“Me popà si sugò” il sudore dalla fronte con la mano sinistra, sulla destra aveva “il segon”, ma non era tanto convinto di segare quella “tola nova”. “Ciò, ghe dispiaseva” tanto rovinare quel “tolon” bello dritto e sensa ciodi, che da poco si era procurato. “Me sa”, che lo aveva fregato a qualche impresa di “murari”, perché tirar fuori tutti quei soldi per una “tola” gli ”spussava” tanto, allora si era servito. Questo lo pensavo io, ma conoscendo il tipo… restavano pochi dubbi. In quel momento eravamo in scantinato per dirla in italiano, in realtà un “camaron” al pian terreno della nostra casa, che serviva da camera per mia nonna da Fara quando veniva a trovarci o da specie di ripostiglio quando lei non c’era.
Aveva il pavimento di “solaro” che teneva caldo e le pareti imbiancate malamente “di calsina” piene “de pioci puldini”, perché ospitava anche le gabbie degli uccelli, che mio padre utilizzava per andare a caccia e che al tempo giusto “mettea in mua”. Quella “ tola “ era parte di una scansia che faceva da “armaron” per mia nonna, ma anche da rifugio “peccatorun” per tutto quello che poteva servire.” “Dai taja popà che al Còsto i ne spèta” dissi io quando capii che l’operazione andava per le lunghe, tanto più che fuori era notte e nevicava forte.
Mio padre finalmente si decise, dopo aver guardato “par aria” e brontolato qualcosa, in “do e do” quattro, divise l’asse in due parti di circa due metri l’una. Si caricò poi sulla schiena i pezzi di legno e uscì con me, per mano, nella notte fonda e nella neve. Chiuse la porta a chiave e “stando attenti a non sbrissiare” ci incamminammo per la salita che portava nella casa dei miei nonni materni.
Tutta quella strana operazione a quell’ora tarda e con quel tempo da lupi serviva per portare “la tola” da mio nonno Bepi Bon che proprio quel giorno era morto, dopo due tre giorni che si era sentito male, proprio il giorno della “Befana” del ’62. Aveva 84 anni, una vita spesa tra le stoffe ed i mercati, che batteva per vendere le sue mercanzie.
La dovevano collocare, sotto il corpo del morto per tenerlo “stenco” , nella camera ardente che stavano allestendo in camera da letto, che si trovava sopra la bottega di merci varie che i miei nonni tenevano in via Còsto a Chiuppano. Sulla salita seguii passo passo mio padre cercando di “pescare” dove lui aveva lasciato “le peche”. Tutto era silenzio e bianco; una piccola lampadina illuminava il “canton” della casa di Tony della Maria “lavandara” e un’altra illuminava proprio la casa dei Bon .
Lontano sullo sfondo oltre l’Astico , Caltrano sotto la neve sembrava un presepio con qualche casa illuminata fiocamente.
Arrivammo affaticati e pieni di freddo, io anche impaurito per quello scuro, che per me aveva il colore e il mistero della morte. Del resto avevo otto anni, un bambino, che per la prima volta si trovava ad aver a che fare con la dipartita di un congiunto. Avevo timore di entrare ora in quella casa che era stata la casa dei miei primi giochi con mio cugino Armando, dei giorni belli con i miei nonni e i miei zii, della televisione, perché a casa mia ancora non l’avevamo. Sentivo più mia quella casa che non casa mia stessa, mi piaceva quel mondo e quel posto. Ora avevo paura di vedere il dolore negli occhi di mia madre e di mia nonna, di sentire i pianti di mio cugino, di sentire lo sgomento dei miei zii, mi riempiva di tristezza il vuoto che lasciava il mio nonno.
Preso da questi pensieri entrai nella casa: anche la luce mi sembrava triste; mio padre portò dentro “le tole”. “A ghemo xà fato, Joani” disse mio zio Ninin un po’ contrariato.
“Ma quanto ghe gavìo messo” aggiunse l’altro mio zio Rino. Mio padre balbettò che c’era la neve che avevamo fatto fatica per la strada, mi sa che gli bruciava, dopo aver sentito quelle parole, ancora di più l’ aver rovinato “la tola”. Incassò senza aggiungere altro e si mise in un angolo. Avevano “cavato” una porta ed adagiato sopra il corpo di mio nonno. Lo avevano sistemato in camera vestito con l’abito buono che gli avevano infilato Bortolo Rocco e Stefano “pastorelo”. Nella grande stanza che era sul retro della bottega c’erano i parenti con la faccia triste, qualcuno piangeva, qualche altro commentava: ”Poro Bepi che bon omo”… “la vita la xé questa no se pol farghe gnente” ecc… ecc… Da una parte ancora i segni del Natale appena passato, il presepe in un angolo con le statuine ed i Remagi, che erano stati messi proprio il giorno della “Befana”. C’erano anche i giocattoli che erano arrivati in quei giorni, ma che ci furono assolutamente proibiti, visto il momento triste. Vietata anche la televisione, specialmente Carosello, a cui tenevo tanto. Era lutto, proibito giocare, proibito guardare la televisione, proibito ridere. Si poteva solo piangere e partecipare al dolore. Io sì che ero addolorato, ma forse lo ero di più, perché non potevo avere quel ben di Dio che la “Befana “ aveva portato.
