“El vespon” ondeggiò paurosamente da destra a sinistra che
sembrava imbizzarrito come un cavallo scosso, cioè senza fantino. Poco poteva
quel “porocan” di motociclista nel tentare di governarlo . Un gran polverone si
sollevava dalla strada, poi un tonfo dentro la siepe davanti al campo de
”Burida” confinante con la casa dei Bon, al Costo. L’uomo con lo
spolverino strappato, dopo poco, riemerse tremante per lo spavento. Si
“scorlò” dalla terra e si sistemò i capelli “tutti sperlossà”, sputandosi sulla
mano, raccolse il berretto e se lo rimise in testa. Certo io restai di sasso
nel vedere quella scena che avevo provocato tentando di attraversare la strada
senza attenzione. L’avevo combinata grossa. Mi aveva tradito l’emozione di
indossare quel vestito da maschera da “cau boi”, che mia zia Eleonora mi aveva
cucito. Volevo andare anch’io in sfilata per le vie del paese, mostrare il mio
costume e magari vincere anche un premietto, non dico tra i primi, ma almeno
qualcosa, anche di consolazione. Il centauro si avvicinò con foga tutto
scarmigliato e pronto a “dirmi sù.” Quando invece si fece vicino, una calma
improvvisa lo pervase. “Dove vetu bèlo vestìo cusì”, attaccò il discorso, ma
senza cattiveria .”A vao in sflilata a Ciupàn”, risposi timido arrossendo come
un “semòto”. “E da cossa sarìsito vestìo?” Continuò sistemandosi il
vestito. “Da cau boi. No se vede mia?” Risposi un po’ sorpreso dalla
domanda. Non sapevo nemmeno come si scriveva cow boy, ma mi tenevo in “bon” di
assomigliare a certe figure che vedevo nei fumetti che qualche volta leggevo.
Le trovavo nel Vittorioso di mio cugino Armando o su qualche striscia di Tex
che compravo in edicola da Bepi Piai. Avevo tutto il "completin": un
paio di pantaloni a “fiorassi” come girasoli, una casacchetta color della fine
del mondo, la pistoletta a ramini ed il cappelletto “de carton nero”.
Forse stonavano solo le scarpe da ginnastica marca Superga, ma un bel paio di
stivaletti di cuoio con lo sperone erano inavvicinabili per il prezzo. Quando
mi ero guardato allo specchio della bottega di merce varia tenuto da mia zia e
da mia nonna, mi pareva di fare un figurone: stavo proprio bene con quel
costume! Tentai anche uno sguardo da duro ed una estrazione rapida della
pistola dalla foderina simulando uno sparo, ma non successe nulla perché l’arma
si inceppò. Per fortuna in quel momento non c’era nessuno a guardarmi, perché
ero troppo orgogliosamente compreso nella parte e mi sarei vergognato un po’.
“Ma va là bèlo, no te vedi che te somij a un incrocio tra pinocchio e un poro
gramo, vardete solo le braghe che te ghe”, commentò stavolta sarcastico “l’omo”
della moto. “Spèta ca vae via và là, che te si ciapà peso de mi e staltra volta
statento a traversare la strada”. In due parole mi aveva rotto l’incantesimo
che avevo visto attraverso lo specchio, distrutto l’illusione di essere anch’io
un “cau boi come me cugin”, vestito di tutto punto da sceriffo persino con gli
stivaletti di “corame.” Solo allora realizzai che effettivamente il mio vestito
era stato confezionato in casa alla buona, per rivestire la mia voglia di
andare “in maschera”. Mia zia aveva ricavato le "braghe" da una
vecchia tenda a fiori grandi color marron dissenteria e vi aveva anche lasciato
sull’orlo in basso le frange a pon pon dorati che “scorlavano” tutti quando
camminavo. Ora non ero più tanto sicuro di far bella figura, anzi mi sa che
facevo… una figura meschina. Mi incamminai con mio cugino verso il
cinema, luogo di ritrovo per la partenza della sfilata. Cercai di stargli un
po’ distante e con la scusa di un male al piede rallentai il passo. Era di
febbraio e una giornata rigida e grigia faceva da sfondo a questa mia amara
considerazione. Per fortuna passando davanti ai bar di Merica e di Volpato
tutti erano rintanati all’interno avvolti in una nuvola di fumo e di odore di
vino, che si sentiva fin sulla strada, per cui passai senza subire occhiate e
commenti, che sicuramente, pensavo non benevoli. Certo nel cammino pensai che
mia madre avrebbe potuto comprarmi qualcosa o farmi lei un vestito, visto che spesso
era alle prese con la sua Singer nera a cucire pantaloni o indumenti per mio
padre o per le mie sorelle. Non capivo il perché della sua assenza, forse la
riteneva una cosa inutile ed una perdita di tempo, ma io ci tenevo tanto. Avrei
dato chissà che cosa per avere un “costume” come quelli dei miei compagni di
scuola. Claudio vestito da Sceriffo, Gastone da Pierrot, Maurizio da Arlecchino
ecc… Non vi fu mai verso di convincerla, anzi con il tempo mi convinse che
nemmeno a me piacevano quei costumi inutili e che il carnevale non era una
festa adatta a me. Passammo davanti alla stazione ferroviaria, superammo il
molino di mia zia Ada, poi i Manea, “la maselota,” Italo “olivaro,” l’asilo e
finalmente ci unimmo al gruppo che doveva sfilare per le vie del paese.
