venerdì 28 aprile 2023

Cucòto

[Gianni Spagnolo © 23424]

Sta arrivando anche maggio, con i suo più caldo abbraccio e la primavera che esplode al suo meglio. Chissà cosa ci riserverà il quinto mese dell'anno in quest’epoca di strane cose; stamattina ho visto il primo maggiolino e anche il cuculo non ha ancora mancato il suo annuale appuntamento. 

Le sere di maggio, nei nostri anni verdi, portavano primariamente due cose: la caccia ai maggiolini e star fuori alla sera a giocare a cucòto. Dei bronbùi abbiamo già scritto in un vecchio post: https://bronsescoverte.blogspot.com/2014/06/i-bronbui.html?view=snapshot, mentre sul cucòto val la pena tornare.

"Un du tri cuatro…" Gridati ad alta voce,.. "Tana liberi tuti! A te go fregà, aha!"

Non era nient’altro che il comunissimo gioco del nascondino, verosimilmente il passatempo di tutti i bambini di ogni luogo ed epoca, ma da noi si chiamava cucòto. Si iniziava al tempo del cùco, ma non aveva niente a che spartire con quel volatile misterioso e approfittatore. O forse si?

Perché cucòto? Un nome strano e cacofonico, certamente adatto a noi bociasse, che spesso s’inventava vocaboli nuovi o storpiati. L’origine parte invece da più lontano, verosimilmente da quella antica lingua madre che ha lasciato retaggio solo nelle anse più recondite del linguaggio, quelle più familiari e care.

Nel cimbro, il verbo kukhan significa infatti sbirciare, guardare di nascosto, proprio quello che si faceva in questo gioco, dove ci si nascondeva nei posti più impensati (si credeva), ma in modo da osservare di soppiatto le mosse del compagno incaricato di snidarci e degli altri nascosi nei pressi.  Bisognava infatti riuscire a dominare il territorio di caccia, saltando fuori all’improvviso per raggiungere in velocità il posto della conta e gridare quel liberatorio “Tana liberi tuti!” che azzerava le penalità e dava quell’impagabile soddisfazione di essere il migliore della coà.

Forse anche il nome del cùco, l’uccello che in italiano si chiama cucùlo, ha qualche attinenza con questa origine; anche se l’onomatopea del suo caratteristico e ripetitivo richiamo lo ha codificato similmente un po’ in tutte le lingue. Il cùco, infatti, non è del tutto nascosto, si sa che c’è; è che non si riesce quasi mai a vederlo. Lui, peraltro, non si preoccupa certo di nascondersi, anzi, si manifesta attivamente col suo monotono canto. In più è l’archetipo dell’opportunista e del parassita, di quello che si prende gioco di quelle insulse delle averle delle capinere, usandole come inconsapevoli balie. In ogni caso, era più facile fare tana a cucòto che riuscire a vedere il cùco. Anche perché, dicevano i vecchi, che chi si soffermava a contare i singulti del cùco, gli sarebbero restati da vivere tanti anni quanti ne riusciva a contare prima che l’inafferrabile uccello tacesse. E allora noi di anni davanti ne avevamo (sperabilmente) tantini. On bruto bàgolo, ciò!

Oggi, invece, è una conta che possiamo anche fare con una cera nonchalance, ca taré ca se sbalién de poco!


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