lunedì 9 luglio 2018

No se sa mai!


Ripulire, riordinare e portare in discarica un po’ di cose rotte o ormai inutili ha indubbiamente degli aspetti catartici e gratificanti. Il disfarsi delle cose vecchie sottintende spesso un nuovo inizio, consente di fare spazio alle nuove e di razionalizzare i propositi. Oggi nelle nostre case asettiche e tecnologiche non c’è infatti più posto o tolleranza per le cose che non abbiano un’immediata utilità; lo impone il consumismo e la rapida obsolescenza tecnologica dei tanti ammennicoli della nostra epoca.
Quand’ero piccolo invece in discarica ci finiva ben poco e solo quello che non aveva alcuna ulteriore possibilità di recupero. Avveniva poche volte all’anno, specie prima di Pasqua, quando si  portavano i rifiuti oltra ala vale con la carriola o il carrettino. Quelle discariche io le conoscevo bene, dato che erano il luogo in cui noi boce cercavamo arnesi utili ai nostri giochi. Tra le cose più ambite c’erano i feri da onbrela d’anteguerra (quelli tondi di acciaio armonico) e le ruéle delle vecchie carrozzine.  Con i primi costruivamo le micidiali frecce dei nostri archi di noselàro, mentre le seconde servivano per i caretei; quantunque arrivassero lì già squinternate dai troppi fratelli e cugini che avevano dovuto scarozzare in successione.
Ciò che stranamente si rinveniva spesso pressoché intonse erano le confezioni di medicinali. Chissà perché, ma sembrava che i paesani avessero il vezzo di procurarsi le medicine senza poi usarle; probabilmente perché le passava la Mutua. In ogni caso questo ci consentiva attimi di goduria nel far schizzare i tubetti pieni di pomate e unguenti vari saltandoci sopra a piedi uniti o frantumare con la fionda le fialette di vetro delle punture, quelle della limetta. Lì ci voleva veramente un’ottima mira.
Per il resto, l’umido finiva alle bestie di casa o al massimo nel luamàro. La carta si riciclava per molteplici usi, non esclusi quelli igienici.  Barattoli e bottiglie di vetro interi: Guai!  Di filati e tessuti non si trava via gnente, Dio solo sa quante volte si poteva rifare una maglia o le calze di lana o repessàre qualcosa. Di plastica c’era ancora poco, salvo l’incombente Moplen, per cui tutto il resto si conservava perché: El podéa vegnér bon!
Tanto, posti dove inbusàre la roba non ne mancavano di certo e l’estetica e il decoro abitativo obbedivano allora ad altri canoni. Secoli di allenamento a vivere precariamente e con lo stretto indispensabile, quando non con meno, avevano consolidato una cultura del risparmio e del rispetto delle cose che resisteva caparbia anche all’incipiente sviluppo economico e alla maggiore disponibilità di risorse. Il buttar via qualcosa era assolutamente l’ultima istanza accettabile, dopo aver valutato attentamente ogni possibile soluzione alternativa e, quand’anche questa non fosse lontanamente evidente, accantonandola per eventuali future analisi.
No se sa mai!
A questa disamina non si sottraeva niente. Non il pezzo di legno con buona vena, che poteva servire a far màneghi, non il pezzetto di cuoio, utile per incubiare le ante di legno, non i rottami di ferro, buoni per molteplici usi e così via.
Avevo sei anni quando aiutavo mio padre nella ristrutturazione della casa raddrizzando i chiodi. Chiodi arrugginiti e contorti di diverse fogge, misure ed epoche, già oggetto di ripetuti riciclaggi. Dovevo tentare di riportarli al pristino stato raddrizzandoli su un’incudine fatta col fondello d'una bomba da 105 con un martelletto anch'esso recupero di guerra. D’inverno e con le mani gelate, che ad ogni colpo di martello pativano il rigirarsi orgoglioso del chiodo rattrappito. Non che non avessimo chiodi nuovi, ci mancherebbe, ma bisognava tenerli risparmiati.
No se sa mai!
Il granaio e il bàito di casa mia erano ricettacolo di cianfrusaglie in cui mi dilettavo a rovistare nelle giornate di pioggia. Ogni cosa li conservata aveva una storia e io la conoscevo perché mi divertivo a farmela raccontare. I finimenti dei muli di nonni e bisnonni, i chiavistelli delle porte vecchie con chiavi di ogni sorta, menàre e sapìni forgiati a mano, seguni, stcione, coàri, piàntole, séxolecanfini, sgrube per far le sgàlmare, caéne da vache, naéje, sèssole, cordami di canapa, barattoli di chiodi, di viti e di bottoni di ogni foggia ed evo, pezze di cuoio, pione, soramàn, oggetti militari, attrezzi di mestieri ormai scomparsi, vecchi libri, lettere e carte geografiche, diplomi di devozione, rosari sgranati, mazzette di santini, ecc., insieme ad una serie di rottami di articoli elettrici usati in famiglia nei decenni precedenti e lì inumati in attesa di una improbabile resurrezione. E questo per limitarsi agli interessi maschili e non parlare dell'altra metà del cielo. Immagino fosse così in molte case del paese, perché quella era la nostra cultura, quelle le nostre inveterate abitudini. 
C’erano cose dei miei bisnonni, dei miei nonni e di mio padre, che certo non si sottraeva alla tradizione, anzi! Per lui ogni cosa poteva essere riciclata e portata a nuova vita. Sapeva infatti usare ogni più insignificante oggetto o rottame per fare riparazioni o costruire qualcosa di nuovo. Il suo imperativo era l’utilità, non l'estetica: quello che poteva essere utile era automaticamente bello. 
Ciò a volte creava imbarazzi in famiglia, perché certe sue realizzazioni, indubbiamente ingegnose ed efficaci, non erano però esteticamente in linea con lo spirito dei tempi. Mio padre, incurante del nostro compatimento, continuò a riparare vecchi attrezzi e a costruire congegni con cose riciclate fino a che le forze glielo consentirono.
Eppure aveva trascorso gran parte della sua vita lavorando in una moderna e cosmopolita città europea, applicando le più avanzate tecnologie costruttive e usato sempre strumenti, attrezzi e schemi organizzativi all’avanguardia per i tempi. Nondimeno questo non ne aveva affatto intaccato l’imprinting. Ogni cosa in lui obbediva fondamentalmente a criteri di risparmio, frugalità e utilità. Anche l’andare in montagna, il tagliar la legna, lo stesso modo di lavorare, di camminare e perfino di mangiare sottostava ad una rigorosa economia. Particolarmente nel suo lavoro, che amava, era di una efficienza e precisione mostruose. Le sue azioni erano calibrate in base al risultato atteso e accuratamente preparate: niente era lasciato al superfluo o al caso. L’educazione ricevuta da ragazzo e l’esperienza nell'amministrare con efficienza anche la poca energia fornita allora dalla polenta, nonché a servirsi di ogni strumento a disposizione, l’aveva forgiato indelebilmente. Io inconsciamente mi rendevo conto, anche se a volte mi urtava perché a quel rigore dovevo sottostare anch'io, che quella era una sapienza. Sapienza che aveva permesso alle generazioni passate di sopravvivere in questa valle ricca solo di sassi.