Trombette, stelle filanti, coriandoli, maschere, costumi belli e brutti, “omini
vestìi da femene e femene vestìe da omini” facevano parte di quella
specie di caravanserraglio allegro e chiassoso. Corvilio “sbraitava” con un
megafono issato su una vettura e Piero Jù accompagnava un somaro dipinto a
strisce che sembrava una zebra coi colori dell’arcobaleno. Mi faceva pena la
povera bestia, era anche lui un “poro gramo” come me e qualche altro “ baucoto
roàn” dal freddo. Di tanto in tanto la porta della “Burina “ si
apriva con uno scampanio, perché si andasse ad acquistare qualche “ciucioto” e
qualche “spumilia”, che la paziente donna ci porgeva senza parlare in un
dialogo muto e quasi annoiato. Il “cinema” con la facciata graziosa, dai
profili un po’ fuori moda, accoglieva la ressa scalmanata della brigata
dopo la sfilata per il paese. Sbirciai spostando un attimo le pesanti tende
rosse. Sul palco vi erano i premi per le maschere più belle, il posto per
l’orchestrina costituita da due o tre strumentisti tra i quali Mariano
Casarotto con la fisarmonica ed il microfono per il presentatore. La
giuria sedeva sulle prime file ed era costituita da maestri o da persone
importanti, o che mi sembravano tali, del paese. Dovevano scegliere i costumi
più belli che passavano sul palco muniti di numero che veniva loro assegnato
dall’organizzazione. Nelo “pastina” col suo cesto di spumilie, pevarini, paste
e liquirizie, seduto in mezzo alla platea vicino al corridoio esibiva la sua
mercanzia a quel pubblico scassato e goloso di “roba dolse”. Mi immaginavo su
quella scena con il mio numero e una voce che annunciava il mio nome premiato,
ma dopo la scena del “vespon” non ero più così sicuro. La sfilata per il paese
era per me occasione di vedere dei posti, che raramente mi capitava di
frequentare, essendo la mia casa più sul confine di Caltrano, il paese
vicino, che per comodità frequentavamo di più. Questo per la messa prima della
domenica, la spesa dai Zuccato specialmente per il baccalà, per il gelato
dall’Adriana che di tanto in tanto andavamo ad acquistare con la “pignatela” e
per “parare al beco la cavra da Prisio a Camisin”. Di Chiuppano mi
incuriosivano gli angoli nascosti del paese vecchio che mi sorprendevano
sempre. Oltre le mura delle strade, si aprivano degli squarci di
verde e scorci di case che mi incantavano. Era anche per questo che volentieri
andavo in sfilata. La carovana chiassosa si mosse verso via Roma che
conoscevo abbastanza bene, per essere la via centrale del paese in cui vi erano
la chiesa nuova e la scuola elementare appena inaugurata. Il prete sul sagrato
con la sua aria severa e distaccata che sembrava Mussolini “suava fredo”
e lanciava sguardi poco rassicuranti; forse non approvava quella gazzarra
scomposta e a volte volgare. Si era intorno al 1960, io avevo sei anni. Su
quella strada si affacciavano anche vari esercizi, tra i quali, il bar al
duomo gestito dal buon “Polacco”, un uomo alto e magro con i baffetti dal
forte accento straniero che si era fermato in paese durante la seconda guerra
ed aveva sposato la giunonica Carmen: sempre gentili e simpatici. Veniva poi
l’osteria dalla “Jiia Micheleta”, che tra i primi ad avere la televisione
a Chiuppano censurava le scene che potevano essere appena sostenute parando
davanti allo schermo un cartone, che sosteneva per tutto il tempo della scena
“scandalosa”, che poi si limitava a situazioni che ora farebbero sorridere, per
la loro innocenza, anche un prete. Passavamo davanti alle poste sulla curva del
“Cappello”, dove un capannello di gente solitamente curiosa si mischiava a
maschere e scalmanati e ne aumentava il frastuono. Poi davanti alle chiesa
