sabato 24 agosto 2013

Il pullmino


Avevo 22 anni, un’età nella quale tutto esplode, tutto diventa una meta, tutto sembra raggiungibile e niente fa paura, il fisico che diventa uomo,  la voglia di vivere e scoprire il mondo, i progetti per un futuro, l’ambizione di progredire, di progettare e di trovare quella strada  della vita che può darti tantissime soddisfazioni.
La mia vita andava avanti così di pari passo con la vita della nostra società, questa società sempre più frenetica, sempre più veloce, tutte le giornate scivolavano lisce come l’olio, non c’era nemmeno il tempo per assaporare  certi momenti  intensi. Stavo maturando dentro di me, in breve tempo, qualche cosa che non capivo, qualche cosa che sentivo intenso, ma che non riuscivo esattamente a identificare. Sentivo sempre di più il bisogno di evadere, da questa  vita frenetica, da questo spazio troppo piccolo che è riservato ad ognuno di noi, sentivo sempre di più il bisogno di rimanere fuori, fuori da tutti, fuori dal progresso, fuori dalla vita che ci stava incanalando nella routine di tutti i giorni.
Ecco quello che cercavo, qualche cosa che mi desse l’opportunità di creare uno spazio tutto mio, fuori dalla società e fuori dal caos quotidiano, volevo tornare un po’ indietro nel tempo. Volevo essere libero, volevo essere senza identità, non rintracciabile, non identificabile.
Così decisi di cercare un luogo che potesse darmi  questa sensazione.
Un giorno presi la macchina e mi diressi nelle grandi distese e praterie, girai parecchi giorni prima di individuare un punto dove fermarmi.  Percorrendo una strada che costeggiava un’immensa vallata attraversata da un grande fiume, mi accorsi che dentro questo fiume c’era un’isola molto grande, con una bella pineta, l’isola in quel momento non era attorniata dall’acqua del fiume, essa scorreva solo in un lato e  il fiume era quasi in secca.
Lontano dalla sponda c’era un piccolissimo villaggio, circa una ventina di case; la distesa attorno al fiume era grandissima, tutta pianeggiante, solcata solo da una strada sterrata che poi finiva per scomparire dietro le colline a nord della vallata. Scesi con la macchina nella piana e lungo la strada polverosa di terra rossa arrivai poco lontano dalla riva del fiume, dove davanti a me si ergeva un po’ più alta quest’isola.
Parcheggiai la macchina in un luogo nascosto, tolsi le targhe e le seppellii in una buca scavata appositamente, poi presi la tanica di benzina che avevo messo nel cofano cosparsi la macchina del liquido e appiccai il fuoco per cancellare ogni traccia. Dentro in macchina lasciai tutto quello che avevo, carte di credito, carta d’identità, patente di guida, insomma tutti quei documenti che potevano dare indicazioni se qualcuno fosse venuto a cercarmi. Avevo portato anche un po’ di provviste che portai, facendo più viaggi, sulla riva dell’isola. Mi misi lo zaino in spalla con dentro qualche indumento e ripercorsi per la quarta volta lo stesso percorso. Presi pure un fucile con le scatole di cartucce e delle altre cose che potevano servirmi nei giorni che sarei rimasto sull’isola. Così mi incamminai per attraversare quel fiume larghissimo che mi divideva dalla sponda dell’isola, avanzando vedevo l’isola che si ingrandiva, era coperta di vegetazione. Dopo un un’ora e mezza di duro cammino per il fondo del fiume tutto sassi e pietre taglienti arrivai alla riva dell’isola, faticai un bel po’ a salire e dovetti  sedermi per fare una pausa di mezz'ora, tale era la mia stanchezza. Erano le 16.00 del pomeriggio e il sole batteva ancora forte con i suoi raggi luminosissimi.
Mi incamminai per l’interno dell’isola, a prima vista la vegetazione era fittissima, c’erano dei resti di qualche baracca ormai demolita dal tempo, segno che qualcuno, tempo addietro, era passato di lì. Non c’era nessun sentiero ben evidente, solo qualche traccia del passaggio di qualche animale, nient’altro.
Ad un certo punto vidi in mezzo alla vegetazione dei colori molti vivi, e avvicinandomi, mi accorsi che in mezzo ad una piccola radura, c’era un vecchissimo furgoncino molto ruggine con tutti i finestrini molto sporchi ma intatti. Mi fermai pensando che ci poteva essere qualcuno, ma lo stato d’abbandono mi confermò che lì non avrei di sicuro trovato altro essere vivente. Così mi avvicinai finché toccai una delle portiere. Presi la maniglia e con forza tirai verso di me, la portiera cigolò, segno che era da molto tempo che nessuno apriva quel mezzo. Entrai e dentro trovai un luogo sporco, ma bello capiente, che mi rese felice: avevo trovato  la mia abitazione per quell’avventura che incominciavo.
Iniziai a pulire alla meglio per rendere il luogo  abitabile per la notte, la mia prima notte da solo, fuori dalla civiltà. Mi accorsi che il sole era già sceso da un bel pezzo e la luce incominciava a scivolare verso l’orizzonte per lasciare il posto alla notte e guardai l'orologio: erano le 20.00. Sistemai le mie cose in un angolo, presi il piumino che mi ero portato e lo distesi sopra l’ultima fila di sedili posteriori a mo' di letto. Estrassi dallo zaino tutte le candele che avevo comprato e ne accesi una per fare un po' di luce. Mi coricai e presi il libro che avevo incominciato la lettura qualche settimana prima. Lessi per un paio di ore, poi, stanco, soffiai sulla fiamma della candela che traballò, si agitò per un istante fino a spegnersi. Chiusi gli occhi e i miei pensieri volarono liberi nella fantasia.