Con queste premesse si può immaginare cosa significhi dover liberare una casa dalle cose inutili quando l’inesorabilità del tempo e delle circostanze ci mette di fronte a queste incombenze.
Ogni cosa, ogni oggetto, ogni apparecchio che tocco sembra che si animi e mi racconti la sua storia e la personalità di chi l’ha usato. Neanche fossimo in un cartone della Disney.
Come in un vecchio museo in cui ogni pezzo è catalogato e unico. E ci parla di ciò che è stato. E tornano a galla i ricordi, le emozioni, i rimpianti; insieme a considerazioni filosofiche e antropologiche mai scritte sui libri. 
Come si fa, per esempio, a buttare quel vecchio quadro della Sacra Famiglia, poveramente incorniciato e dall'aspetto candidamente retrò, che era al capezzale del letto dei tuoi nonni. Dove è stato concepito tuo padre, dove saltavi tu da bambino e che ha raccolto le preghiere, i voti, le ansie, le speranze, le solitudini e i rantoli della tua gente?
Come si fa a liberarsi di quella culla a dondolo in legno e vimini, soltanto un po' tarlata, sapendo che l'ha comprata tuo padre alla fiera di San Matìo ad Asiago, che l'ha portata giù in spalla e a piedi e che ha  accolto tua sorella e te nei primi abbracci della vita?
Insegnano i grandi strateghi di guerra che per riuscire ad eliminare più facilmente un nemico bisogna prima togliergli la personalità: farlo diventare un qualcosa di pericoloso, insignificante, o quantomeno  asettico.
Già, ma è un bel dire!

Quegli attrezzi li tengo ancora, non ho buttato niente. Hanno i manici rinsecchiti e ballerini, inpendolà e rifatti non so quante volte, ma sono lì, assieme ad un campionario di spezzoni di fagàro e òrno per sostituirli e che ormai sono duri come l'osso; qualcuno l’ho messo da parte pure io. 
Ne ho sistemato qualcuno di quelli che uso. Potrei procurarmi un’attrezzatura moderna ed efficiente comprandola al Brico per pochi soldi, che oggi te la tirano dietro, ma non lo farò. Ho maturato il fermo proposito di fare prima o poi i manici nuovi a tutti quegli utensili, così come mio padre m'ha insegnato. I miei figli forse capiranno, o forse no.