Quell’anno era stata larga “de manega”; a casa era arrivato un trenino “Lima” bellissimo, con gli scambi e i binari da montare, la stazione e anche gli alberi da mettere lungo la ferrovia, poi era arrivato un pallone e, proprio a casa dei miei nonni al Còsto, un meccano con tutti i pezzi da montare in un scatola di cartone, che profumava di vernice e di nuovo.
Niente, tutto bloccato non si poteva toccare nulla. Io stavo in disparte, non potevo quasi parlare, e dovevo assumere un’aria più che potevo afflitta. Cercai di mettere il viso tra le mani chino verso terra e in quella posizione meditabonda pensai ai momenti con mio nonno. Ricordavo quando lo vedevo arrivare sul “mosquito” lungo il sentiero che costeggiava la ferrovia e si fermava a salutarmi se mi vedeva sul campo con mio padre intento a lavorare la terra. Lo ricordavo con leggera sofferenza, la volta che da “Merica” voleva offrirmi una gazzosa e non c’era stato verso che io la accettasi.
Le volte che, piano piano ormai impedito nel movimento, arrivava appoggiato ad un bastone a casa mia o le volte che, brontolando, mi lasciava fare con mio cugino le slitte che ci servivano per scendere sulla neve nella “busa de Bastianon”.
Dovevo anche cercare di non pensare alla “tola” di mio padre, perché mi veniva da ridere e se fosse successo sarebbe stato il pandemonio. Mio padre in un angolo era triste, certamente per mio nonno, ma anche per la sua “tola” sprecata. Arrivarono ancora persone, e tra preghiere, discorsi su come doveva essere la veglia, qualche bicchiere di vino, e pianti, arrivò il momento di tornare a casa. Avevano deciso che la veglia la facevano due uomini che avevano dotato di un paio di bottiglioni “de vin bon per darsi corajo”. Mi sa che alla mattina erano pieni più di vino che di paura, ma faceva parte del rituale. Prima di uscire di nuovo sulla neve per tornare a casa, mi accompagnarono nella camera mortuaria che intanto era stata completata. Io non volevo tanto andarci, mi faceva paura pensare di dover vedere per la prima volta un morto. Mi presero per mano e quasi mi trascinarono per le scale che portava alla camera ardente al piano di sopra.
C’era una penombra scura che mi inquietava sulle scale, ma quando arrivai nella camera fu ancora peggio. Il lampadario di opalina appeso ai travi del soffitto era stato foderato di carta viola, che dava un effetto proprio funebre. Le tende erano state cambiate con dei drappi scuri bordati d’oro, che incupivano ancora di più quella tristezza; sul letto sostenuta dalla porta la salma. Arrivai a guardare fino al gonfiore della pancia poi chiusi gli occhi e non vidi più niente. Avevo troppa paura. Mi ricordai che sul pavimento c’era una piccola botola che mi avevano sempre raccontato contenesse una pistola perché una volta la bottega aveva subito la visita dei ladri in una notte di pioggia e di vento. Mi nonno si era dotato dell’arma , perché se fossero tornati magari poteva difendersi. Era sempre stata una storia che mi aveva impressionato come un fumetto e mi persi col pensiero dentro quella botola, dietro a quella storia. Venne il momento di partire, recitai in fretta una preghiera e mi feci il segno della croce, avrei voluto vedere dentro la botola, ma non mi fu possibile. Tornai a casa con mio padre che nevicava ancora, lo seguivo piano con le scarpe che affondavano nella neve sotto il mio peso, lui anche sotto il peso delle “tole” che riportava indietro. “Varda che disprisio na tola nova, rovinà!!” commentò sconsolato.
“Stà tento a no sbrisiare” e non aggiunse altro, scese il silenzio profondo come la notte, e misterioso come la morte di mio nonno. Solo un cane abbaiò in lontananza .
Il giorno dopo, mio padre andò con Giano Rocco ad attaccare “le pigrafi” in giro per Chiuppano per Caltrano, Carrè e Piovene. Le attaccavano nei bar e le osterie, questi erano una volta i posti in cui esponevano le tristi carte.
Ad ogni osteria mi sa che bevevano un bicchiere, per non far brutta figura di entrare senza bere niente. Passavano i bar ed aumentavano “i goti” che avevano in corpo, finché quando furono a Piovene al quartier De Gasperi, complice dissero loro la nebbia si persero intorno ad un caseggiato. “Tribolarono” un po’ per uscire da quell’impaccio e arrivarono a casa tardi “ con una bala roja” Mia madre si arrabbiò molto perché disse, “non era il momento di comportarsi così”, poi lasciò perdere, forse aveva poca voglia di discutere in quei giorni. Non ricordo altro di quei giorni, non ricordo la cerimonia in chiesa, perché forse non mi hanno nemmeno portato. Ricordo solo che dissero che per la neve , il carro funebre non riusciva ad arrampicarsi su per la salita erta del cimitero. Dovettero spingere in parecchi per arrivare lassù. Mia madre commentò: “Puareto me popà non volea nar soto tera”. Io per anni non volli visitare quella tomba, non riuscivo a sopportare l’idea che mio nonno fosse morto. A me è rimasto questo senso di tristezza e di riso che forse accompagnano tutti i momenti della vita e, quando si è bambini, si fissano nella memoria e ci accompagnano per sempre.
Maurizio Boschiero
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