lunedì 26 luglio 2021

Snaejamìnti

【Gianni Spagnolo © 21G22】

È forse il nostro attrezzo più tipico, che ogni famiglia si fabbricava a proprio estro, ma obbedendo ad un progetto di base antico, semplice ed estremamente efficace. Parliamo della naéja, quel legnetto sciancrato per legare le corde, con due corna e  due fori. Di naéje ce n'erano però anche per altri usi. 

Quelle equipaggiate con due buchi e gli  estremi più allungati e appuntiti erano dette anche “ligni da sóghe” e servivano appunto per serrare le corde dei fardelli in maniera veloce, ma soprattutto facile da sgropare. Altre naéje senza fori e più tozze, intagliate nelle più varie dimensioni servivano a chiudere porte e portesele girando su un perno centrale costituito da un chiodo. Per la loro forma a puntali leggermente rialzati, servivano egregiamente ad ancorare uno sportello alla batùa ed erano di facile ed intuitiva manovrabilità: bastava girarle. Era chiaramente una chiusura elementare e senza pretese, adatta soprattutto ai ricoveri degli animali, i quali non avrebbero certo avuto modo di attivarla nonostante la sua banalissima tecnologia. In ogni caso, per aprirla anche dal verso opposto, bastava on déo, se la sfesa jera larga, oppure la lama del coltello che in tasca non mancava mai. Questo tipo di chiusura, tipico presenpio del portòn dela teda, si accompagnava sovente ad un sistema di cardini altrettanto semplice ed ingegnoso fati de corame. Tutto ciò che era metallico, infatti, stiàni era costoso e di difficile reperibilità, per cui si ricorreva facilmente a più economici e disponibili sostituti. Océj e pòlese, ossia i cardini di ferro delle porte che usavano i cristiani, per le chiusure più piccole delle credenze o delle stie degli animali da cortile, venivano sostituiti da du tochetei de corame incioà sula batua. Questi, abbinati alla naéja dall’altra parte, garantivano un sistema di chiusura spartano ma efficace e, soprattutto, alla portata di tutti. Bisognava usare naturalmente del cuoio spesso, adeguato al peso della porteséla da reggere, ma pezzi di quello non mancavano mai, residuati dei finimenti dei muli, di vecchie calzature, cinghie e quant’altro. A casa mia ne avevamo un campionario a cui ricorrevano mio nonno e mio padre, ma anch’io feci in tempo a trapolare usando quella tecnica. Naéja era perciò anche sinonimo di caenasso, e snaejare era il verbo che indicava l’attività o il rumore molesto di chi azionava un chiavistello. 

Tornando all’uso principale, cioè come legno da soghe, la naéja era modellata nel legno duro, meglio se di jègano (maggiociodolo) a forma di navetta sciancrata con i due puntali leggermente rialzati e due fori al centro delle parti più larghe. Serviva a tirare le corde di canapa e ancorarle con un’asola avvolta sulle corna, in modo che, pur nella tensione, fosse poi facile sciogliere la legatura. Allora si usavano corde di canapa, materiale che quando umido rendeva assai difficoltoso lo scorrimento e l'allentamento dei nodi. Questo attrezzo dava modo di tendere le corde facendo leva sul foro libero, quindi di fissarle. In un foro andava inserito un capo della corda, fermato con un nodo doppio affinché non si sfilasse; nell’altro veniva inserito l’altro capo della soga e tirà a simento, per poi asolarlo facendolo passare sui corni della naéja e pissigandolo in medo. Per scioglierlo bastava allentare il capo dell’asola ... et voilà. Il tratto di corda eventualmente eccedente veniva avvolto attorno ai corni, evitando sìnsoli.

Il termine veneto e deriva probabilmente dal latino navicella, data la forma a navetta o barchetta dell'attrezzo. Nell'antica lingua si chiamava Hélsle, che significava semplicemente: legnetto. 

La naéja intela foto la xe sta fata do ancora da me poro nono Nane, cuasi sento ani fa e anca el sogato de cànevo el ga i so bei ani. La a xe ancor bona, parvia chel la xe de jegano, a se capisse dala vena mora e lustra. Cuéla stranba "S" roversa live marchià a fogo a xe l'inissiale del cognome. Sul buso pin basso se vede el bordo rosegà dal slissegamento dela soga. 

 



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