vecchia che ormai aveva gli anni contati per un attimo calava il chiasso,
forse per rispetto di quel posto o per riprendere fiato. Dal forno del
pane della “Lidia in piassa” usciva un buon profumo di pane e di dolci che
facevano bella mostra di sè dalla vetrina. Anche “Tita osto” si
intravedeva con la” traversa” scura del negoziante accanto alla stramba
“Mariuccia”, sua figlia nubile, specie di attrice del cinema muto vestita tutta
strana: un “misiòto tra una fata, na strìa e una sarlantana”. Poi il corteo
serpeggiando ed ondeggiando frenetico e rumoroso si incanalava tra le vie del
centro storico dove dalle corti e dalle case uscivano i profumi di “fritòle,
grustuli e bussulaiti” che le donne preparavano per tradizione. Qualche
generosa offriva un piatto di questi dolci a quella marea scalcagnata e
subito era ressa ed assalto furibondo e, a volte, villano. Si passava dal forno
di Mariano, tra il bar al Castello e la latteria San Michele, davanti alla
bottega di alimentari di Girardin e di Carlo Chilo’, poi via per la colombara,
la bottega “de me santolo Teresiano Mossanega”, dalla Tamburana, su per via
Colere e Piai. Il povero “musso” colorato veniva tormentato da un
nugolo di “sbregamandati” che lo facevano “inrabiare e trava delle brute peà”.
Così tra case, profumi, schiamazzi e botteghe ritornavamo davanti al
“cinema” per l’ultima e più attesa fase. Quella della premiazione. Io che mi sentivo
più vicino al musso che agli altri, ne coglievo lo sguardo triste e sofferente.
Nella mia mente eravamo i due esseri tragici della combriccola, mi sentivo un
po’ pinocchio e un pò lucignolo capitati per caso in quel paese dei balocchi
che in fondo non era molto divertente. La confusione aumentava una volta
arrivati al “cinema”, perché tutti miravano ad accaparrarsi i numeri e a
sistemarsi nei primi posti appena dietro la giuria per avere una visuale
migliore sul palco e per prendere le caramelle che di tanto in tanto
venivano lanciate dal presentatore. La musica della fisarmonica di
Mariano copriva in parte lo strepitio di trombette e di gridolini, poi lo
speaker chiedeva silenzio ed ordine perché cominciavano le operazioni di
premiazione. Quell’anno distribuirono i numeri, un tondo di cartone col suo bel
numero al centro in rosso vivo. Purtroppo ad un certo punto i numeri
finirono e a me appiccicarono un pezzo di carta con il numero 70 scritto
a matita. Almeno avessi avuto un numero come tutti gli altri, anche il 17 che
portava sfortuna, nemmeno quello. Cominciarono a salire le maschere su quel
palco, annunciate per numero ed in ordine crescente dal presentatore. Ce ne
erano di belle, costumi magari comprati per chi se lo poteva permettere, che
sembravano figure finte uscite dai racconti che in quel tempo erano sui libri
di lettura delle elementari. Ecco la cinesina, annunciava l’uomo dal microfono,
la tirolese, colombina, arlecchino, il “cau boi” e via via una quantità di
figure che mi incantavano o per l’eleganza o per le fattezze strane. Vi
era tra loro col numero quattro una ragazzina bionda vestita da tirolese che
più di tutte mi colpì. Sembrava una creatura di un altro pianeta, direi quasi
lunare, di una luce che non aveva confronti. Sfilò tra gli applausi di tutti e
quando tornò al suo posto poco distante dal mio non resistetti dal toccarle i
capelli che mi sembravano finti, talmente erano biondi. Mi vide una donna e
“presi una scarica di parole” perché le avevo spostato un pò la cuffia che
aveva sulla testa. Divenni "bordò" per la vergogna e sprofondai
“stomegà” nel mio posto. Quella maschera vinse il primo premio e quella bambina
divenne, molti anni dopo, mia moglie. Intanto i numeri passavano e passavano le
maschere sul palco. Alcune erano veramente belle, ma la stragrande maggioranza
