Ci alziamo e apriamo solo poche righe delle tapparelle della
camera per non far entrare troppa luce.
Però già attraverso di esse filtra una luce molto chiara, segno che fuori
dovrebbe essere un bellissima giornata.
Dopo un po’ quando siamo ben svegli piano piano scendiamo al
piano terra, apriamo le tapparelle e il sole già bello alto ci annuncia una
giornata incantevole.
Facciamo una bella e abbondante colazione, prepariamo il
frigo portatile, mettiamo tutto l’occorrente in macchina e partiamo in
direzione Bassano, per poi prendere la strada che ci conduce verso
Valdobbiadene terra del prosecco.
La gita prevista è, passare per il passo San Boldo, oppure Strada dei cento giorni.
E’ una strada stretta e il passo non è molto alto, circa 706
metri, la strada costruita proprio in cento giorni durante la 1° guerra e
percorribile in senso alternato gestito da semafori messi alla base e sulla
cima.
La parte più irta è costituita da 8 tornanti e tutti sono
stati scavati in gallerie, molto strette. La strada dà un senso di lavoro
maestoso, i tornanti sono cortissimi e la salita è molto breve. Praticamente in
un attimo si arriva alla cima, dalla quale poi continuando la strada si arriva
a Belluno.
Arrivati alla cima del passo troviamo un parcheggio dove ci
fermiamo e sui tavolini in legno per i
pic-nic ci godiamo anche uno splendido
panorama e un cielo azzurrissimo.
E poi via alla volta
di Belluno, la nostra meta era Longarone
per visitare la famosa diga del Vajont!
In tutti questi anni
non sono mai andato a vedere quel posto, avevo visto la diga tanti anni fa
attraversando Longarone, ma mai da vicino. A darmi la spinta è stata la lettura
dei libri di Mauro Corona: seguendo i suoi racconti, la voglia di visitare
questi luoghi è cresciuta di giorno in giorno, così oggi, eccomi finalmente con la mia famiglia ad inseguire
questa meta.
Prendiamo la strada che ci conduce a Erto e Casso, due
paesetti lungo la valle del Vajont, distrutti in parte da quell’onda d’acqua che
causò 1.910 morti.
La strada che ci conduce a Erto sale lungo la parete
rocciosa della strettissima valle; uscendo da una curva lo sguardo sbatte
violentemente su un'enorme parete grigia di cemento che blocca praticamente la
valle del Vajont. Si attraversano tre, quattro gallerie con le loro finestre che ci fanno
intravedere dei fotogrammi di un film.
Finite le gallerie, la strada si inerpica con tornati stretti, costruiti
proprio sulla frana scivolata
violentemente quel 9 ottobre del 1963 dentro il lago. I
parcheggi sono stracolmi di macchine, lungo la strada pedoni che camminano in
fila indiana, ordinati come tanti soldatini che si recano più in basso per vedere la maestosità della
diga.
Noi procediamo sempre verso Erto e arrivati alla sommità del
passo ci fermiamo un attimo per vedere la gigantesca frana che quella sera si
staccò dal monte Toc. Devo ammettere che
quando questi fatti ci vengono
rappresentati con le immagini, spesso
non riusciamo a renderci conto della dimensione reale del luogo e del fenomeno; ma lì, da
quel posto in alto, ritto in piedi, con lo sguardo sulla valle e
mentre sfilano nella mia mente immagini vecchie di 50 anni fa, allora mi appare con chiarezza l'immensità del disastro. Incredulo rimango lì sbalordito, come se la scena si ripetesse
davanti ai miei occhi; sento perfino un
rumore forte, sordo,di uno scivolare di una massa di terra e sassi che mi fa
sbattere le ciglia e svegliarmi quasi inebetito a quel pensiero di quella sera
di ottobre. Risaliamo in macchina e percorriamo ancora alcuni chilometri lungo
la valle del Vajont.
