venerdì 1 settembre 2023

Racconti


IL PAESE DEI BALOCCHI

Essere un piccoletto non era poi così male.
Era più facile passare inosservato.
Persino nel bel mezzo di una festa, quando tutti se la spassavano a ballare e a divertisti, io potevo sgattaiolare via con "la refurtiva" senza dare troppo nell'occhio.
Dolci, biscotti, pizzette e ogni ben di Dio.
Riempire il piatto e fuggire via, giù in basso, dove i grandi tendevano a non guardare.
Come se il loro mondo, quello reale intendo, esistesse solo a partire da una certa altezza.
Mentre io, laggiù, vivevo in una sorta di zona franca, un sottobosco immune ai problemi.
Il mio "regno a bassa quota".
A casa mia, di feste, ce n'erano di continuo.
Dal lunedì alla domenica.
Casa mia era il Paese dei Balocchi.
Feste per grandi, però.
Non c'erano clown, né maghi, né tantomeno bambini. A parte me, ovviamente.
Le feste spesso duravano tutta la notte, e a volte i miei e i loro amici facevano così tanto baccano che faticavo a prendere sonno.
Oppure mi svegliavo di soprassalto quando qualcuno finiva nella mia stanza. Tizi sempre un po' strani, con gli occhi stanchi e che faticavano a reggersi in piedi, e che finivano sempre per guardarsi intorno straniti, come se la mia camera fosse un luogo magico, appartenente a un altro mondo.
Qualcuno mi salutava con un gesto della mano, altri erano fuggivano via, altri ancora mi chiedevano dove fosse il bagno.
In fondo a destra, rispondevo.
Su cosa facessero mamma e papà, su come si guadagnassero da vivere, non avevo affatto le idee chiare.
I genitori dei miei amici lavoravano in banca, oppure in fabbrica, oppure facevano gli insegnanti, oppure erano disoccupati.
E all'inizio avevo pensato che anche i miei lo fossero.
Perché passavano tanto tempo a casa.
Disoccupati cronici.
Poi però avevo capito che le cose non stavano così, perché chi non ha un lavoro se la passa male.
Vive in una casa vecchia, mangia cibo scadente, non va mai in vacanza.
Ma noi non ce la passavamo affatto male, anzi.
Vivevamo in una villa, di quelle col giardino grande e persino la piscina.
E quando andavamo in vacanza, avevamo un aereo tutto per noi.
Mamma non cucinava mai, c'era un tizio che lo faceva per lei.
Uno bravo, di quelli col cappello bianco in testa e i baffetti curati al millimetro.
Eravamo ricchi.
Questo l'avevo capito.
Ma come ci fossimo riusciti, beh, quello era un aspetto ancora oscuro.
Forse erano proprio le feste che ci facevano fare soldi.
In qualche modo mamma e papà erano riusciti a ingabbiare la felicità e a venderla a tutti quelli che se la potevano permettere.
Entravano in casa nostra tristi, pagavano, e uscivano felici, dopo aver cantato e ballato per tutta la notte.
Ecco svelato l'arcano!
Venditori di felicità.
Ecco cosa facevano i miei genitori per vivere.
Un lavoro onesto, addirittura nobile.
Da premio Nobel.
Ma certe cose accadono solo nelle favole, e la mia famiglia non faceva eccezione.
Lo scoprii qualche mese più tardi, quando uno stuolo di poliziotti armati fino ai denti si presentò a casa nostra nel cuore della notte.
Proprio nel bel mezzo di una delle nostre feste.
Io ero seduto sul pavimento, intento a smangiucchiare dolci che avevo arraffato dal tavolo del buffet.
Intorno a me una selva di gambe, di piedi nudi, di gente senza faccia che cercava di non schiacciarmi, senza però riuscirci davvero.
Ogni tanto mi prendevo qualche pedata, ma in fondo era colpa mia.
Che ci faceva un bambino sul pavimento a quell'ora?
Non avrebbe dovuto essere sotto alle coperte già da un po'?
Probabile.
Ma stare a letto in mezzo a tutto quel baccano, senza riuscire a dormire, non era affatto divertente.
Così avevo deciso di gettarmi nella mischia.
La polizia entrò in casa senza bussare.
Semplicemente spalancò la porta a calci, come si vede nei film.
Io capii subito che c'era un problema.
E lo capirono anche tutti gli altri, compresi mamma e papà, che non protestarono e non fecero la voce grossa.
Poi un tizio in giacca e cravatta, con pochi capelli e la barba, si fece avanti e chiamò il nome di mio padre.
Lui gli andò incontro, e dopo che il tizio ebbe recitato una specie di frase di rito, gli mise le manette ai polsi e lo portò via.
A mamma toccò la stessa sorte.
Li vidi uscire di casa sotto lo sguardo attonito dei presenti, senza sapere cosa dire.
E poco dopo vennero fatti uscire tutti, uno alla volta, tutti tranne me.
Fu una signora a riportarmi con i piedi sulla Terra.
Mi salutò e mi chiese come mi chiamavo.
Io avevo ancora la bocca piena di cioccolata, così prima ingoiai e poi glielo dissi.
Lei mi sorrise, poi disse che dovevamo andare.
- Dove? - le chiesi.
Ma lei non rispose, scosse solo la testa, sconsolata.
- E' per via del lavoro di mamma e papà, vero? - dissi.
E questa volta lei annuì.
Vendere felicità era illegale, lo avevo sempre sospettato.
Sarebbe stato troppo facile, lo avrebbero fatto tutti.
Così mi tirai su e fissai la donna negli occhi. - Sono pronto - dissi.
Lei annuì ancora una volta, poi mi appoggiò una mano sulla spalle e mi accompagnò verso l'uscita.
La felicità, quella vera, la provai di nuovo solo dopo tanti anni.
Troppi.
Alessandro Casalini

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