venerdì 30 agosto 2013

Il ladro di gelati


       Tanti anni fa intorno al 1930, le distanze tra i nostri paesi sembravano infinite; era un avventurarsi in sentieri di campagna che seguivano con rispetto il profilo dei campi e delle colture di grano, di vite o semplicemente di erba. Grandi alberi di gelso e di ciliegio, gettavano la loro ombra tra i filari, di cui qualche viandante approfittava per stemperare la fatica del cammino. Le strade erano bianche, percorse da carri lenti tirati da buoi o cavalli, che lasciavano i solchi profondi delle ruote di ferro. Profonde buche come piaghe  e sassi costringevano a degli improbabili zig zag. La polvere si alzava d’estate tra il ronzare delle cicale e lo sguardo attento di timidi ramarri. D’inverno il ghiaccio cicatrizzava quelle ferite con un velo spesso e resistente. Ai bordi di questi “fiumi secchi”, grandi siepi ed alberi tagliavano la vista dell’orizzonte e costringevano gli occhi in un tunnel di verde riposante, colorito di fiori e dipinto di voli di uccelli , di nidi, di bacche e di profumi. Le stagioni cambiavano questo scenario, rendendolo scarno e povero d’inverno per poi imperlare quei rami, di fiori e di profumi verso primavera. Le foglie coloravano l’estate, finchè di nuovo l’autunno diradava la selva per filtrare il debole sole. 
Il lunedì era giorno di mercato a Thiene, per questi sentieri e strade si muovevano dai paesi e dalle contrade, da soli, o a piccoli gruppi, i contadini con le loro mercanzie. Dentro grandi ceste di salice intrecciato tenevano qualche capo di pollame, verdure appena colte, frutta di stagione,  sementi,  forme di ricotta o di formaggio. Povere merci che  venivano vendute o barattate con ciò che più serviva in casa: sale, zucchero, qualche scampolo di stoffa, quasi mai con cose che non fossero necessarie all’economia della famiglia. 
Mia nonna Francesca partì di buon’ora  dal paese, da Fara, a piedi, in quel mese di luglio, prima che il caldo le imperlasse la fronte di sudore. Contava di essere a Thiene verso le otto, un’ora di poco affollamento, per  trovare un posto in cui esporre la merce e di buone occasioni per vendere le sue cose: due polli e qualche cartoccio di fichi e di prugne. Discese svelta l’erta del paese, tra i campi e le siepi, presto si trovò all’imbocco del ponte sull’Astico in quel di Zugliano.  Passò lesta tra le assi sconnesse di legno, gettò una sguardo giù.  Poca acqua , la stagione era secca, come poche negli ultimi anni; il torrente era un rigagnolo fiacco, che a malapena spingeva il suo andare tra i sassi. Verso Centrale, colse qualche mora selvatica per “sgarbarsi” la bocca, si fermò un attimo per la pipì dietro un cespuglio, poi via ancora, spostando ora a destra ora a sinistra il suo fardello che diventava sempre più pesante. Arrivò a  Thiene che dal campanile udì otto rintocchi di campana: “Come previsto” pensò. Si infilò lesta  tra le viuzze del centro e si diresse all’angolo di piazza “Umberto primo”, ora Chilesotti; non c’era ancora ressa, depose la sua mercanzia, dando un pò di sollievo alle sue braccia stanche e formicolanti. I polli si agitavano forte, coperti dal telo rosso e bianco e la nonna cercava di tenerli fermi; per fortuna li vendette in fretta, come in fretta vendette il resto della cesta, i fichi e le prugne. Giornata fortunata, pensò ringraziando Iddio. Né ricavò un gruzzoletto di grossi soldoni in rame con l’effigie del re, li racchiuse nel fazzoletto con un nodo e lo fece sparire nelle tasche ampie del lungo grembiule nero. Si recò in una piccola drogheria che vendeva un pò di tutto e comprò un cartoccio di sale, un cartoccio di zucchero e  dell’olio per lampade da illuminazione. Le rimase qualche centesimo, pochi spiccioli. A casa aveva quattro bambini, due maschi e due