Avevo 22 anni, un’età nella quale tutto esplode, tutto
diventa una meta, tutto sembra raggiungibile e niente fa paura, il fisico che
diventa uomo, la voglia di vivere e
scoprire il mondo, i progetti per un futuro, l’ambizione di progredire, di
progettare e di trovare quella strada
della vita che può darti tantissime soddisfazioni.
La mia vita andava avanti così di pari passo con la vita
della nostra società, questa società sempre più frenetica, sempre più veloce,
tutte le giornate scivolavano lisce come l’olio, non c’era nemmeno il tempo per
assaporare certi momenti intensi. Stavo maturando dentro di me, in
breve tempo, qualche cosa che non capivo, qualche cosa che sentivo intenso, ma
che non riuscivo esattamente a identificare. Sentivo sempre di più il bisogno
di evadere, da questa vita frenetica, da
questo spazio troppo piccolo che è riservato ad ognuno di noi, sentivo sempre
di più il bisogno di rimanere fuori, fuori da tutti, fuori dal progresso, fuori
dalla vita che ci stava incanalando nella routine di tutti i giorni.
Ecco quello che cercavo, qualche cosa che mi desse
l’opportunità di creare uno spazio tutto
mio, fuori dalla società e fuori dal caos quotidiano, volevo tornare un po’
indietro nel tempo. Volevo essere libero, volevo essere senza identità, non
rintracciabile, non identificabile.
Così decisi di cercare un luogo che potesse darmi questa
sensazione.
Un giorno presi la macchina e mi diressi nelle grandi
distese e praterie, girai parecchi giorni prima di individuare un punto dove
fermarmi. Percorrendo una strada che
costeggiava un’immensa vallata attraversata da un grande fiume, mi accorsi che
dentro questo fiume c’era un’isola molto grande, con una bella pineta, l’isola
in quel momento non era attorniata dall’acqua del fiume, essa scorreva solo in
un lato e il fiume era quasi in secca.
Lontano dalla sponda c’era un piccolissimo villaggio, circa
una ventina di case; la distesa attorno al fiume era grandissima, tutta
pianeggiante, solcata solo da una strada sterrata che poi finiva per scomparire
dietro le colline a nord della vallata. Scesi con la macchina nella piana e
lungo la strada polverosa di terra rossa arrivai poco lontano dalla riva del
fiume, dove davanti a me si ergeva un po’ più alta quest’isola.
Parcheggiai la
macchina in un luogo nascosto, tolsi le targhe e le seppellii in una buca
scavata appositamente, poi presi la tanica di benzina che avevo messo nel
cofano cosparsi la macchina del liquido e appiccai il fuoco per cancellare
ogni traccia. Dentro in macchina lasciai
tutto quello che avevo, carte di credito, carta d’identità, patente di guida,
insomma tutti quei documenti che potevano dare indicazioni se qualcuno fosse
venuto a cercarmi. Avevo portato anche un po’ di provviste che portai, facendo
più viaggi, sulla riva dell’isola. Mi misi lo zaino in spalla con dentro qualche indumento e ripercorsi per
la quarta volta lo stesso percorso.
Presi pure un fucile con le scatole di cartucce e delle altre cose che potevano
servirmi nei giorni che sarei rimasto sull’isola. Così mi incamminai per
attraversare quel fiume larghissimo che mi divideva dalla sponda dell’isola,
avanzando vedevo l’isola che si ingrandiva, era coperta di vegetazione. Dopo un
un’ora e mezza di duro cammino per il fondo del fiume tutto sassi e pietre
taglienti arrivai alla riva dell’isola, faticai un bel po’ a salire e dovetti
sedermi per fare una pausa di mezz'ora, tale era la mia stanchezza. Erano
le 16.00 del pomeriggio e il sole batteva ancora forte con i suoi raggi
luminosissimi.
