【Gianni Spagnolo © 21D15】
Era una notte buia e tempestosa…
Potrebbe cominciare così il post, perché è proprio così che cominciò questa storia.
Era una notte buia e tempestosa e noi baldi alpini del Feltre ce ne stavamo chiusi e rattrappiti nei nostri sacchi a pelo in una tenda fatta di teli-tenda abbottonati e bucherellati, dato che venivano altrimenti usati per le piazzole di tiro. La tenda dovemmo piantarla sopra un formicaio in una specie di isoletta boschiva circondata dal Rio Maso di Calamento. Questo perché, fatalità, era l’unico spazio libero rimasto dopo che la nostra squadra di boce dovette montare per corvè le strutture comuni del campo. I veci infatti avevano avuto modo di scegliersi comodamente le proprie postazioni, secondo i sacrosanti dettami delle graduatorie alpine allora vigenti.
Fortunatamente, prima dell’arrivo del temporale, ci ricavammo un po' di tempo per migliorare quell'infelice piazzamento. Memore degli insegnamenti di mio padre, di quando cioè lui faceva il bocia dei boschieri sui bàiti del Bìsele, proposi di ricoprire il pavimento di daxe de pesso, ricavandole a colpi di badile tattico dalle piante circostanti. Inoltre raccogliemmo un po’ di resina dagli abeti al fine di colarla sui buchetti dei teli, così da limitarne l’effetto tamìso.
La cosa funzionò, giacché le formiche rimasero confinate sul terreno e noi potemmo fruire d’un morbido tappeto vegetale che emanava intensi e corroboranti effluvi di bosco, che combattevano abbastanza efficacemente con quelli nostri. Anche l'operazione di tamponamento dei buchi sui teli era stata provvidenziale, l’impermeabilità rimaneva ancora una parola grossa, ma perlomeno non ci pioveva in faccia. In quelle condizioni, aggravate da una serata trascorsa a suon di scommesse gotiche con i malghesi della malga di sotto, ci apprestammo ad affrontare il temporale notturno. La pioggia cadeva scrosciante con un vento che sbatteva la tenda, ma almeno evitava l’accumulo d’acqua su quei teli usurati. Nonostante il tasso alcolemico, nessuno riuscì a dormire per un bel po’ e così saltarono fuori le storie più strane che saltano fuori nelle atmosfere gotiche.
Fu così che appresi l’esistenza del Daù, una misteriosa creatura alpina della quale non avevo mai sentito parlare. Ce la raccontò, con profusione di particolari, un commilitone della valle del Biòs. Questi era un tipo strano ma simpatico, capace di sostenere i discorsi più assurdi in protoveneto-belumat con stoica impassibilità, nonché ciuco spolpo.
Appresi così che il Daù era un animale familiare nella sua valle. Si trattava d'una specie di cervide ungulato, affine a camosci e stambecchi, ma non si capiva bene quanto grande fosse. Pare avesse anche aspetti più bizzarri, tipo un incrocio fra camoscio e tasso, o fra questo e la volpe, o anche altre bestie. Le differenze morfologiche sembravano dipendere dal luogo e dall’ora dell’avvistamento, ma forse più che altro dalla condizione gotica del testimone oculare.
In ogni caso era il mammifero che meglio s’era adattato ai percorsi di mezza costa in montagna: le zampe a valle erano infatti più lunghe di quelle a monte e ciò gli permetteva un’eccezionale stabilità sui pendii più ripidi. Erano però ben quattro le specie di Daù, che evidentemente erano sfuggite alla classificazione del Systema naturæ del Linneo: il Dahutus montanus dextrogirus che, avendo le zampe destre più corte di quelle sinistre, procede in senso orario e il Dahutus montanus levogirus, che invece ha le zampe sinistre più corte di quelle destre e gira nel senso opposto. Non mancava neanche la specie che ha le zampe anteriori più corte delle posteriori, quindi adattata a percorrere in salita le ripide pendenze montane, da qui il nome di Dahutus montanus ascendens, nonché quella caratterizzata dalle zampe posteriori più corte di quelle anteriori, particolarmente predisposta a scendere i dirupi e per questo chiamata Dahutus montanus discendens. Quale che sia la variante, tutti i Daù hanno una caratteristica in comune: l'estrema timidezza, che sfocia in comportamenti apertamente asociali. É infatti difficilissimo incontrarne uno, quasi impossibile vederlo, men che meno fotografarlo o filmarlo. Anche per questo c’è chi è convinto che il Daù, in realtà, non esista.