Ad un certo punto
scorgo, dopo un curva, un cartello che indica la località di Erto, metto la
freccia a destra ed entro in quel piccolo paese; la strada è stretta a senso
unico, ci sono molte macchine e moto parcheggiate nei piccoli spazi, mi
addentro in centro, passo fra le case e ad un certo punto quasi in fondo al
paese, trovo un piccolo spiazzo dove posso parcheggiare. Proprio di fronte, su uno zoccolo di pietra, c’è un statua in bronzo che rappresenta la figura di una donna che porta sulla
schiena una grande cassetta di legno: "le sedonére"
(commercianti itineranti).
Vedendola, mi balena
nella mente una figura maschile, che veniva nella contra' Lucca di San Pietro tanti anni fa. Egli arrivava in
paese portando sulla schiena una cassetta in legno sorretta con delle cinghie.
Dietro di essa c’erano due portine, aprendo le quali c’erano dei cassetti che contenevano varia mercanzia. Quest' uomo partiva da casa
e restava in giro per i paesi per mesi e mesi nella buona stagione. Dentro
questi cassetti teneva aghi, forbici, rochéi de filo di vario colore, pontapéti, piccoli pezzi di stoffa,
gomitoli di lana... ecc...
Mi ricordo che quando
entrava a casa mia, in cucina si girava e appoggiava con una smorfia di grande
sollievo questa cassetta che di sicuro pesava molto.
M'incammino per l’unica via centrale di Erto.
Cammino piano in modo da poter vedere anche i più piccoli particolari. La
strada, togliendo i turisti, è completamente deserta, l’asfalto è malconcio, è stretta a tal punto che in certi punti le
macchine fanno fatica a passare; da un piccolo scorcio vedo che giù in valle
nel torrente c’è un piccolo laghetto con un’acqua verdissima, sembra quasi una
lastra di vetro talmente è ferma, un po’ più sotto di dove sono io intravedo
muri che una volta erano di case, ancora con le finestre attraverso le quali si
vede il cielo azzurro di oggi.
Le vie ai
lati di quella strada principale non sono praticabili in auto data la loro
strettissima carreggiata, hanno il fondo di selciato, addirittura certe solo un
paio di metri, l’odore che si sente è di cemento nuovo, di vecchia muffa e
legno marcio. Tutto sembra fermo da moltissimi anni, alcune case sono state
ristrutturate per dar loro la possibilità di non afflosciarsi sulle proprie
fondamenta, poggioli ancora in legno originali di quel tempo diventati ora
penzolanti e pericolanti, serramenti appesi
come fossero disegnati su quei vecchi muri fatti di sassi ben scalpellati da
mano esperta.
Vado ancora avanti, incrocio due donne che nel vedermi mi
danno il buongiorno, la domanda che mi viene spontanea è di capire quanti anni
possono avere per sapere se loro quel disastro se lo ricordano. Scendono un
paio di gradini di sasso e si infilano sotto un portico dove fa bella vista una
targhetta di sasso con scritto “via
della ricostruzione”, percorribile solo a piedi, poi poco più in là dopo una
paio di caseggiati mi accorgo dell’uscita della stessa.
Case con ancora le finestre di quel tempo, magari rimaste
semiaperte ancora da quel momento, qualche vetro rotto segno che qualche
fantasma si aggira ancora per le stanze in cerca della sua pace, scricchiolii
di grondaie penzolanti dai tetti, qualche
finestra quasi marcia senza vetri che sbatte mossa dalla corrente d’aria.
