare la mente – la terra deve essere illuminata prima dal basso, solo così il sole e la luna e gli altri astri possono darle vita vera.



Un tempo esistevano dei piccoli animali che illuminavano la notte da terra, noi le chiamavamo lòichtarla, gli Altri: lucciole, poi sono scomparse, uccise dall’avidità degli uomini. Ma qui alla base del pillele abbiamo conservato le ultime della specie, portale a casa con te e vedrai». Come tanti bambini di montagna per tanti anni hanno fatto, con timore e sacro rispetto, Martìn prese in consegna il vasetto di vetro che conservava le piccole luci e fece qualche passo esitante verso casa, di nuovo lo raggiunse quel canto dolce e malinconico, allora si girò ma vide solo buio.



Il giorno dopo per Martìn fu giorno di lavoro frenetico. Convincere le sorelle Meridiane a prestargli la capretta bianca, per ripulire il vecchio cimitero dei soldati, fu abbastanza facile, non cosi invece, persuadere Natale a costruirvi tutt’attorno un recinto di stonplattn, e chiedere a suo padre di realizzare una grande croce di legno da portare in mezzo al bosco, ma più difficile di tutto questo fu spiegare loro il perché. Eppure, come se Boscoscuro e i suoi abitanti si fossero risvegliati all’improvviso da un lungo sonno, piano, piano, uno dopo l’altro incominciarono a ritrovarsi e sempre c’erano nuovi lavori da fare e quando cadeva il buio tutti erano ancora intenti a discutere e la luce delle case che filtrava dalle porte aperte illuminava la notte. In pochi giorni, il vecchio cimitero dimenticato divenne il Giardino del Ricordo, pieno di fiori di tutti i colori.



Il grande miracolo però avvenne un mese dopo, attirati dal colore intenso dei fiori del Giardino del Ricordo migliaia e migliaia di piccole luci inondarono Boscoscuro, erano… le lucciole. In pochi giorni l’intera foresta palpitava di vita, e, miracolo nel miracolo, gli alberi neri, illuminati dalle lucciole, rivelarono la loro corteccia bianca come la neve di gennaio e i loro aghi, avevano meravigliosi riflessi d’argento.



Boscoscuro dopo quel giorno in cui vi erano arrivate le piccole lucine non faceva più paura ai bambini, che sempre più spesso vi salivano a giocare a pallone, e a volte, seduti su una delle pietre del vecchio cimitero, Barbabianca insegnava loro l’antica lingua creduta perduta per sempre, come le lucciole e così scoprirono che Tånnbalt altro non significava che Bosco degli Abeti Bianchi. Più nessuno udì cantare il coro malinconico dei soldati, solo Martìn a volte, quando lo prendeva quella tristezza tipica dei suoi giovani anni, si metteva in ascolto e chissà che ancora oggi sia il solo ad ascoltarla quella melodia.

Io non so dirti caro amico che mi hai seguito con pazienza sino a qui, se lassù tornarono un paese e una piazza, ma so dirti con certezza che sono le persone con i loro ricordi che fanno vivere i luoghi, non scordartene mai. 
Andrea Nicolussi Golo 

6 commenti:

  1. Forse sono rimasta un poco bambina anch'io , adoro le lucciole che illuminano i prati nelle prime notti d'estate e mi ricordano quando le catturavo in un bicchiere lasciandole libere quasi subito per paura di ucciderle.Qui in campagna sono rimaste assenti per molti anni (forse per colpa dei diserbanti e pesticidi che abbondavano) ma da qualche tempo sono tornate e questo mi fa pensare che forse una rinascita ci sarà. Credo che i racconti di Andrea siano frutto di un un'anima pura e pulita come poche al mondo e per questo mi piacciono tanto. Floriana

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  2. le ultime tre righe di Andrea, Grazie Andrea, sembrano scritte per tanti nostri valligiani...,

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  3. Si nota, una volta ancora, il talento di narratore, l'immaginazione e l"anima pura" (come dice Floriana), di Andrea.
    Complimenti !

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  4. Gentile Anonimo le ultime righe valgono per tutti e per ognuno. Grazie infinite a Floriana e Odette per aver letto questa favoletta, la cui responsabilità è da attribuire per intero al Don Sponcio, che mi ha fatto venire in mente quegli anni lontani. Andrea

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  5. Forte anche il Don Sponcio!!!!!!!!Floriana

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  6. Ohibò, ...ecco che rispunta il mio caro lusernico lòichtarle elfo, che si dispensa parsimonioso a dosi omeopatiche pezo chel Philo. Non solleticare troppamente il mio smisurato superEgo, che c'ho già il mio bel daffare a tenerlo a bada. Yaba-dabba-doo.....

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