Mi incamminai per l’interno dell’isola, a prima vista la
vegetazione era fittissima, c’erano dei resti di qualche baracca ormai demolita
dal tempo, segno che qualcuno, tempo addietro, era passato di lì. Non c’era
nessun sentiero ben evidente, solo qualche traccia del passaggio di qualche
animale, nient’altro.
Ad un certo punto vidi in mezzo alla vegetazione dei colori
molti vivi, e avvicinandomi, mi accorsi che in mezzo ad una piccola radura,
c’era un vecchissimo furgoncino molto ruggine con tutti i finestrini molto
sporchi ma intatti. Mi fermai pensando che ci poteva essere qualcuno, ma lo
stato d’abbandono mi confermò che lì non avrei di sicuro trovato altro essere
vivente. Così mi avvicinai finché toccai una delle portiere. Presi la maniglia
e con forza tirai verso di me, la portiera cigolò, segno che era da molto tempo
che nessuno apriva quel mezzo. Entrai e dentro trovai un luogo sporco, ma bello
capiente, che mi rese felice: avevo trovato
la mia abitazione per quell’avventura che incominciavo.
Iniziai a pulire alla meglio per rendere il luogo abitabile per la notte, la mia prima notte da
solo, fuori dalla civiltà. Mi accorsi che il sole era già sceso da un bel pezzo
e la luce incominciava a scivolare verso l’orizzonte per lasciare il posto alla
notte e guardai l'orologio: erano le
20.00. Sistemai le mie cose in un angolo, presi il piumino che mi ero portato e
lo distesi sopra l’ultima fila di sedili posteriori a mo' di letto. Estrassi
dallo zaino tutte le candele che avevo comprato e ne accesi una per fare un po' di luce. Mi coricai e presi il libro che avevo incominciato la lettura qualche settimana prima. Lessi per un paio
di ore, poi, stanco, soffiai sulla fiamma della candela che traballò, si agitò
per un istante fino a spegnersi. Chiusi gli occhi e i miei pensieri volarono
liberi nella fantasia.
Pensavo già al giorno dopo, pensavo che quella prima mattina
non avrei avuto nessun orario da rispettare, nessun compito urgente da portare
a termine, nessun obbligo di fare un bel sorriso al mio superiore, nessun
orario fisso nemmeno per il pranzo o per
la cena. Ero completamente libero, ma soprattutto era completamente libera la
mia mente. Lei con i suoi pensieri andava di qua e di là come una palla da
biliardo prima di andare in buca.
Con tutti questi pensieri, la stanchezza fisica e la
tranquillità che sentivo dentro, mi addormentai di un sonno dolce come lo
scorrere calmo e tranquillo dell’acqua a fianco dell’isola dov’ero.
La mattina non tardò ad arrivare e invece di essere
svegliato come ogni mattina dal trillo di una sveglia, furono i raggi del sole
a battermi sulla spalla e mi svegliai con un sussulto. Il chiarore del sole era
quasi accecante, mi misi seduto sui sedili e mi stiracchiai. Avevo dormito
benissimo, sentivo il fisico ben riposato e la mente libera da ogni impegno.
Mi vestii e scesi dal pulmino per andare lungo la riva del
fiume per lavarmi un po’, al ritorno presi tra le provviste che avevo messo
dentro il pulmino una bustina di latte in polvere e feci scaldare l’acqua sopra
il piccolo fornello da campeggio. Di lì a poco incominciò a bollire pronta per
versarci dentro la bustina di latte. Quando fu tutto pronto incominciai la mia
prima colazione in quel posto sperduto e incantevole, con i finestrini aperti
si sentivano gli uccelli cantare e qualche altro animale fare il proprio verso.
Decisi che per pranzo avrei potuto pescare del pesce in quel fiume, mi munii di
un lungo bastone abbastanza flessibile e ad una corda fine attaccai un amo,
cercai tra i sassi dei vermi e mi recai sulla riva.
