Alla fine della prima media mio padre decise che dovevamo trasferirci a
Fiorano Modenese, dove lui aveva trovato lavoro in una fabbrica di
mattonelle.
Ci servivano i soldi per ricostruire una vecchia casa che
avevamo appena comprato.
Fiorano era un posto carino: non molto grande, situato in pianura, con inverni nebbiosi ed estati afose, regno dalle zanzare. Poco male, le zanzare non mi pungono, mi possono camminare addosso, ma non amano il mio sangue.
La nostalgia di Paternopoli mi assalì quasi subito. Niente fiume dove fare il bagno, poche lucertole da catturare, niente piazzetta dove giocare scalzi a nascondino, niente frutta da rubare. Solo macchine, fabbriche ed un dialetto sconosciuto, quasi uno slang francese.
E venne il primo giorno di scuola. Fui assegnato alla seconda media sezione B. Entrai in classe e mi sedetti in un banco singolo, l’unico libero. Pochi minuti ed entrò l’insegnante d'italiano. Fece l’appello e per ultimo indicò me. Usò queste parole: “Ragazzi, quest’anno abbiamo un nuovo compagno di scuola, viene da Avellino”. Poi mi fece alzare per presentarmi.
Fiorano era un posto carino: non molto grande, situato in pianura, con inverni nebbiosi ed estati afose, regno dalle zanzare. Poco male, le zanzare non mi pungono, mi possono camminare addosso, ma non amano il mio sangue.
La nostalgia di Paternopoli mi assalì quasi subito. Niente fiume dove fare il bagno, poche lucertole da catturare, niente piazzetta dove giocare scalzi a nascondino, niente frutta da rubare. Solo macchine, fabbriche ed un dialetto sconosciuto, quasi uno slang francese.
E venne il primo giorno di scuola. Fui assegnato alla seconda media sezione B. Entrai in classe e mi sedetti in un banco singolo, l’unico libero. Pochi minuti ed entrò l’insegnante d'italiano. Fece l’appello e per ultimo indicò me. Usò queste parole: “Ragazzi, quest’anno abbiamo un nuovo compagno di scuola, viene da Avellino”. Poi mi fece alzare per presentarmi.
Fu allora che in dialetto paternese articolai alcune parole che per
tutti risultarono incomprensibili, compresa la professoressa. Tutti
risero… qualcuno si spinse a domandare se Avellino era in Italia. Mi
sedetti sul banco come se un macigno mi fosse crollato sulle spalle.
Terminata l’ora di lezione vennero i 5 minuti di pausa.
Una ragazzina alta e magra, Angela Beltrami, anni dopo deceduta in un incidente stradale, si avvicinò e mi toccò il braccio. Poi, con la stessa mano, toccò un’altra ragazzina dicendo di aver toccato l’animale terrone. Questa a sua volta toccò un’altra ragazzina e così via. Ognuna di loro appena sfiorata faceva una faccia schifata e gridava come in un delirio collettivo. Un gioco, sì, solo un gioco, ma crudele e razzista. Ed io lì, in piedi, fermo nel corridoio a guardare e subire i loro insulti. Uno scatto d’ira mi assalì ed allora spinsi per terra l’ultima ragazzina toccata dalle amiche che aveva avuto la sfrontatezza di dirmi: “Terùn, torna a casa tua”.
Una ragazzina alta e magra, Angela Beltrami, anni dopo deceduta in un incidente stradale, si avvicinò e mi toccò il braccio. Poi, con la stessa mano, toccò un’altra ragazzina dicendo di aver toccato l’animale terrone. Questa a sua volta toccò un’altra ragazzina e così via. Ognuna di loro appena sfiorata faceva una faccia schifata e gridava come in un delirio collettivo. Un gioco, sì, solo un gioco, ma crudele e razzista. Ed io lì, in piedi, fermo nel corridoio a guardare e subire i loro insulti. Uno scatto d’ira mi assalì ed allora spinsi per terra l’ultima ragazzina toccata dalle amiche che aveva avuto la sfrontatezza di dirmi: “Terùn, torna a casa tua”.
A quel punto tre maschi, con in testa il più grosso della classe, mi
circondarono e presero a darmi botte. Fui salvato dal bidello,
meridionale anche lui di Nardò (Lecce), che mi portò in bagno per
mettermi l’acqua sul viso e per consigliarmi ‘di sopportare, tanto alla
fine mi avrebbero accettato’.
Per due giorni non andai a scuola, poi mio
padre mi impose di tornarci. Appena entrato in classe riprese il gioco
crudele con la gang sempre più in vena di angherie.