femmine. Pensò a loro con tenerezza, con dolcezza. Proprio in quel momento passava un carrettino colorato, spinto da un signore che gridava a voce alta:” Gelati, gelati buoni, gelati per i vostri bambini”. Ecco, disse tra sé, comprerò i gelati ai miei bambini, saranno contenti, non li hanno mai assaggiati, roba da signori in quel tempo. Sì avvicinò all’uomo del carretto, acquistò quattro coni con due palline ciascuno, i gusti non erano tanti, cioccolato e panna, uno bianco, uno scuro. Li mise sulla cesta in equilibrio  tra i cartocci di sale e di zucchero, coprì la cesta con lo straccio che s’era portata per i polli, perché nessuno vedesse quelle rarità e s’incamminò lesta ed orgogliosa.  Ripercorse in fretta la strada, superò dei gruppetti di donne, che pian piano tornavano con le loro mercanzie, non vide le more, la pipì la tenne. Ormai s’erano fatte le undici, il caldo colava la fronte di sudore e l’afa tagliava il respiro, ma non vedeva l’ora di dare quel ben di Dio ai figli. Ritagliò i campi della mattina, riguadagnò il ponte sull’Astico, l’acqua le fece ricordare che aveva una sete feroce e la gola secca dalla polvere, ma via, via. Arrivò trafelata, rossa in viso in prossimità del paese che la campana rintoccava dodici colpi. Quando affrontò l’ultima salita che la portava a casa si vide correre incontro i bambini, chiassosi ed ignari della sorpresa. I più piccoli davanti, Lina e Virginio, dietro Giovanni e Maria. Erano contenti, facevano salti di gioia . “Venite, venite, ho una sorpresa per voi, chiudete gli occhi”, disse la nonna. Entrarono subito nella grande cucina, era fresca, fuori si soffocava, posò la cesta sul grande tavolo, aspettò che tutti fossero intorno prima di scoprire la mercanzia. Poi con un gesto repentino tolse il telo. Tutti gettarono lo sguardo bramoso dentro il contenitore, ma non videro che i due cartocci e quattro coni vuoti, la cialda desolatamente secca; delle palline bianche e nere nemmeno l’ombra. Erano scomparse. Grande fu lo sgomento dei bimbi, ma ancor di più quello della nonna, che raccolto il fiato che le restava dalla stanchezza e dalla delusione gridò al marito: “Omo, omo, (così chiamava il marito Giovanni) mi hanno rubato i gelati e non me ne sono accorta, ma quel che è peggio, quei villani mi hanno lasciato le sgusse”. Il nonno arrivò lesto, guardò, un sorriso gli dipinse il viso e disse: “I gelati se li è mangiati luglio, col suo calore”. “Chi è questo maleducato di luglio, lo conosci per caso?” “No, è il calore di questo mese che ha fatto sparire i gelati”. Si sciolsero tutti in un sorriso, dolce come il gelato che non avevano mangiato, come l’ingenuità della nonna.  Dolce, ingenua nonna, gente di altri tempi, che vive nella tenerezza del ricordo.



Maurizio Boschiero



4 commenti:

  1. Bellissimo racconto Maurizio! Una tale "ingenuità" al giorno d'oggi sembra impossibile...si vede che le cose sono cambiate... ma anche i tanti sacrifici fatti in passato non sono più gli stessi oggigiorno e sembrano pure loro impossibili...come stai Maurizio sei guarito? Un caro saluto.

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  2. Ciao Mauizio, riesci sempre a far riemergere nella mia mente tante ricordi analoghi, ma quanto bello leggerti. ciao nico

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  3. Ciao Maurizio mi torna alla mente il gelato da CINQUE LIRE (quello da QUINDICI LIRE ho potuto godermelo solo quando sono stata operata alle tonsille). Oggi con TRE EURO (cioè circa SEIMILA LIRE) ci comperi a malapena un cono con 2 gusti!!!!!!I tuoi racconti sono sempre favolosi, salutoni Floriana

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  4. Sta ingenuità mi fa... "sciogliere" come i gelati...

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