Non ci volle molto che un pesce abboccasse, ma al primo
strattone della canna si staccò e se ne andò con il mio verme, fortuna volle
che per pranzo avevo pescato il mio pesce e dopo averlo pulito lo misi sulle
braci. Fu un ottimo pranzetto.
Nel pomeriggio mi ero prefisso di andare in esplorazione
dell’isola, così chiusi, per modo di dire, la portiera del pulmino e mi
inoltrai nel fitto bosco, senza una meta precisa. Notai, percorrendo un sentiero, che non ero il primo ad abitare
in quell’isola. Infatti trovai resti di vecchie palizzate quasi marce, legate
assieme con dello spago, segno che tempo prima qualcuno aveva bivaccato come me
in quel posto. Girai quasi tutto il pomeriggio senza però trovare anima viva,
qualche lepre l’avevo vista così l’idea di prenderne una qualche giorno dopo
balenò nei miei pensieri. Il tempo trascorreva veloce e le settimane passavano,
avevo costruito delle trappole per le lepri e di lì a qualche giorno ebbi la
fortuna di prenderne una. Quando la cucinai però il suo gusto sapeva troppo da
selvatico anche se, piano piano, mi
ci abituai.
L’estate stava passando ed eravamo già verso la metà di
settembre, i colori incominciavano a cambiare, le foglie ai primi di ottobre
diventavano rosse, poi gialle e infine marroni come la ruggine, gli unici che
non cambiavano colore erano i pini e gli abeti, loro sempre verdi sempre svegli
e attenti. Anche la temperatura non era più quella di prima, di primo mattino
quando mi svegliavo si sentiva la
frescura e per terra i sassi diventavano lucidi come fossero di vetro, coperti
com’erano di rugiada, Anche gli uccelli e gli animali si vedevano sempre più di
rado. L’autunno stava per arrivare, per annunciare che di lì a poco avrebbe lasciato posto all’inverno. Dovevo per forza controllare le scorte di
cibo, dovevo trovare un sistema per riscaldarmi in quell’inverno, che forse
sarebbe stato anche molto rigido, così con un po’ di ingegno e un po’ di
fortuna riuscii a trovare l’occorrente.
Dopo qualche tempo ecco i primi fiocchi di neve, mista ad
acqua, che sferzavano sui vetri del pulmino per poi ricoprirli e celarmi quel
panorama incantevole. Una sera mi addormentai molto presto e al mattino quando
mi svegliai mi resi conto che di neve ne aveva fatto parecchia, tanto che non
riuscivo nemmeno ad aprire la porta del
pulmino, così a furia di spingere la porta riuscii ad aprila un po': c’erano 50 cm di neve! Pian piano riuscii a farmi un piccolo varco
per raggiungere il fiume e prendere un
po’ di acqua per la colazione. Mi accorsi allora che tra i fusti delle piante
saltellava un capriolo, una scena davvero straordinaria. Tornai al pulmino e mi
preparai la colazione, poi decisi anche a malincuore di tornare dove prima con
il fucile per ammazzare il capriolo e procurarmi un po' di carne per l’inverno, ma di lui neanche
l’ombra. Così tornai al pulmino, le mani vuote e completamente fradicio.
L’inverno trascorreva, le giornate erano diventate cortissime, ma di lì non era
mai passato nessuno e nessun rumore d’uomo aveva disturbato la mia
tranquillità.
