Il mare, la distesa di acqua che da sempre incanta i poeti e sa dare parole agli amori che nascono e che muoiono, che confonde la vita e la morte, per me ha uno strano sapore di infinito sgomento. Quelle onde che carezzano la riva e in pochi passaggi cancellano le orme impresse sulla sabbia, sono la metafora della vita.Si vive lasciando una piccola impronta, che dopo poco tempo sparisce dentro l’oblio eterno del niente.Nasce da lontano questa mia sensazione, questa angoscia che mi prende quando sono al mare, davanti all’infinita distesa di blu. Nasce con un viaggio ed uno sputo sul vetro di un’auto e forse su quegli anni magri, che avevano ancora sul collo l’alito freddo della guerra.Mio zio Rino “spuò” sul vetro del parabrezza della Topolino, che lucidava da quasi due giorni.Era diventata tutta lustra, anche i pochi “moscolini” sparirono sotto lo straccio di pelle di daino, che i buoni autisti tenevano sempre a portata di mano. L’aveva controllata per bene anche nel motore, poi l’aveva caricata con borse di verdura dell’orto, che in luglio era abbondante: “pomodori, sucùi, teghe, seóle, melansane, pevarùni, salata, pérseghi, peri”riempivano ogni spazio disponibile; sui sedili restava appena lo spazio per me, mio cugino Armando e mia zia Eleonora. Caricò anche l’anguria tonda, con la scorza verde scuro, comprata da “pumi boni”, dopo aver fatto fare “el tassélo” per verificarne la dolcezza. Se avesse potuto, mio zio, avrebbe portato anche la gallina “verusolà che teneva nel punàro ” per le uova e il cane Lessi, il Collie rosso e bianco come quello della televisione; l’arca così, sarebbe stata completa.Dovevamo essere autosufficienti per i 15 giorni di mare; forse aveva ancora in testa le idee autarchiche che per qualche anno nel ventennio avevano guidato l’economia della patria e delle famiglie. Un sacco “de panbiscòto”, qualche bottiglione di vino, un termos di caffè e una bottiglia “de acqua de Vissì” completavano la sussistenza. Si aggiungevano anche una pompetta per il flit contro le zanzare e due camere d’aria di camion rappezzate per farne due salvagenti. Più che una comitiva in gita eravamo un carico di ortaggi, come quello di un “frutaròlo” che andava al mercato. Partimmo di buon’ora in una mattina di fine giugno. Io salutai mia madre piangente, chissà come immaginava il mare, chissà a che distanza e a quali pericoli dovevamo andare incontro. La povera donna, che non aveva mai visto la grande distesa azzurra e che aveva girato come una “sucàra sinquantina”, mi tormentò una settimana con mille storie. Mi raccomandò mille volte di stare attento, di restare sempre accanto a mia zia e di non andare nell’acqua alta, magari a “negàrme”. Pareva dovessimo andare in capo al mondo, in realtà eravamo a poco meno di 100 km, a Sottomarina, in cui si diceva che l’aria era ricca di iodio.Era la prima volta che io mi allontanavo da casa mia e dalla mia famiglia; in particolare mi dispiaceva di lasciare le mie sorelline, i miei piccoli giochi tra i campi e le siepi, tra l’orto e i “punari”. Era però importante per me qualche giorno al mare, troppe volte mi assaliva la febbre e mi disturbavano le “tonsille”; l’aveva sentenziato il dott. Pilla: “Ghe vole el mare par sto toso qua”,specialmente dopo l’ultimo febbrone a quaranta che mi aveva fatto ”parfìn savariare”. Anche mio cugino, di un anno più grande di me, era cagionevole di salute: era cresciuto in fretta come i “sucùi” ed era diventato in poco tempo un “camélo grande e grosso“, come dicevano in casa. Io temevo, che potessero vestirci da fratini, come era in uso allora per ottenere la grazia della salute, votati a qualche santo. C’era in paese un ragazzo che per un anno aveva indossato il saio e alla fine si era sanato, ma tutti lo “cojonavano” e credo fosse più difficile sopportare le beffe dei coetanei che la malattia stessa. Noi ragazzi prendemmo posto sul sedile posteriore, tra la verdura e il povero bagaglio. Mio zio dopo aver “spanto acqua” contro il muro dell’orto si mise al volante, accanto a