giovedì 17 ottobre 2013

1963-2013 - Per non dimenticare


Ci alziamo e apriamo solo poche righe delle tapparelle della camera per  non far entrare troppa luce. Però già attraverso di esse filtra una luce molto chiara, segno che fuori dovrebbe essere un bellissima giornata.
Dopo un po’ quando siamo ben svegli piano piano scendiamo al piano terra, apriamo le tapparelle e il sole già bello alto ci annuncia una giornata incantevole.
Facciamo una bella e abbondante colazione, prepariamo il frigo portatile, mettiamo tutto l’occorrente in macchina e partiamo in direzione Bassano, per poi prendere la strada che ci conduce verso Valdobbiadene terra del prosecco.
La gita prevista è, passare per il passo San Boldo, oppure Strada dei cento giorni.

E’ una strada stretta e il passo non è molto alto, circa 706 metri, la strada costruita proprio in cento giorni durante la 1° guerra e percorribile in senso alternato gestito da semafori messi alla base e sulla cima.
La parte più irta è costituita da 8 tornanti e tutti sono stati scavati in gallerie, molto strette. La strada dà un senso di lavoro maestoso, i tornanti sono cortissimi e la salita è molto breve. Praticamente in un attimo si arriva alla cima, dalla quale poi continuando la strada si arriva a Belluno.
Arrivati alla cima del passo troviamo un parcheggio dove ci fermiamo e sui  tavolini in legno per i pic-nic ci godiamo anche uno splendido panorama e un cielo azzurrissimo.
E poi via  alla volta di Belluno, la nostra meta era Longarone per visitare la famosa diga del Vajont!
In tutti questi  anni non sono mai andato a vedere quel posto, avevo visto la diga tanti anni fa attraversando Longarone, ma mai da vicino. A darmi la spinta è stata la lettura dei libri di Mauro Corona: seguendo i suoi racconti, la voglia di visitare questi luoghi  è cresciuta di giorno in giorno, così oggi, eccomi finalmente con la mia famiglia ad inseguire questa meta.
Prendiamo la strada che ci conduce a Erto e Casso, due paesetti lungo la valle del Vajont, distrutti in parte da quell’onda d’acqua che causò 1.910 morti.

La strada che ci conduce a Erto sale lungo la parete rocciosa della strettissima valle; uscendo da una curva lo sguardo sbatte violentemente su un'enorme parete grigia di cemento che blocca praticamente la valle del Vajont. Si attraversano tre, quattro gallerie con  le loro finestre che ci fanno intravedere dei fotogrammi di un film. Finite le gallerie, la strada si inerpica con tornati stretti, costruiti proprio sulla frana scivolata

violentemente quel 9 ottobre del 1963 dentro il lago. I parcheggi sono stracolmi di macchine, lungo la strada pedoni che camminano in fila indiana, ordinati come tanti soldatini che si recano più in basso per vedere la maestosità della diga.




Noi procediamo sempre verso Erto e arrivati alla sommità del passo ci fermiamo un attimo per vedere la gigantesca frana che quella sera si staccò dal monte Toc.  Devo ammettere che quando questi fatti  ci vengono rappresentati con le immagini, spesso non riusciamo a renderci conto della dimensione reale del luogo e del fenomeno;  ma lì, da  quel posto in alto, ritto in piedi, con lo sguardo sulla valle e mentre sfilano nella mia mente  immagini vecchie di 50 anni fa, allora  mi appare con chiarezza  l'immensità del disastro. Incredulo rimango lì sbalordito, come se la scena si ripetesse davanti ai miei occhi; sento perfino un rumore forte, sordo,di uno scivolare di una massa di terra e sassi che mi fa sbattere le ciglia e svegliarmi quasi inebetito a quel pensiero di quella sera di ottobre. Risaliamo in macchina e percorriamo ancora alcuni chilometri lungo la valle del Vajont.    
Ad un certo punto scorgo, dopo un curva, un cartello che indica la località di Erto, metto la freccia a destra ed entro in quel piccolo paese; la strada è stretta a senso unico, ci sono molte macchine e moto parcheggiate nei piccoli spazi, mi addentro in centro, passo fra le case e ad un certo punto quasi in fondo al paese, trovo un piccolo spiazzo dove posso parcheggiare. Proprio di fronte, su uno zoccolo di pietra, c’è un statua in bronzo che rappresenta la figura di una donna che porta sulla schiena una grande cassetta di legno: "le sedonére" (commercianti itineranti).