Pensavo già al giorno dopo, pensavo che quella prima mattina non avrei avuto nessun orario da rispettare, nessun compito urgente da portare a termine, nessun obbligo di fare un bel sorriso al mio superiore, nessun orario fisso nemmeno per il pranzo o per la cena. Ero completamente libero, ma soprattutto era completamente libera la mia mente. Lei con i suoi pensieri andava di qua e di là come una palla da biliardo prima di andare in buca.
Con tutti questi pensieri, la stanchezza fisica e la tranquillità che sentivo dentro, mi addormentai di un sonno dolce come lo scorrere calmo e tranquillo dell’acqua a fianco dell’isola dov’ero.
La mattina non tardò ad arrivare e invece di essere svegliato come ogni mattina dal trillo di una sveglia, furono i raggi del sole a battermi sulla spalla e mi svegliai con un sussulto. Il chiarore del sole era quasi accecante, mi misi seduto sui sedili e mi stiracchiai. Avevo dormito benissimo, sentivo il fisico ben riposato e la mente libera da ogni impegno.
Mi vestii e scesi dal pulmino per andare lungo la riva del fiume per lavarmi un po’, al ritorno presi tra le provviste che avevo messo dentro il pulmino una bustina di latte in polvere e feci scaldare l’acqua sopra il piccolo fornello da campeggio. Di lì a poco incominciò a bollire pronta per versarci dentro la bustina di latte. Quando fu tutto pronto incominciai la mia prima colazione in quel posto sperduto e incantevole, con i finestrini aperti si sentivano gli uccelli cantare e qualche altro animale fare il proprio verso. Decisi che per pranzo avrei potuto pescare del pesce in quel fiume, mi munii di un lungo bastone abbastanza flessibile e ad una corda fine attaccai un amo, cercai tra i sassi dei vermi e mi recai sulla riva.
Non ci volle molto che un pesce abboccasse, ma al primo strattone della canna si staccò e se ne andò con il mio verme, fortuna volle che per pranzo avevo pescato il mio pesce e dopo averlo pulito lo misi sulle braci. Fu un ottimo pranzetto.
Nel pomeriggio mi ero prefisso di andare in esplorazione dell’isola, così chiusi, per modo di dire, la portiera del pulmino e mi inoltrai nel fitto bosco, senza una meta precisa. Notai, percorrendo  un sentiero, che non ero il primo ad abitare in quell’isola. Infatti trovai resti di vecchie palizzate quasi marce, legate assieme con dello spago, segno che tempo prima qualcuno aveva bivaccato come me in quel posto. Girai quasi tutto il pomeriggio senza però trovare anima viva, qualche lepre l’avevo vista così l’idea di prenderne una qualche giorno dopo balenò nei miei pensieri. Il tempo trascorreva veloce e le settimane passavano, avevo costruito delle trappole per le lepri e di lì a qualche giorno ebbi la fortuna di prenderne una. Quando la cucinai però il suo gusto sapeva troppo da selvatico anche se, piano piano, mi ci abituai.
L’estate stava passando ed eravamo già verso la metà di settembre, i colori incominciavano a cambiare, le foglie ai primi di ottobre diventavano rosse, poi gialle e infine marroni come la ruggine, gli unici che non cambiavano colore erano i pini e gli abeti, loro sempre verdi sempre svegli e attenti. Anche la temperatura non era più quella di prima, di primo mattino quando mi svegliavo si sentiva la frescura e per terra i sassi diventavano lucidi come fossero di vetro, coperti com’erano di rugiada, Anche gli uccelli e gli animali si vedevano sempre più di rado. L’autunno stava per arrivare, per annunciare che di lì a poco avrebbe lasciato posto all’inverno. Dovevo per forza controllare le scorte di cibo, dovevo trovare un sistema per riscaldarmi in quell’inverno, che forse sarebbe stato anche molto rigido, così con un po’ di ingegno e un po’ di fortuna riuscii a trovare l’occorrente.
Dopo qualche tempo ecco i primi fiocchi di neve, mista ad acqua, che sferzavano sui vetri del pulmino per poi ricoprirli e celarmi quel panorama incantevole. Una sera mi addormentai molto presto e al mattino quando mi svegliai mi resi conto che di neve ne aveva fatto parecchia, tanto che non riuscivo nemmeno  ad aprire la porta del pulmino, così a furia di spingere la porta riuscii ad aprila un po': c’erano 50 cm di neve!  Pian piano riuscii a farmi un piccolo varco per raggiungere il fiume e prendere un po’ di acqua per la colazione. Mi accorsi allora che tra i fusti delle piante saltellava un capriolo, una scena davvero straordinaria. Tornai al pulmino e mi preparai la colazione, poi decisi anche a malincuore di tornare dove prima con il fucile per ammazzare il capriolo e procurarmi  un po' di carne per l’inverno, ma di lui neanche l’ombra. Così tornai al pulmino, le mani vuote e completamente fradicio. L’inverno trascorreva, le giornate erano diventate cortissime, ma di lì non era mai passato nessuno e nessun rumore d’uomo aveva disturbato la mia tranquillità.