mia zia che aveva inforcato gli occhiali da sole. Tenevo tra le gambe un “russàc” con dentro qualche paio di mutande, delle canottiere bianche e gli slip da bagno che poi erano un pezzo del costume di mia zia a bolle blu ed arancione. Portavo con me anche un cappelluccio di paglia con scritto sul davanti “Raggio di sole”, che era una marca di mangimi e me lo aveva regalato mio cugino Alcide “del mulìn”. Ci raccomandarono di non “ramenarci” troppo sui sedili posteriori, per non rovinare la roba, ma non era facile star fermi e ogni tanto cercavamo di “tontonarci”, ma ci riprendevano subito perché non dovevamo distrarre il guidatore.Lungo la strada vi erano ancora i grossi paracarri di pietra di una volta e i lunghi filari di platani, piantati nel ventennio; gettavano un’ombra fresca sulla carreggiata. Qualche cartellone pubblicitario attirava la nostra attenzione, reclamizzava i prodotti di quel tempo: la brillantina “Linetti”, il lucido “Brill”, i vestiti “Lebole”, la cedrata “Tassoni” e il “Cynar” che era il liquore “contro il logorio della vita moderna”. Queste reclame davano un po’ di colore a quegli spazi sospesi tra il verde dei campi e le case, circondate dagli orti. Non c’erano ancora molte costruzioni lungo le strade, lo scempio dei campi con le colate di cemento verrà dopo pochi anni, ma in quel momento un viaggio era proprio la scoperta degli spazi che parevano immensi; delle praterie che ricordavano il West, come quelle che si vedevano nei film che passavano alla televisione o al cinema parrocchiale.Mio zio, se si concedeva qualche distrazione o si “imbaucàva” un attimo, veniva subito ripreso dalla moglie. Quando poi si oltrepassarono le sbarre del casello di entrata in autostrada, la sua attenzione aumentò e nulla lo distrasse più; pareva fossimo su una pista di lancio o in un circuito automobilistico ad alta velocità. Si mosse un attimo quando superò un’auto di suore e si fece il segno della croce cercando di farsi imitare da noi ragazzi, ma non lo ascoltammo. Tutto era sottilmente allegro o almeno, a me pareva, ma anche immalinconito dal distacco dal nostro mondo. Mi trovai a pensare alla mia casa che si allontanava, a mia madre in lacrime, alle ciliegie che “varedavano”, allo sceneggiato tv “Thierry la Frond” che mi piaceva tanto, alle mie sorelline che ora giocavano senza di me, a mio padre che, “poro gramo”, mi avrebbe portato volentieri all’Astico per “sparagnàre” qualcosa e mi venne il groppo in gola.Arrivammo a destinazione verso mezzogiorno che il sole già picchiava forte, dopo solo una tappa per strada per far “pissìn” e per un caffè dal termos col tappo “de surlo”.Ci accasammo in un vicoletto contorto del centro storico di Sottomarina, che si chiamava “Calle Cucchi”; sembrava un labirinto scuro con le finestre delle case che davano sul vicolo, da dove si poteva scorgere l’interno di ogni stanza. Vi era una strana atmosfera rotta, di tanto in tanto, da pianti di bambini e dal vociare di persone che però, non si scorgevano. Profumi di cucina e di cibi inondavano l’aria: odori intensi, a volte fastidiosi. Cambiava anche il modo di parlare, un dialetto comprensibile ma di accento diverso. La radio nelle case sparava le canzoni di moda: sentivo “Abbronzatissima”, “Sapore di sale”, “Stessa spiaggia stesso mare”; non è che mi piacessero molto, ma mi riportavano in quel posto in cui tutto era nuovo per me. La stanza in cui abitammo per quei giorni era un buchetto incastrato in fondo ad un corridoio in cui a malapena potevano entrarci due letti, uno matrimoniale per i miei zii e uno da una persona per noi ragazzi che ci sistemammo uno ai piedi dell’altro con un tormento notturno che lascio immaginare. Dormivamo per sfinimento e per stanchezza, quando proprio non ne potevamo più di “tontonarci”.La verdura che ci eravamo portati la sistemammo parte nell’armadio e parte nel bagno, ingolfando il già poco spazio disponibile. Il primo giorno che andammo in spiaggia mi fece uno strano effetto quella distesa di acqua, mi sgomentava e mi