Vedendola, mi balena nella mente una figura maschile, che veniva nella contra' Lucca di San Pietro tanti anni fa. Egli arrivava in paese portando sulla schiena una cassetta in legno sorretta con delle cinghie. Dietro di essa c’erano due portine, aprendo le quali c’erano dei cassetti che contenevano varia mercanzia. Quest' uomo partiva da casa e restava in giro per i paesi per mesi e mesi nella buona stagione. Dentro questi cassetti teneva aghi, forbici, rochéi de filo di vario colore, pontapéti, piccoli pezzi di stoffa, gomitoli di lana... ecc...  
Mi ricordo che quando entrava a casa mia, in cucina si girava e appoggiava con una smorfia di grande sollievo questa cassetta che di sicuro pesava molto.
M'incammino per l’unica via centrale di Erto. Cammino piano in modo da poter vedere anche i più piccoli particolari. La strada, togliendo i turisti, è completamente deserta, l’asfalto è malconcio, è stretta a tal punto che in certi punti le macchine fanno fatica a passare; da un piccolo scorcio vedo che giù in valle nel torrente c’è un piccolo laghetto con un’acqua verdissima, sembra quasi una lastra di vetro talmente è ferma, un po’ più sotto di dove sono io intravedo muri che una volta erano di case, ancora con le finestre attraverso le quali si vede il cielo azzurro di oggi.  

Le vie ai lati di quella strada principale non sono praticabili in auto data la loro strettissima carreggiata, hanno il fondo di selciato, addirittura certe solo un paio di metri, l’odore che si sente è di cemento nuovo, di vecchia muffa e legno marcio. Tutto sembra fermo da moltissimi anni, alcune case sono state ristrutturate per dar loro la possibilità di non afflosciarsi sulle proprie fondamenta, poggioli ancora in legno originali di quel tempo diventati ora penzolanti e pericolanti, serramenti  appesi come fossero disegnati su quei vecchi muri fatti di sassi ben scalpellati da mano esperta.


Vado ancora avanti, incrocio due donne che nel vedermi mi danno il buongiorno, la domanda che mi viene spontanea è di capire quanti anni possono avere per sapere se loro quel disastro se lo ricordano. Scendono un paio di gradini di sasso e si infilano sotto un portico dove fa bella vista una targhetta di sasso  con scritto “via della ricostruzione”, percorribile solo a piedi, poi poco più in là dopo una paio di caseggiati mi accorgo dell’uscita della stessa.
Case con ancora le finestre di quel tempo, magari rimaste semiaperte ancora da quel momento, qualche vetro rotto segno che qualche fantasma si aggira ancora per le stanze in cerca della sua pace, scricchiolii di grondaie penzolanti  dai tetti, qualche finestra quasi marcia senza vetri che sbatte mossa dalla corrente d’aria.