Il problema maggiore, cioè quello che rendeva questa specie molto rara, era l'elevato tasso di mortalità che l'affliggeva. Queste bestie potevano infatti procedere in una sola direzione, altrimenti la loro eccessiva specializzazione morfologica li condannava a precipitare a valle o a morire d'inedia. Altra non trascurabile difficoltà riguardava la riproduzione, che doveva avvenire facendo collimare perfettamente l'estro della femmina con il livello altimetrico di progressione e la differenza di velocità relativa del maschio, perché questi animali non si potevano tanto fermare, altrimenti s'ingrumavano. Perciò pare fosse piuttosto alto anche il tasso di omosessualità, che limitava ulteriormente la diffusione della specie. Inoltre, quando i dextrogirus s'incociavano con i levogirus sullo stesso livello, erano scornate da orbi.
Con queste premesse è persino incredibile che questo genere di animali sia sopravvissuto fino ai giorni nostri. Tracce inequivocabili della loro numerosa presenza nel lontano passato, sono le cenge alpine delle Dolomiti e i giganteschi gruppi montuosi isolati, generati dal continuo calpestio in circolo di infinite generazioni di daù. Anche la tipica forma conica dei picchi montani trova la sua giustificazione nell'intensa opera di erosione causata dagli zoccoli delle bestie dei generi ascendens e discendens nel Pleistocene.
Se non altro, questa storia, che fu assai più lunga di questa sintesi, ci conciliò il sonno e finalmente riuscii ad addormentarmi anch'io, sognando schiere di daù che si rincorrevano felici sulla Cengia di Ball attorno al Pelmo.
Seppi poi, indagando nella letteratura, che il Daù, è un animale conosciuto soprattutto sulla Alpi Occidentali, dove è chiamato Dahu ed è erroneamente ritenuto da molti leggendario. La sua presenza, infatti, è stata segnalata in epoche diverse, in varie zone dell’arco alpino, sia in Italia che in Francia e in Svizzera; addirittura sui Pirenei e dalle parti del Salisburghese e della Baviera. Secondo alcune tradizioni orali, pare che il suo habitat fosse un tempo esteso anche ad altre zone europee ed extraeuropee.
Che da noi non sia presente questa specie, dipende probabilmente dal fatto che non abbiamo gruppi montuosi che possono essere percorsi circolarmente, come la Civetta o il Monte Bianco, in un senso o nell'altro. Forse stiàni ci sarà stata la variante con le zampe anteriori più corte, ma arrivate in cima ai Soji gli esemplari saranno poi fatalmente morti, oppure catturati da quelli di Rotzo o di Tonezza. Quelli della specie discendens, invece, saranno verosimilmente annegati nell'Astico. Il fatto poi che i cacciatori siano usi imbalsamare solo la testa degli ungulati, non ci permette purtroppo indagini più approfondite.
Mi fa ricordare un po' quello svedese che raccontava dei tempi antichi quando in Svezia si guidava ancora a sinistra.
RispondiEliminaPerò lui, mi disse, oramai beveva solo acqua e tanta dopo anni di aquavit.
Diceva, che avevano cambiato lato per guidare perché guidando a sinistra, c'erano più curve a sinistra e i pneumatici loro si consumavano di più da quella parte. Questo cambiamento con più uso a destra equilibrarono non solo le loro gomme ma anche la spesa pneumatica degli automobilisti svedesi per un anno.
Conclusi che l'effetto dell'aquavit non gli era ancora passato completamente.