Qualche tempo dopo la neve incominciava a sciogliersi e si sentiva il ritorno della primavera, per cui ripresi la pesca lungo il fiume. Un giorno però cambiai posto di pesca e mi recai in un punto un po’ più alto del solito. La neve era tutta molle e camminare diventava un po’ difficile. Da quella posizione scivolai sui sassi tondi e bagnati e mi ritrovai giù nell’acqua gelida, mi misi seduto e cercai di alzarmi, ma sentivo che c’era qualche cosa che non andava, provai a toccarmi il torace, le braccia, tutto era in ordine, non c’era niente di rotto, ma quando misi le mani nelle gambe, sentii un forte dolore alla tibia della gamba destra e allora mi resi conto che la gamba era rotta. Non mi feci prendere dal panico, ma cercai di ragionare con freddezza. Ma come fare per tornare al pulmino? Di strada ne avevo percorsa parecchia, e anche se mi fossi trascinato, chissà quanto tempo ci avrei impiegato. Non c’era però altra soluzione, cosi pian piano, incominciai a trascinarmi facendo molta attenzione alla gamba. Finalmente raggiunsi il pulmino e faticai non poco per salirci dentro. Una volta salito mi spogliai  di tutti quei vestiti completamente fradici e mi rivestii con quelli asciutti, cercai da qualche parte dei pezzi di corda e pezzi di legno che mi servissero per bloccare la gamba in modo che non peggiorasse il danno fatto. Finito di legare i due pezzi di legno stretti avvolsi attorno dei pezzi di stoffa, in modo da tenere la gamba al caldo il più possibile, poi presi un bel pezzo di legno e ne feci una stampella per aiutarmi nei spostamenti. Non ci voleva un problema del genere!
Ora come potevo fare per sopravvivere in quelle condizioni?
Col passare dei giorni stavo maturando l’idea che la mia avventura fosse proprio finita, e che dovevo ritornare nella civiltà se volevo salvarmi. Faticavo moltissimo da solo, ma soprattutto erano i dolori che a volte erano  lancinanti. Mi accorsi una sera, dopo aver sfasciato la gamba, che a metà polpaccio c'era un colore strano, tutto attorno si era creato un anello color rosso e nella parte interessata il muscolo era diventato tutto duro, in pratica aveva perso la sua elasticità.
Cercavo di non pensarci, ma l’idea di tornare fuori dall’isola mi teneva sveglio anche di notte, i dolori erano sempre più frequenti e più forti, la gamba incominciava a gonfiarsi, insomma tutto incominciava ad andare storto. Di provviste per mangiare non ne avevo abbastanza per andare avanti molto in quelle condizioni, tutti questi fattori mi indussero e convinsero sempre di più a ritornare da dove ero partito, altrimenti, di sicuro, non ne sarei uscito vivo.
Così, una mattina di sole mi svegliai e la decisione era già presa: dovevo tornare sull’altra riva e cercare aiuto, forse qualcuno poteva passare di lì. Raccolsi il minimo indispensabile, lo misi dentro lo zaino e con l’aiuto della mia stampella mi incamminai nella direzione dalla quale, molti mesi prima, ero venuto. Barcollando tra i sassi, con qualche imprecazione per i dolori alla gamba, mi sembrava di  sentire un rumore strano e sempre più forte man mano che andavo avanti. Un rumore come di aria che striscia tra le fronde dei pini, un brontolio quasi impercettibile. Ogni tanto mi sedevo per riposare un po’, poi ripartivo e cercavo con lo sguardo quel traguardo che mi avrebbe portato alla salvezza. Dopo un paio di ore arrivai alla riva, e li mi accorsi quanto fu devastante lo stupore per quello che si presentò davanti ai miei occhi. Per non cadere dalla disperazione mi sedetti su un grosso masso, rimasi sbigottito, amareggiato, deluso e sconfortato: i miei occhi mi facevano vedere un mare di acqua che scorreva impetuosa, mi resi conto subito che non era proprio possibile raggiungere la riva opposta. Non avevo calcolato che il disgelo della neve aveva provocato una piena del fiume, che di sicuro sarebbe durata per molti ma molti mesi. Sconsolato, triste mi incamminai per la strada del ritorno e quando raggiunsi il mio pulmino, sfinito, entrai, mi sdraiai sui sedili e mi misi a piangere: ero in trappola come quella  povera lepre alla quale avevo teso la trappola.
I giorni passavano e la situazione della mia gamba peggiorava di giorno in giorno, la zona dove prima era rosso ora era diventata quasi violacea, sembrava che la gamba incominciasse a marcire, mi sentivo di tanto in tanto dei brividi di freddo, segno che avevo di sicuro la febbre, e quel colore violaceo della gamba significava infezione. La mia vita stava  diventando un calvario, non riuscivo quasi più a reggermi in piedi, non mangiavo da giorni e mi sentivo veramente esausto e stanchissimo, sentivo la febbre salire ogni minuto che passava. Decisi  di prepararmi un letto un po’ più comodo e quando ebbi finito mi ci sdraiai sopra, ero arrivato alla conclusione che di lì a poco la mia vita sarebbe arrivata alla meta finale. Mi addormentai e nella mia memoria ripassavo tutti quei giorni che avevo trascorso in quell’isola. Da quella posizione forse, all’apertura della caccia nell’autunno qualcuno sarebbe passato di lì e mi avrebbe ritrovato. Avrebbe trovato un corpo e chissà quante sarebbero state le domande:
Disteso  sopra i sedili posteriori che fino a quel momento mi avevano fatto da letto, mi rilassavo, ma sentivo fuori lo sferzare del vento e della pioggia che si infrangeva sui vetri dei finestrini del mio pulmino. Sentivo che le raffiche di vento facevano dondolare il pulmino, come fosse una ninna nanna prima di addormentarmi, ma il dondolio aumentava sempre di più finché diventò insopportabile.


