Non era in preventivo, ma in quest’epoca di stagioni pazzerelle, anche salire al Cauriòl in una mite e tersissima domenica dell'estate di San Martino ha il suo bel perché.
Il monte Cauriòl (2494 m) e il contiguo Cauriòl Piccolo (2404 m), assieme alle vicine cime Cardinal e Busa Alta, fanno parte della catena del Lagorai Orientali che dalla Valsugana arriva sin al passo Rolle. Un esteso e maestoso crinale porfirico che sovrasta le valli dell'Avisio e del Vanoi. La stupenda veduta che si gode dalla vetta del Cauriòl spazia ad angolo giro sulle Dolomiti. Non solo: nell'azzurro terso brilla a ponente la corona innevata delle Alpi Orobiche, dall'Adamello all'Ortles, per chiudersi poi a Nord verso gli Alti Tauri. A ponente si ergono maestosi gli inconfondibili profili delle Alpi Bellunesi, dalla Pale di San Martino fino alla Marmolada. A Sud si staglia imponente la granitica piramide di Cima d'Asta, che oscura la vista del nostro Altopiano. Ai suoi piedi, luccica al sole il lungo e quasi rettilineo solco del torrente Vanoi, chiuso molto più lontano dalla cuspide piramidale del Monte Pavione e dal lungo crinale calcareo delle Vette Feltrine.
Impossibile, peraltro, non pensare a Feltre su queste vette. Non già all’amena cittadina bellunese, ma al battaglione di Alpini che ne assunse il nome e qui lo legò per sempre all’eroica conquista del Cauriòl. È da tanto tempo che volevo salire questa vetta, ma non ne avevo finora trovata l’occasione. Eppure, su queste montagne ci sono stato da militare proprio col Btg. Feltre, in un campo d’arma della 66.ma cp., ormai più di quarant’anni fa. Se l’Ortigara è stato per antonomasia il Calvario degli Alpini e dei nostri Btg. Bassano e Sette Comuni, il Cauriòl lo è stato sicuramente del Feltre.
Oggi sono qui quasi per caso, accompagnato da mio figlio. Salendo, provo un po’ a raccontargli di cos’è stata la guerra su queste montagne, dove si stima siano morti 10.000 soldati in entrambi gli schieramenti. Soldati che avevano l’età media che ha proprio lui adesso. Mi rendo contro che sono discorsi da vecchio e che un ragazzo d’oggi fatica a capacitarsi di cos’abbia significato la guerra e quale fosse la disposizione d’animo e gl’ideali dei suoi coscritti d'allora, italiani o imperiali che fossero. Ma vedo che mi ascolta e commenta; un po' ci pensa. Un abisso di cultura materiale e sensibilità separa ormai quell’epoca dalla nostra, ma l’uomo è sempre quello e non è sicuro che impari dai suoi errori. Migliaia di giovani vite furono immolate su queste rocce affilate; sacrificati per far dell'Italia quella nazione che non è mai stata e per le ambizioni di monarchie giunte al loro capolinea.
Il pendio che affrontiamo per raggiungere la vetta è così lungo, esposto e impervio che viene spontaneo pensare come fosse possibile scalarlo sotto il fuoco nemico che martellava dalla cima e dai crinali. Sudiamo noi, nei nostri moderni e leggeri indumenti tecnici, in questo mese di novembre e m’immagino gli alpini che s’arrampicano su queste rocce cosparse di licheni, nell’estate del 1916. In divisa di panno, fasce mollettiere, scarponi chiodati, giberne, zaino e fucile con baionetta inastata. Fu allora che il Cauriòl venne etichettato da quegli alpini con l'esclamazione del titolo: Ostia, che bruta bestia!
Oggi tutto tace, siamo soli su queste vette e tra queste rocce che avranno raccolto chissà quanti rantoli e imprecazioni, dolore e disperazione. D'altra parte, la forza della disperazione il battaglion Feltre l'aveva impressa proprio nel suo motto: Nec spe nec metu (né speranza né paura).
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