L’unico bar aperto si
trova vicino a dove ho parcheggiato la macchina, un piccolo locale secondo me
aperto in stagione turistica, ci sono dentro e fuori in mezzo alla strada persone
che sorseggiano qualche cosa, strano, ma nessuno che discute col suo vicino,
ognuno sorseggia dal proprio bicchiere e tutti tacciono, sembra che ancora
adesso si abbia paura di disturbare quelle povere anime che hanno perso la vita
in quel disastro. Continua la mia visita, fermandomi ogni tanto per dare la
precedenza a qualche macchina, ogni tanto guardo in sù e vedo che le case più in alto del paese sono anch’esse
danneggiate: “ma quanto alta sarà stata quest’onda d’acqua” mi chiedo, poi mi ricordo la descrizione del disastro che
avevo letto in un libro, e questo mi fa capire quanto sia diversa
l’immaginazione dalla cruda realtà. Sento un chiacchierare di voci giovanili, mi fermo e sfrecciano due
bambini in bicicletta parlando il loro dialetto che non capisco,
in mano hanno un bastone con in cima una rete, sembra quella per pescare
nelle acque basse piccoli pesci, continuano diritti per poi infilarsi in una
stradina di selciato tutta sconnessa e scomparire sotto un porticato, e tutto
ritorna nel silenzio più assoluto. Sto per arrivare quasi all’inizio del paese
e in lontananza alzando gli occhi verso
il monte Toc, vedo la famosa “M” della
gigantesca frana, sembra molto lontana
da lì, ma quella sera purtroppo forse non abbastanza per causare una tragedia
così grande.
Mi giro e ripercorro nel senso opposto quella via del paese
e mi accorgo che nonostante la mia attenzione, "qualche particolare"
mi era sfuggito. Dietro un angolo una
scritta di protesta su un muro di una casa abbandonata “A.D.E + governo = a 2500 morti” mi vengono i brividi, poi vicino
nell’altro muro dalla parte opposta
ancora una scritta “Vai Ertano,
ma ritorna al tuo paesello che è molto bello”. Lungo questa via, piccoli
particolari che portano ancora il segno di quella tragedia. Sento in quel
momento il dovere di rimanere in silenzio, per rispetto per tutti quelli che lì non hanno avuto più la
possibilità di ritornare.
Ripartiamo con la macchina e ci dirigiamo verso la
“nuova Erto” dove dicono siano rimaste
una decina di famiglie che non hanno voluto lasciare il paese natio; è stata
ricostruita un po’ più sopra alla vecchia Erto. Continuiamo e saliamo verso il
paese di Casso: In piazza scendono da una macchina un gruppo di persone, una
porta in mano un microfono e l’altra una
telecamera. Fermano i passanti del posto per chiedere un’intervista, ma si
imbattono in qualcuno che non ne ha assolutamente voglia e che con malo modo
risponde per le rime e li allontana
sdegnato; era un gruppo maldestro
di qualche TV locale che tentava
di raccogliere interviste per
documentare questo famoso cinquantesimo...
Io sono lì che guardo in giro e i miei occhi incrociano quelli di una donna che lungo la strada, stava smuovendo con la
vanga un piccolissimo pezzo di terra. Ci
avviciniamo io e mio moglie, le rivolgiamo la parola e lei ci risponde con
simpatia che lì seminerà delle patate.
Prendo coraggio e le chiedo se potevo rivolgerle un paio di domande e lei
accetta con un piccolo sorriso. Le chiedo se tutto quel materiale che si vede fa
parte della frana, lei annuisce con la testa, poi le chiedo se si ricordasse di
quella notte, e lì in un baleno vedo che i suoi occhi cambiano l’espressione,
ma mi risponde comunque che in casa sua il segno di quella notte c’è. Mi spiega
che nella casa quella notte era caduto dal cielo un masso del diametro di 60/70
cm portato in cielo dall’onda violenta e poi caduto dentro la casa sfondando
tre piani della stessa. A questo punto ho ringraziato e me ne sono andato,
consapevole che stavo per riaprire anche dopo 50 anni quelle ferite.
Ritorniamo alla macchina e partiamo per il ritorno, ma prima
voglio fermarmi ad osservare da vicino quell’enorme muro di cemento.
Parcheggiamo poco più in sù del monumento vicino alla diga. Costeggiando una
staccionata dove i ragazzi delle scuole hanno appesa una interminabile fila di
bandierine riportando il nome dei tanti bambini morti o non nati, col cuore in
gola, mi dirigo con mio figlio giù fino al monumento e mi accorgo che lì su un
sasso c’è una targhetta con scritto “LUOGO SACRO”, distolgo gli occhi da quella
targhetta disturbato dalle grida e dal vociare dei turisti onnipresenti curiosi e poco rispettosi...