Fu così che mi svegliai di soprassalto, tutto sudato: ero disteso sul divano di casa  e guardai il lampadario che oscillava da destra e sinistra, sentii qualcuno insistente con voce terrorizzata che mi chiamava:  era  mia madre; fuori un vociare di tante persone e qualche grido di bambino attaccato alle gonne della propria madre.

Quello che avevo vissuto in quell’isola era stato solo un brutto sogno, ma in quel momento la realtà per gli abitanti di Udine e dintorni era ben peggiore, era il 6 maggio del 1976.
Nico Sartori

7 commenti:

  1. Sempre più bravo Nico.
    La storia mi ricorda molto il film "Into the wild" diretto da Seann Penn, con le musiche del grande Eddie Vedder, un film che consiglio a tutti di vedere, ti sei ispirato a quella storia?

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    1. E bravo paesan, a go visto quel film tanti anni fa che varda ti me xero qusi desmentegà, go scritto sto racconto e dopo la Anna la me ga dito la stessa riflession che te ghe fato ti, solo alora me son ricordà de quel film. Comunque la storia la xera talmente bela che go vosudo pubblicarla lo stesso.

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    2. Veramente molto bella e scritta bene.

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  2. Tra Muriel Barbery e Fabio Volo. Rispetto ai pezzi precedenti decisamente un salto letterario con giro carpiato. Parlando di gambe fratturate bisognerà stare attenti a non prendersi una storta.

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    1. Caro Philo,
      a furia di mangiare libri come le capre un giorno i miei scritti miglioreranno di sicuro. grazie

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  3. Carissimo Nico ancora una volta mi hai fatto sognare, qui da noi là dove l'Adda incrocia il Po c'è un posto che potrebbe fare al caso tuo: è l'Isola Serafini ricca di fauna e natura selvaggia con un particolare non da poco ..... è collegata alla terraferma da un ponte!!!!!!! Un abbraccio Floriana.

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    1. Carissima Floriana, appena ne avrò la possibilità farò un salto in quell'isola a darci un'occhiata, chissà che l'ambiente non mi suggerisca qualche nuovo racconto.
      grazie ciao

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