L’unico bar aperto si trova vicino a dove ho parcheggiato la macchina, un piccolo locale secondo me aperto in stagione turistica, ci sono dentro e fuori in mezzo alla strada persone che sorseggiano qualche cosa, strano, ma nessuno che discute col suo vicino, ognuno sorseggia dal proprio bicchiere e tutti tacciono, sembra che ancora adesso si abbia paura di disturbare quelle povere anime che hanno perso la vita in quel disastro. Continua la mia visita, fermandomi ogni tanto per dare la precedenza a qualche macchina, ogni tanto guardo in sù e vedo che le case più in alto del paese sono anch’esse danneggiate: “ma quanto alta sarà stata quest’onda d’acqua”  mi chiedo, poi  mi ricordo la descrizione del disastro che avevo letto in un libro, e questo mi fa capire quanto sia diversa l’immaginazione dalla cruda realtà. Sento un chiacchierare di  voci giovanili, mi fermo e sfrecciano due bambini in bicicletta parlando il loro dialetto che  non capisco,  in mano hanno un bastone con in cima una rete, sembra quella per pescare nelle acque basse piccoli pesci, continuano diritti per poi infilarsi in una stradina di selciato tutta sconnessa e scomparire sotto un porticato, e tutto ritorna nel silenzio più assoluto. Sto per arrivare quasi all’inizio del paese e in lontananza  alzando gli occhi verso il monte Toc, vedo la famosa “M” della gigantesca frana,  sembra molto lontana da lì, ma quella sera purtroppo forse non abbastanza per causare una tragedia così grande.



Mi giro e ripercorro nel senso opposto quella via del paese e mi accorgo che nonostante la mia attenzione, "qualche particolare" mi  era sfuggito.  Dietro un angolo una scritta di protesta su un muro di una casa abbandonata “A.D.E + governo = a 2500 morti” mi vengono i brividi, poi vicino nell’altro muro dalla parte opposta  ancora una scritta “Vai Ertano, ma ritorna al tuo paesello che è molto bello”. Lungo questa via, piccoli particolari che portano ancora il segno di quella tragedia. Sento in quel momento il dovere di rimanere in silenzio, per rispetto per tutti quelli che lì non hanno avuto più la possibilità di ritornare.
Ripartiamo con la macchina e ci dirigiamo verso la “nuova  Erto” dove dicono siano rimaste una decina di famiglie che non hanno voluto lasciare il paese natio; è stata ricostruita un po’ più sopra alla vecchia Erto. Continuiamo e saliamo verso il paese di Casso: In piazza scendono da una macchina un gruppo di persone, una porta in mano un microfono e  l’altra una telecamera. Fermano i passanti del posto per chiedere un’intervista, ma si imbattono in qualcuno che non ne ha assolutamente voglia e che con malo modo risponde  per le rime e li allontana sdegnato; era  un gruppo maldestro di qualche TV locale che tentava  di raccogliere  interviste  per  documentare questo famoso cinquantesimo...
Io sono lì che guardo in giro e i miei occhi  incrociano quelli di una donna che lungo la strada, stava smuovendo con la vanga  un piccolissimo pezzo di terra. Ci avviciniamo io e mio moglie, le rivolgiamo la parola e lei ci risponde con simpatia che lì seminerà delle patate. Prendo coraggio e le chiedo se potevo rivolgerle un paio di domande e lei accetta con un piccolo sorriso. Le chiedo se tutto quel materiale che si vede fa parte della frana, lei annuisce con la testa, poi le chiedo se si ricordasse di quella notte, e lì in un baleno vedo che i suoi occhi cambiano l’espressione, ma mi risponde comunque che in casa sua il segno di quella notte c’è. Mi spiega che nella casa quella notte era caduto dal cielo un masso del diametro di 60/70 cm portato in cielo dall’onda violenta e poi caduto dentro la casa sfondando tre piani della stessa. A questo punto ho ringraziato e me ne sono andato, consapevole che stavo per riaprire anche dopo 50 anni quelle ferite.
Ritorniamo alla macchina e partiamo per il ritorno, ma prima voglio fermarmi ad osservare da vicino quell’enorme muro di cemento. Parcheggiamo poco più in sù del monumento vicino alla diga. Costeggiando una staccionata dove i ragazzi delle scuole hanno appesa una interminabile fila di bandierine riportando il nome dei tanti bambini morti o non nati, col cuore in gola, mi dirigo con mio figlio giù fino al monumento e mi accorgo che lì su un sasso c’è una targhetta con scritto “LUOGO SACRO”, distolgo gli occhi da quella targhetta disturbato dalle grida e dal vociare dei turisti onnipresenti  curiosi e poco rispettosi...
Ho letto delle targhette commemorative di persone che persero la vita, lì in quel buco, in mezzo a quella valle stretta ho provato ad immaginare come potesse essere stata quella sera di 50 anni fa...
Ma quante disgrazie, quante tragedie, quante vite umane abbiamo perduto per l’avidità dell’essere umano?
Se solo avessero ascoltato le proteste della gente del posto, che conoscevano molto bene il loro territorio, se solo gli addetti ai lavori e i progettisti fossero stati  meno audaci, forse oggi non sarei qui in questa valle devastata da quell’immensa onda.
Nico Sartori