Quando la vita era più precaria e più dura, ci accompagnavano poche cose che assorbivano anche un po’ di noi, in qualche modo ne facevano parte. Erano presenze costanti, che ci servivano per tutta la vita o un suo lungo tratto.
Oggi che è tutto più facile è diventato anche tutto provvisorio. Tutto è velocemente mutevole, tutto in continua evoluzione. Non si riesce ad affezionarsi più a niente. Cambiano continuamente non solo i nostri oggetti quotidiani, ma pure i paesaggi e gli assetti urbani; nemmeno gli esseri umani restano gli stessi.
Forse non resteranno nemmeno i ricordi.
Gianni Spagnolo
4/7/2018

11 commenti:

  1. Caspita Gianni, con il tuo racconto , mi hai fatto tornare indietro di 50 anni. Complimenti e .......grazie! !

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  2. Gianni,tu sei la memoria storica.
    Soprattutto la memoria del cuore.
    Ti prego ,scrivi un libro..
    Riesci sempre a toccare le mie corde ,quelle più profonde,quelle più vere,grazie di cuore con la stima che sai.Alla prossima.

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  3. Ciao Gianni. Scrivi cose fantastiche. Anch'io sto sperimentando che conservare qualche
    pezzo di antiquariato di famiglia è una una cosa meravigliosa. I ricordi ci aiutano a superare
    momenti difficili, crisi personali ecc. Condivido appieno il consiglio che ti dà Antonella: Scrivi un libro,
    Intanto conserva, metti nel cassetto, e quando, come Marco Polo, avrei finito di girare, scrivi il tuo Milione.
    Un amico

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  4. Così era la realtà fino a 40 anni fa circa e oltre. Si dava valore alle cose e se ne aveva cura perchè si aveva poco. Ora tutto è cambiato ed è sempre da vedere se in meglio o peggio.

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  5. Quante dolci sfumature e quanta sensibilita'in questo racconto complimenti signor Gianni lei conosce la musica dell'anima

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  6. Grande GIANNI sempicemente BELLISSIMO il tuo modo di raccontare il ns modo di vivere da bambini .Mi sembra di rivivere quei giorni e persino di sentire gli odori e sapori che ci circondavano.Mi identifico molto anche nel racconto di ANDREA "torna a casa terrone o polentone".Ti ricordi quando ti raccontai del mio arrivo a MILANO nel 1961 e non sapevo parlare ne scrivere in italiano .Più o meno le stesse circostanze di ANDREA da AVELLINO.salutone AGOS

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  7. ciao Gianni, un mese fa ho messo da parte proprio i ferri di un vecchio ombrello per fare le frecce, appena il tempo me lo permette, e anche una penna di falco per permettere alle future frecce di volare precise verso il centro...

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  8. Ciao Koskri- Cosa dire troppo bravo sempre una spanna e anche più sopra tutti- non pensi che sarebbe ora di riunire tutti i tuoi racconti e metterli in forma cartacea; Alla presentazione del mio libro mi ricordo dicesti che in Valle nessuno scrive, nessuno si sa raccontare, ma sinceramente chi meglio di te può sopperire a questa mancanza di memoria storica che ci affligge - Non è semplice dirlo senza togliere dei meriti alla Milia, ma il complimento mio su questo scritto è che leggendolo ho sentito molto il rimpianto di non aver avuto un Padre e ti assicuro che mi è successo raramente... ciaoooo

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    1. Grazie Gino, ma da quando tu hai mosso le acque vedo che si sono mossi in diversi, se non nel paesello, almeno nelle frazioni. Magari prima o poi lo farò anch'io, anche se servirebbe più guardare al futuro che al passato.

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  9. Mi associo all'invito che la maggioranza dei lettori ti ha rivolto:trasferisci sulla carta quanto quanto con sensibilita'racconti.Sono tuoi ricordi ma per noi"molto avanti con gli anni"sono gocce di un vissuto che quotidianamente rievochiamo.Alla nostra eta'si ricorda piu'il passato e tu lo spolveri e lo arricchisci con importanti particolari.Grazie grazie...ciao a te Carla e mamma Irene

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  10. Grazie Alice dei saluti che ricambiano con affetto e stima. È un piacere sapere che ci segui ;-) Spero ttt bene ciao.

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