Jijeto Pertega, lo chiamerò così per non metterlo troppo alla berlina, è un
mio paesano e quasi coetaneo. Abbiamo attraversato insieme l’infanzia e la
giovinezza dentro una compagnia che accoglieva i giovani del paese e ne faceva
un gruppo ben compatto ed unito. Tutti eravamo di famiglie operaie, con
principi sani e un tenore di vita dignitoso.
Respiravamo quell’aria che partendo
dal ’68 aveva portato idee e concetti nuovi che facevamo nostri con estrema
convinzione.
Questa ventata di novità investiva
diversi campi: dalla musica, alla letteratura, al cinema, alla politica al
rapporto, all’amore libero, per finire al sesso.
Nelle famiglie poco si parlava di
argomenti delicati come il sesso, il tutto veniva lasciato al caso, o meglio
eravamo affidati ai compagni o amici più anziani che il loro sapere carpito di
qua e di là lo distribuivano volentieri ai più giovani.
Questi argomenti erano considerati “sporcarìe” o come dicevano i preti attiimpuri, detto tutto attaccato per
scappare prima dall’argomento.
Non era raro che gruppi di ragazzi
si trovassero insieme tra i “sorghi” in campagna e li dessero fondo a lezioni
teoriche e pratiche sul sesso.
C’era una grande promiscuità a
quei tempi su questi argomenti tra ragazzi, una forma di apprendistato rusticano
osservato da lontano dai grandi che facevano finta di non sapere.
Anche le stalle erano luoghi in cui
la didattica del sesso era a portata di mano: i vari animali erano guardati
con interesse nei loro strani gesti dell’accoppiamento.
Un giorno il mio amico Carletto fu
sorpreso dalla madre con un coniglio tra le mani.
Voleva capire cosa poteva essere il
sesso in quell’animale.
Il risultato fu che si prese una
tirata di orecchie che divennero paonazze che metà bastava.
L’approccio al sesso con le femmine
cominciava da bambinetti quando con maliziosa curiosità si cominciava a giocare
a dottore e paziente.
Ovviamente il maschio era il
dottore e la femmina l’oggetto delle visite.
Con l’occasione si tentava di
calare le mutande della malcapitata che quando vedeva che la cosa si faceva
seria se la dava a gambe levate.
A volte quando vedeva la malparata
lasciva sul posto anche le mutande pur di scappare.
Allora la madre interveniva e la via
di fuga doveva essere guadagnata in fretta tra le grida della donna.
Era un rituale un po’ barbaro, una
liturgia a cui si sottoponevano i giovanetti che muovevano i primi passi su
quel campo minato.
Del resto la televisione in quegli
anni offriva un campionario tutto sottoposto ad una feroce censura; i film nei
cinema parrocchiali erano super visionati dai preti, giornali o altro materiale ne circolava poco. Ricordo solo in quegli anni le immaginette di donnine dei
calendarietti che i barbieri davano ai loro clienti.
Mio padre ne teneva una nel
portafoglio di nascosto da mia madre. Io di tanto in tanto lo sbirciavo con mio
cugino rischiando seriamente.
Cominciò a cambiare qualcosa
intorno agli anni settanta quando certi venti libertari avevano percorso
in lungo ed in largo i continenti e gli strati sociali.
Qualche rivista cominciava a proporre
delle rubriche dedicate al sesso, al petting, al giusto rapporto con
l’altro sesso, specialmente mirando alla contraccezione.
Chi era intorno ai vent’anni sapeva
che esistevano i preservativi, anzi meglio i “golduni” di marca atù, che
nessuno sapeva poi cosa volesse dire.
Poi con le nuove informazioni
divennero preservativi, anticoncezionali, un linguaggio più raffinato e tecnico
di chi ormai sapeva.
Il problema allora era quello di
procurarseli, non tanto per usarli, quanto piuttosto per esibirli.
Ora i distributori sono un po’
dappertutto, anche vicino a patronati o a scuole, e non ci fa caso quasi più
nessuno.
In quegli anni invece l’unico centro
di distribuzione erano le farmacie, ma era un problema affrontare il farmacista
e l’imbarazzo di quell’acquisto
vergognoso.
Maurizio Boschiero
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