Qualche tempo dopo la neve incominciava a sciogliersi e si
sentiva il ritorno della primavera, per cui ripresi la pesca lungo il fiume. Un
giorno però cambiai posto di pesca e mi recai in un punto un po’ più alto del
solito. La neve era tutta molle e camminare diventava un po’ difficile. Da
quella posizione scivolai sui sassi tondi e bagnati e mi ritrovai giù
nell’acqua gelida, mi misi seduto e cercai di alzarmi, ma sentivo che c’era
qualche cosa che non andava, provai a toccarmi il torace, le braccia, tutto era
in ordine, non c’era niente di rotto, ma quando misi le mani nelle gambe,
sentii un forte dolore alla tibia della gamba destra e allora mi resi conto che la gamba era rotta. Non mi
feci prendere dal panico, ma cercai di ragionare con freddezza. Ma come fare
per tornare al pulmino? Di strada ne avevo percorsa parecchia, e anche se mi
fossi trascinato, chissà quanto tempo ci avrei impiegato. Non c’era però altra
soluzione, cosi pian piano, incominciai a trascinarmi facendo molta attenzione
alla gamba. Finalmente raggiunsi il
pulmino e faticai non poco per salirci dentro. Una volta salito mi
spogliai di tutti quei vestiti
completamente fradici e mi rivestii con quelli asciutti, cercai da qualche
parte dei pezzi di corda e pezzi di legno che mi servissero per bloccare la
gamba in modo che non peggiorasse il danno fatto. Finito di legare i due pezzi
di legno stretti avvolsi attorno dei pezzi di stoffa, in modo da tenere la
gamba al caldo il più possibile, poi presi un bel pezzo di legno e ne feci una
stampella per aiutarmi nei spostamenti. Non ci voleva un problema del genere!
Ora come potevo fare per sopravvivere in quelle condizioni?
Col passare dei giorni stavo maturando l’idea che la mia
avventura fosse proprio finita, e che dovevo ritornare nella civiltà se volevo
salvarmi. Faticavo moltissimo da solo, ma
soprattutto erano i dolori che a volte erano
lancinanti. Mi accorsi una sera, dopo aver sfasciato la gamba, che a
metà polpaccio c'era un colore strano, tutto attorno si era creato un anello
color rosso e nella parte interessata il muscolo era diventato tutto duro, in
pratica aveva perso la sua elasticità.
Cercavo di non pensarci, ma l’idea di tornare fuori
dall’isola mi teneva sveglio anche di notte, i dolori erano sempre più
frequenti e più forti, la gamba incominciava a gonfiarsi, insomma tutto
incominciava ad andare storto. Di provviste per mangiare non ne avevo
abbastanza per andare avanti molto in quelle condizioni, tutti questi fattori
mi indussero e convinsero sempre di più a ritornare da dove ero partito,
altrimenti, di sicuro, non ne sarei uscito vivo.
Così, una mattina di sole mi svegliai e la decisione era già
presa: dovevo tornare sull’altra riva e cercare aiuto, forse qualcuno poteva passare di lì. Raccolsi il minimo indispensabile, lo misi dentro
lo zaino e con l’aiuto della mia stampella mi incamminai nella direzione dalla
quale, molti mesi prima, ero venuto. Barcollando tra i sassi, con qualche
imprecazione per i dolori alla gamba, mi sembrava di sentire un rumore strano e sempre più forte man mano che andavo avanti.
Un rumore come di aria che striscia tra le fronde dei pini, un brontolio quasi
impercettibile. Ogni tanto mi sedevo per riposare un po’, poi ripartivo e
cercavo con lo sguardo quel traguardo che mi avrebbe portato alla salvezza. Dopo
un paio di ore arrivai alla riva, e li mi accorsi quanto fu devastante lo
stupore per quello che si presentò davanti ai miei occhi. Per non cadere dalla
disperazione mi sedetti su un grosso masso, rimasi sbigottito, amareggiato,
deluso e sconfortato: i miei occhi mi
facevano vedere un mare di acqua che scorreva impetuosa, mi resi conto subito
che non era proprio possibile raggiungere la riva opposta. Non avevo calcolato
che il disgelo della neve aveva provocato una piena del fiume, che di sicuro
sarebbe durata per molti ma molti mesi. Sconsolato, triste mi incamminai per la
strada del ritorno e quando raggiunsi il
mio pulmino, sfinito, entrai, mi sdraiai
sui sedili e mi misi a piangere: ero in trappola come quella povera lepre alla quale avevo teso la trappola.