era una pietosa teoria di pori grami, come me, che per fare un po’ di festa si
erano addobbati in qualche modo, “roani” dal freddo e dalla scalmanata foga e
spesso coi “pavéri”. Venne il mio turno, numero in qualche modo fuori serie e
quando mi videro comparire e mettere piede sul primo scalino della scaletta che
portava sul palco la voce dall’alto tuonò: ”Dove vetu ti belo! Sta xó par
carità, che te ne fe far bruta figura” e mi tirò addosso una “brancà” di
caramelle. Mi sembrò di risentire la voce del centauro che qualche ora prima
aveva rischiato l’osso del collo per la mia disattenzione. Quell’uomo dal
palcoscenico pensava di essere spiritoso, lo disse forse per far ridere, ma per
me quelle caramelle addosso furono come sassi, una specie di lapidazione che mi
fece male tra le risate di tutto il cinema. Mi chinai a raccogliere
qualche caramella, ma solo per non far vedere il mio viso e lesto infilai il
corridoio ed uscii dalla sala. Fuori vi era il povero asino attaccato con uno
spago all’inferriata delle finestre del teatro, mi guardò e mi parve umano solo
il suo sguardo. Corsi a casa in fretta e senza fermarmi, chè già
imbruniva. Per terra i segni della festa, coriandoli e carte mossi dal vento
che si era fatto freddo e tagliente come lo sguardo del prete. A casa, mia
madre aveva preparato “i grustoli con la mostarda” e il profumo era intenso. Mi
chiese come era andata e se avevo vinto qualcosa. Mostrai le caramelle, perché
non me l’ero sentita di raccontarle quella giornata, troppo dura da digerire,
meglio dimenticare in fretta. “A volea ben dire che no te ghissi vinto
qualcossa con chel po’ de vestito che te gavivi”, esclamò mio padre, forse, per
rincuorarmi. L’odore dei “grustoli” che aveva impregnato la piccola cucina mi
dava fastidio come non mai, anche il profumo dei dolci era diventato amaro.
Quella giornata da dimenticare la ricordo adesso come fosse allora. Anche se
solo sento il profumo delle “fritole”, mi ricordo di quella giornata di tanti
anni fa!
Maurizio Boschiero
RispondiEliminaPoro Maurissio,
che pecà che te me ghè fato...
Ciao Maurizio leggendo il tuo racconto mi è tornato alla mente quando mio padre facendo pure i debiti noleggiò un costume da Cappuccetto Rosso ma senza cappuccio e senza stivaletti. Mia madre mi promise che mi avrebbe comperato almeno la calzamaglia bianca o rossa ma il sabato grasso del Carnevale Ambrosiamo mi infilò una calzamaglia orribile a rombi blu e grigi e un paio di scarpe da maschio con le stringhe. I miei capelli tagliati corti per comodità mi facevano sembrare un elfo malridotto e perciò immaginerai che cosa provavo in una Piazza del Duomo piena di fatine, damine e principesse!!!!!!Però ho sempre ricordato con amore lo sforzo fatto dal mio papà per l'unico se pur incompleto costume da mascherina della mia infanzia. Un salutone Floriana
RispondiEliminaBel racconto triste. A me il carnevale ha sempre fatto tanta tristezza... Io ero vestito da cinesino; sempre uguale per anni di fila. Poi mi sono ritrovato effettivamente in Cina, come tu hai poi sposato la bella mascherina. .. Che sia un caso?
RispondiEliminaUna volta c'era pochissima attenzione e poco rispetto verso la sensibilità dei ragazzini! "Smorbade" di questo genere credo che un pò tutti ne abbiamo vissute, forse ci aiutavano anche a crescere come tutte le difficoltà ma credo che oggi, nelle società dette "avanzate" ci sia un'attenzione più grande verso l'infanzia da parte degli adulti: genitori, insegnanti, educatori vari....cattivi esempi ce ne sono ancora, ma un sensibile progresso è stato fatto.
RispondiEliminaIl mio povero Carnevale a Chiuppano!!
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