Una mattina eravamo tutti davanti alla scuola in attesa del suono della campana, io da solo appoggiato ad un muretto, quando quattro ragazzini si fecero avanti per ordinarmi di tornare a casa. Questa volta, però, prima che il capo potesse mettermi le mani addosso, gli applicai la tecnica appresa in piazza Angelo da Scipione, al secolo Volpe Giovanni, attuale comandante dei vigili urbani di Paternopoli: appena fu a tiro gli detti una sonora testata sul naso. Il ragazzo cadde a terra con il sangue che usciva copioso dalle narici. Disteso a terra con la faccia sanguinante non faceva più tanta paura.
Una mattina eravamo tutti davanti alla scuola in attesa del suono della campana, io da solo appoggiato ad un muretto, quando quattro ragazzini si fecero avanti per ordinarmi di tornare a casa. Questa volta, però, prima che il capo potesse mettermi le mani addosso, gli applicai la tecnica appresa in piazza Angelo da Scipione, al secolo Volpe Giovanni, attuale comandante dei vigili urbani di Paternopoli: appena fu a tiro gli detti una sonora testata sul naso. Il ragazzo cadde a terra con il sangue che usciva copioso dalle narici. Disteso a terra con la faccia sanguinante non faceva più tanta paura.
Alla vista del sangue gli amici del piccolo boss scapparono mentre
gli altri si girarono a guardarmi. Io, invece di fuggire, li sfidai:
“Qualcun altro vuole fare la stessa fine?” Suonò la campana ed entrammo.
Il ragazzino fu portato in ospedale e di lì a poco giunsero i suoi
genitori ed io fui convocato in Presidenza. Fui redarguito pesantemente,
ma nessun provvedimento fu preso, perché l’episodio era avvenuto fuori
dall’orario di lezione, ad esclusione del fatto che mio padre dovette
andare dal preside il giorno dopo.
Da quel giorno nessuno più si prese gioco di me, anzi, mi evitarono totalmente. E questa cosa mi feriva più del giochino crudele delle ragazzine, che nel frattempo avevano smesso di praticarlo. Furono settimane di disagio e riflessione. Infine compresi che un problema esisteva: non sapevo scrivere e parlare in italiano. Fu così che un pomeriggio mi recai al comune di Fiorano, dove mi avevano detto c’era una fornitissima biblioteca comunale. Era un ambiente grande, a due piani, con scaffali enormi pieni di libri, divisi per letteratura.
Da quel giorno nessuno più si prese gioco di me, anzi, mi evitarono totalmente. E questa cosa mi feriva più del giochino crudele delle ragazzine, che nel frattempo avevano smesso di praticarlo. Furono settimane di disagio e riflessione. Infine compresi che un problema esisteva: non sapevo scrivere e parlare in italiano. Fu così che un pomeriggio mi recai al comune di Fiorano, dove mi avevano detto c’era una fornitissima biblioteca comunale. Era un ambiente grande, a due piani, con scaffali enormi pieni di libri, divisi per letteratura.
La signora, gentilissima, mi accolse e mi chiese di cosa avevo bisogno.
Io risposi: “Voglio imparare l’italiano”. Lei allora disse: “Ragazzino,
per imparare l’italiano devi leggere, leggere e leggere”. Fu così che
mi fece l’iscrizione e mi consegnò tre libri di avventura. Dopo pochi
giorni ero di nuovo in biblioteca per restituirli.
Le settimane
passavano e la signora mi guidava nella lettura scegliendo i libri per
me. Finite le ore di scuola prendevo i miei libri e salivo al
santuario-castello di Fiorano, una chiesa posta su una piccola
collina da dove si godeva il panorama del paese e dell'intera pianura.
Poi un giorno chiesi alla signora la “Disubbidienza” di Moravia. La
signora me lo diede e aggiunse: “Da oggi in poi scegli da solo i libri”.
In un anno lessi Verga, Svevo, Pirandello, Montale, Proust, Joice,
Kafka, Hemingway, Dostoevskij e il mio preferito Hermann Hesse.
Il
risultato fu che verso la fine dell’anno i miei risultati scolastici
erano cresciuti in maniera esponenziale, fra lo stupore dei compagni.
L’anno volgeva al termine ed un giorno la professoressa di italiano
diede tre tracce per l’ultimo compito in classe. Io scelsi la traccia di
attualità che verteva proprio sulle nuove emigrazioni.
