lunedì 25 febbraio 2013

L'anticoncezionale



       Jijeto Pertega, lo chiamerò così per non metterlo troppo alla berlina, è un mio paesano e quasi coetaneo. Abbiamo attraversato insieme l’infanzia e la giovinezza dentro una compagnia che accoglieva i giovani del paese e ne faceva un gruppo ben compatto ed unito. Tutti eravamo di famiglie operaie, con principi sani e un tenore di vita dignitoso.
Respiravamo quell’aria che partendo dal ’68 aveva portato idee e concetti nuovi che facevamo nostri con estrema convinzione.
Questa ventata di novità investiva diversi campi: dalla musica, alla letteratura, al cinema, alla politica al rapporto, all’amore libero, per finire al sesso.
Nelle famiglie poco si parlava di argomenti delicati come il sesso, il tutto veniva lasciato al caso, o meglio eravamo affidati ai compagni o amici più anziani che il loro sapere carpito di qua e di là lo distribuivano volentieri ai più giovani.
Questi argomenti erano considerati  “sporcarìe” o come dicevano i preti attiimpuri, detto tutto attaccato per scappare  prima  dall’argomento.
Non era raro che gruppi di ragazzi si trovassero insieme tra i “sorghi” in campagna e li dessero fondo a lezioni teoriche e pratiche sul sesso.
C’era una grande promiscuità  a quei tempi su questi argomenti tra ragazzi, una forma di apprendistato rusticano osservato da lontano dai grandi che facevano finta di non sapere.
Anche le stalle erano luoghi in cui la didattica del sesso era a portata di mano: i vari animali erano guardati con interesse nei loro strani gesti dell’accoppiamento.
Un giorno il mio amico Carletto fu sorpreso dalla madre con un coniglio tra le mani.
Voleva capire cosa poteva essere il sesso in quell’animale.
Il risultato fu che si prese una tirata di orecchie che divennero paonazze che metà bastava.
L’approccio al sesso con le femmine cominciava da bambinetti quando con maliziosa curiosità si cominciava a giocare a dottore e paziente.
Ovviamente il maschio era il  dottore e la femmina l’oggetto delle visite.
Con l’occasione  si tentava di calare le mutande della malcapitata che quando vedeva che la cosa si faceva seria se la dava a gambe levate.
A volte quando vedeva la malparata lasciva sul posto anche le mutande pur di scappare.
Allora la madre interveniva e la via di fuga doveva essere guadagnata in fretta tra le grida della donna.
Era un rituale un po’ barbaro, una liturgia a cui si sottoponevano i giovanetti che muovevano i primi passi su quel campo minato.
Del resto la televisione in quegli anni offriva un campionario tutto sottoposto ad una feroce censura; i film nei cinema parrocchiali erano super visionati dai preti, giornali o altro materiale ne circolava poco. Ricordo solo in quegli anni le immaginette di donnine dei calendarietti che i barbieri davano ai loro clienti.
Mio padre ne teneva una nel portafoglio di nascosto da mia madre. Io di tanto in tanto lo sbirciavo con mio cugino rischiando seriamente.
Cominciò a cambiare qualcosa intorno  agli anni settanta quando certi venti libertari avevano percorso in lungo ed in largo i continenti e gli strati sociali.
Qualche rivista cominciava a proporre delle rubriche dedicate al sesso, al petting, al giusto rapporto con l’altro sesso, specialmente mirando alla contraccezione.
Chi era intorno ai vent’anni sapeva che esistevano i preservativi, anzi meglio i  “golduni” di marca atù, che nessuno sapeva poi cosa volesse dire.
Poi con le nuove informazioni divennero preservativi, anticoncezionali, un linguaggio più raffinato e tecnico di chi ormai sapeva.
Il problema allora era quello di procurarseli, non tanto per usarli, quanto piuttosto per esibirli.
Ora i distributori sono un po’ dappertutto, anche vicino a patronati o a scuole, e non ci fa caso quasi più nessuno.
In quegli anni invece l’unico centro di distribuzione erano le farmacie, ma era un problema affrontare il farmacista e l’imbarazzo di quell’acquisto 
vergognoso. 

Maurizio Boschiero

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