9 commenti:

  1. Questo racconto Nico mi ha fatto rivivere una "gita" fatta con la famiglia tanti anni fa (credo 35) in quei luoghi e mi ricordo nitidamente le emozioni (inspiegabili a parole) che ho provato nell'attraversare il paese di Erto...
    Un paese fantasma e il nostro unico incontro fu un vecchietto seduto con la sedia fuori dalla sua porta con accanto un gatto e un cagnolino. Il suo sguardo diceva tutto senza parlare...

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    1. E si Carla come hai potuto leggere anche dopo 50 anni la visita di quei luoghi mi ha emozionato e non poco.

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  2. Caro Nico sei un vero narratore coi fiocchi!!!!! E brava tutta la tua famiglia a condividere queste esperienze!!!!! Tra l'altro questo disastro ha profondamento segnato anche me che allora all'età di quindici anni mi misi a raccogliere i ritagli dei giornali per non dimenticare(purtroppo sono andati persi nei miei vari traslochi) e più passa il tempo più mi rendo conto che questa tragedia rimarrà sempre nella mente anche di chi come me non ha subito perdite di amici e familiari........figuriamoci cosa può aver provocato nel cuore dei sopravissuti locali. Floriana

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    1. Cara Floriana, ultimamente a furia di mangiare libri su libri trovo ispirazione in ogni mio ricordo ed in ogni mia emozione per condividerla con tutti voi. Credo siano cose che si hanno dentro e dopo un po' di tempo devi esternarle altrimenti potrebbero andare nel dimenticatoio. Quindi meglio che qualche cosa di scritto resti. Grazie ciao

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  3. "Sono capace del migliore e del peggio, ma è nel peggio che sono il migliore" diceva un celebre umorista francese.
    Ed è cosi anche per gli uomini in generale. Sono capaci di costruire una strada maestosa in 100 giorni (vedere foto) e di concepire la diga del Vajont.

    "Posso misurare il moto dei corpi, ma non l'umana follia" diceva I.Newton. Lo constatiamo ogni giorno.

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    1. Purtroppo cara Odette di queste cose ne siamo pieni tutti i giorni, e non ne saremmo mai sazi. ciao

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  4. Ancora una volta,Nico, ti sei dimostrato fortissimo nel presentare il tuo scritto.
    Certo cio' che successe a Longarone,fu una delle piu' grandi catastrofi causate dall'uomo e tu hai saputo
    ricordarla molto bene......

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  5. Sono stato qualche volta ma ogni volta na tristessa, na tristessa

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  6. Quando che i sapientuni se mete a rabaltare posti che se ciama toc (in furlàn de stiani vol dire marso), giaruni, marogne, sleche, ecc. sensa pensare che se i li ga ciamà cussita i veci na raion ghe garà pur da èsarghe, chisà cosa che saltarà fora in vale con l’autostrada. Un bel taiòn soto Valpegara e i siroculi i riva in piassa a San Piero. I stoner col buso in tela schena i ciaparà el giavàro. Ve là su in tela scafa dele anguane e provè col deéto a rumegare nela scaia del soio, cussita ve rendarì conto che sel soio xe ancora live xe solo parché soto no ghe xe pi gnente che val la pena de schisare.

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