I giorni passavano e la situazione della mia gamba
peggiorava di giorno in giorno, la zona dove prima era rosso ora era diventata
quasi violacea, sembrava che la gamba incominciasse a marcire, mi sentivo di
tanto in tanto dei brividi di freddo, segno che avevo di sicuro la febbre, e
quel colore violaceo della gamba significava infezione. La mia vita stava diventando un calvario, non riuscivo quasi
più a reggermi in piedi, non mangiavo da giorni e mi sentivo veramente esausto
e stanchissimo, sentivo la febbre salire ogni minuto che passava. Decisi di prepararmi un letto un po’ più comodo e
quando ebbi finito mi ci sdraiai sopra, ero arrivato alla conclusione che di lì a poco la mia vita sarebbe arrivata alla meta finale. Mi addormentai e nella
mia memoria ripassavo tutti quei giorni che avevo trascorso in quell’isola. Da
quella posizione forse, all’apertura della caccia nell’autunno qualcuno sarebbe
passato di lì e mi avrebbe ritrovato. Avrebbe trovato un corpo e chissà quante
sarebbero state le domande:
Disteso sopra i
sedili posteriori che fino a quel momento mi avevano fatto da letto, mi
rilassavo, ma sentivo fuori lo sferzare del vento e della pioggia che si
infrangeva sui vetri dei finestrini del mio pulmino. Sentivo che le raffiche di
vento facevano dondolare il pulmino, come fosse una ninna nanna prima di
addormentarmi, ma il dondolio aumentava sempre di più finché diventò
insopportabile.
Fu così che mi svegliai di soprassalto, tutto sudato: ero
disteso sul divano di casa e guardai il
lampadario che oscillava da destra e sinistra, sentii qualcuno insistente con
voce terrorizzata che mi chiamava:
era mia madre; fuori un vociare
di tante persone e qualche grido di bambino attaccato alle gonne della propria
madre.
Quello che avevo vissuto in quell’isola era stato solo un
brutto sogno, ma in quel momento la realtà per gli abitanti di Udine e dintorni
era ben peggiore, era il 6 maggio del 1976.
Nico Sartori
Sempre più bravo Nico.
RispondiEliminaLa storia mi ricorda molto il film "Into the wild" diretto da Seann Penn, con le musiche del grande Eddie Vedder, un film che consiglio a tutti di vedere, ti sei ispirato a quella storia?
E bravo paesan, a go visto quel film tanti anni fa che varda ti me xero qusi desmentegà, go scritto sto racconto e dopo la Anna la me ga dito la stessa riflession che te ghe fato ti, solo alora me son ricordà de quel film. Comunque la storia la xera talmente bela che go vosudo pubblicarla lo stesso.
EliminaVeramente molto bella e scritta bene.
EliminaTra Muriel Barbery e Fabio Volo. Rispetto ai pezzi precedenti decisamente un salto letterario con giro carpiato. Parlando di gambe fratturate bisognerà stare attenti a non prendersi una storta.
RispondiEliminaCaro Philo,
Eliminaa furia di mangiare libri come le capre un giorno i miei scritti miglioreranno di sicuro. grazie
Carissimo Nico ancora una volta mi hai fatto sognare, qui da noi là dove l'Adda incrocia il Po c'è un posto che potrebbe fare al caso tuo: è l'Isola Serafini ricca di fauna e natura selvaggia con un particolare non da poco ..... è collegata alla terraferma da un ponte!!!!!!! Un abbraccio Floriana.
RispondiEliminaCarissima Floriana, appena ne avrò la possibilità farò un salto in quell'isola a darci un'occhiata, chissà che l'ambiente non mi suggerisca qualche nuovo racconto.
Eliminagrazie ciao