Ho letto delle
targhette commemorative di persone che persero la vita, lì in quel buco, in
mezzo a quella valle stretta ho provato ad immaginare come potesse essere stata
quella sera di 50 anni fa...
Ma quante disgrazie, quante tragedie, quante vite umane
abbiamo perduto per l’avidità dell’essere umano?
Se solo avessero ascoltato le proteste della gente del posto,
che conoscevano molto bene il loro territorio, se solo gli
addetti ai lavori e i progettisti fossero stati meno audaci, forse oggi non sarei qui in
questa valle devastata da quell’immensa onda.
Nico Sartori
Questo racconto Nico mi ha fatto rivivere una "gita" fatta con la famiglia tanti anni fa (credo 35) in quei luoghi e mi ricordo nitidamente le emozioni (inspiegabili a parole) che ho provato nell'attraversare il paese di Erto...
RispondiEliminaUn paese fantasma e il nostro unico incontro fu un vecchietto seduto con la sedia fuori dalla sua porta con accanto un gatto e un cagnolino. Il suo sguardo diceva tutto senza parlare...
E si Carla come hai potuto leggere anche dopo 50 anni la visita di quei luoghi mi ha emozionato e non poco.
EliminaCaro Nico sei un vero narratore coi fiocchi!!!!! E brava tutta la tua famiglia a condividere queste esperienze!!!!! Tra l'altro questo disastro ha profondamento segnato anche me che allora all'età di quindici anni mi misi a raccogliere i ritagli dei giornali per non dimenticare(purtroppo sono andati persi nei miei vari traslochi) e più passa il tempo più mi rendo conto che questa tragedia rimarrà sempre nella mente anche di chi come me non ha subito perdite di amici e familiari........figuriamoci cosa può aver provocato nel cuore dei sopravissuti locali. Floriana
RispondiEliminaCara Floriana, ultimamente a furia di mangiare libri su libri trovo ispirazione in ogni mio ricordo ed in ogni mia emozione per condividerla con tutti voi. Credo siano cose che si hanno dentro e dopo un po' di tempo devi esternarle altrimenti potrebbero andare nel dimenticatoio. Quindi meglio che qualche cosa di scritto resti. Grazie ciao
Elimina"Sono capace del migliore e del peggio, ma è nel peggio che sono il migliore" diceva un celebre umorista francese.
RispondiEliminaEd è cosi anche per gli uomini in generale. Sono capaci di costruire una strada maestosa in 100 giorni (vedere foto) e di concepire la diga del Vajont.
"Posso misurare il moto dei corpi, ma non l'umana follia" diceva I.Newton. Lo constatiamo ogni giorno.
Purtroppo cara Odette di queste cose ne siamo pieni tutti i giorni, e non ne saremmo mai sazi. ciao
EliminaAncora una volta,Nico, ti sei dimostrato fortissimo nel presentare il tuo scritto.
RispondiEliminaCerto cio' che successe a Longarone,fu una delle piu' grandi catastrofi causate dall'uomo e tu hai saputo
ricordarla molto bene......
Sono stato qualche volta ma ogni volta na tristessa, na tristessa
RispondiEliminaQuando che i sapientuni se mete a rabaltare posti che se ciama toc (in furlàn de stiani vol dire marso), giaruni, marogne, sleche, ecc. sensa pensare che se i li ga ciamà cussita i veci na raion ghe garà pur da èsarghe, chisà cosa che saltarà fora in vale con l’autostrada. Un bel taiòn soto Valpegara e i siroculi i riva in piassa a San Piero. I stoner col buso in tela schena i ciaparà el giavàro. Ve là su in tela scafa dele anguane e provè col deéto a rumegare nela scaia del soio, cussita ve rendarì conto che sel soio xe ancora live xe solo parché soto no ghe xe pi gnente che val la pena de schisare.
RispondiElimina