Dopo tre giorni venne il momento della consegna del compito. L’insegnante era solita chiamare per nome l’alunno che doveva andare
alla cattedra per ascoltare il giudizio e ricevere il voto. Chiamò
tutti fuorché me. Allora chiesi di sapere il mio voto. Lei, rivoltasi
alla classe, disse: “Ho tenuto per ultimo il tema di Andrea perché è
bellissimo, il più bel tema che abbia corretto negli ultimi anni. E’ un
elaborato scritto in un italiano corretto e dai contenuti profondi che
denotano una sensibilità rara e preziosa. Bravissimo Andrea in questo
anno hai fatto un ottimo lavoro. Ti do il massimo voto nella mia
materia”. E poi lesse il tema e nel tema c’ero io, il ragazzo del naso
rotto, le ragazze, la professoressa… c’eravamo tutti, compresa Nadia
Frigeri, la più bella ragazzina della classe. C’era Paternopoli,
Fiorano, mio padre, il padre del ragazzo sanguinante, il preside…
c’erano le nostre storie. Finii la scuola e fui promosso. A quel punto
mio padre mi permise di tornare finalmente a Paternopoli per le
vacanze. La partenza era fissata per il lunedì successivo. Nel
pomeriggio salii come al solito sulla collinetta del santuario. Ero
seduto sulla panchina a leggere quando vidi tre ragazzine in
bicicletta. Si avvicinarono. Erano tre compagne di scuola ed una era
Nadia, la biondina. Scesero dal sellino, Nadia mi salutò e disse:
“Andrea, ti farebbe piacere venire sabato al mio compleanno?”
La guardai e rimasi in silenzio, temendo uno scherzo di cattivo gusto,
ma Nadia insistette: “Mi farebbe piacere, davvero. Lo faccio a casa mia
sulla strada per Spezzano. Puoi venire in bici se vuoi”. “Nadia, -
risposi- io non ho la bicicletta, ma verrò’”. Le tre ragazzine
risalirono e si allontanarono. Sabato sera andai a casa di Nadia a
piedi. Aveva una casa bellissima: una villetta con giardino e diverse
macchine costose parcheggiate nel viale. Suonai e subito venne ad
aprirmi la festeggiata. Era davvero la più bella della classe. Fu
cordiale e mi fece entrare. Mi presentò ai suoi genitori, due persone
perbene. La madre, forse di origine austriaca, disse: “Andrea, Nadia ci
parla spesso di te. Eppure non sembri un meridionale. Sei biondo con gli
occhi chiari. Pensavo che eri scuro con i capelli neri. Mio marito una
volta, durante il servizio militare, è stato ad Avellino, è molto
lontano da qui?” “Signora, circa 700 Km” le risposi. Cominciò la festa,
mangiammo poi misero sù la musica. Io uscii fuori in giardino e covavo
l’intenzione di andarmene, quando Nadia mi raggiunse fuori e mi
invitò a ballare. Un ballo veloce di gruppo, ma nel gettarmi in pista mi
teneva per mano, la stessa mano che pochi mesi primi mi aveva trattato
come un lebbroso. Per quel gesto non l’avrei mai più amata, ma
adesso, quella stessa mano mi restituiva la dignità di essere umano.
Alla fine della terza media io mi iscrissi al liceo scientifico mentre
la maggior parte di loro preferì scuole con diplomi finiti. Non cercai
mai di assomigliare a loro. Anzi, mi sforzai di rimanere me stesso, lo
scienziato di sempre. Cambiai compagni e mi feci qualche amico vero,
ma a volte, nonostante siano passati 40 anni, qualcuno di quella
scuola media ancora mi telefona per gli auguri di Natale. I bambini e
gli adolescenti sanno essere molto cattivi, ma lo sono sempre perché le
famiglie e la scuola insegnano ad aver paura dell’estraneo, paura che
genera l’incomprensione e la diffidenza, l'anticamera del razzismo.
Eppure il nostro Cristo è ebreo
e la nostra democrazia è greca.
La nostra scrittura è latina
e i nostri numeri sono arabi.
La nostre moto sono giapponesi
ed il caffè è brasiliano.
Il nostro orologio è svizzero
e il nostro cellulare è cinese.
La pizza è italiana
e la nostra camicia hawaiana.
Le vacanze sono turche,
tunisine, marocchine, egiziane…
Siamo cittadini del mondo,
non possiamo rimproverare al nostro vicino
di essere straniero.
Apparteniamo tutti all’unica razza conosciuta, quella umana… diceva Albert Einstein.
Ecco perché proibisco categoricamente ai miei figli termini quali
negro, scimmia, zenghere etc. Siamo tutti fratelli. Se bisogna rompere
il naso a qualcuno lo devi fare senza pensare al suo credo religioso,
al colore della pelle o alla sua provenienza. Bisogna romperglielo solo
perché quel naso è il naso di uno stronzo ed un violento e non ci
sono margini per una discussione civile.
Andrea (dal web)
(non riesco a ricordare il cognome)
Che dire, più o meno sembro io a parlare, perchè mi è successo proprio così...
RispondiEliminaIdem. Il bullismo c'era anche 40 fa, forse ancora più cattivo. E' stata dura a morire la cultura contro il terrone. Quante generazioni sono passate, non per annullarla, ma per mitigarla un po'? Bel racconto complimenti, triste, ma veritiero.
RispondiEliminabellissimo racconto, grazie Carla, speriamo sia letto da tanti
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