impauriva allo stesso tempo. La sabbia sui piedi mi dava un fastidio “can” e oltretutto “broàva come no so cossa”.Non capivo come facessero quei signori che facevano le sabbiature sotto quei cumuli, che parevano le tombe messe in fila di un cimitero. Gli ombrelloni gettavano un po’ di ombra sulle sdraio colorate, su cui stavano distesi corpi bianchi e grassocci inguainati in costumi un po’ ridicoli . Mi imbarazzavano da morire quelle mezze nudità di donne, quei seni mal contenuti in reggiseni stravaganti e colorati, non sapevo dove guardare e spesso tenevo lo sguardo basso. Come mi imbarazzava quel costume da donna che indossavo, a forma “de balonsìn”. Penso che ridessero anche gli ombrelloni e poi con quel “capeléto del mangime”…..” Sembravo “el madro” che la faceva da padrone nel mio cortile. “Maria Vergine! Sa ghe penso anca desso me vien i sgrìsoli”. Dovette rendersi conto della ridicolaggine anche mia zia, se dopo qualche giorno mi portò a comprare uno slip da bagno con i colori dell’Inter, la mia squadra preferita. Toccai il cielo con un dito: finalmente mi sentivo a mio agio. Ci comprò anche un materassino gonfiabile che sostituiva la camera d’aria e mio cugino ed io eravamo felici. Il casotto del bagnino era in alto e dominava la spiaggia; un piccolo bar ricavato da una baracca con il tetto di paglia distribuiva qualche caffè e pochi gelati, ma all’esterno aveva il Juke box che, a pagamento, diffondeva le canzoni alla moda di quella estate. Qualche fotografo passava per gli ombrelloni per le foto ricordo, ma pochi erano disposti a posare per l’obiettivo: costava troppo! Mia zia si era convinta che le fotografie non venissero gran che bene, ma alla fine di quei giorni ci fece scattare un paio di foto che ancora oggi sono in fondo ad un cassetto di casa. Mostrano due ragazzi magri come “canàri“ dentro l’acqua, sul materassino. I giorni parevano eterni, passavamo il tempo in acqua, sempre sotto lo sguardo vigile della zia o a giocare sulla sabbia con secchielli e palette. Io avevo fatto anche amicizia con un ragazzino un po’ più grande di me, che la sera dava una mano come cameriere in un ristorante. Si chiamava Teo e veniva da Longarone, in provincia di Belluno. Era ospite di certi parenti albergatori perché aveva bisogno di mare e la sera per ricambiare, si districava tra i tavoli con piatti e portate per guadagnarsi il vitto. Nonostante ciò, mi immalinconivo lo stesso quando pensavo a casa mia.Mi mancava la terra scura e argillosa, la frescura dell’erba, la mia bicicletta rossa. Ero attratto invece, dagli strilloni, che alla mattina passavano in spiaggia con i giornali gridando a squarciagola: Il Corriere della sera, Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giornale di Vicenza, Il Gazzettino. Mi intrigava quel nome: Il Resto del Carlino. Viaggiavo con la fantasia, mi sembrava un titolo di un giornale per ragazzi. Gridavano anche i titoli delle notizie più importanti e ricordo un giorno che annunciarono: “Si è sparato Gino Paoli, il cantante in fin di vita, una pallottola si è fermata vicino al cuore”. Era il 13 luglio 1963, restai molto impressionato, lo ricordo come fosse ora. Quella notizia rimase conficcata nella mia memoria come la pallottola di Paoli . Sotto l’ombrellone, le donne spaziavano con le chiacchiere dai pettegolezzi alla cronaca, mischiavano il sacro ed il profano, parlavano del paesetto e del mondo. Si scandalizzavano di Mina, che aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio; anche al mio paese, se una ragazza rimaneva incinta, parlavano per mesi dello scandalo, come fosse accaduto un disastro; era una specie di sasso che cadeva sullo stagno dell’ipocrisia di quegli anni. Si dolevano della morte di Papa Giovanni, si meravigliavano del volo di Valentina Tereskova, prima astronauta donna. Mia zia non si capacitava che Marisa, prima tra le donne a Chiuppano, avesse conseguito la patente della macchina e che indossasse i pantaloni, che la vecchia chiesa fosse stata buttata giù e che avessero tolto la ferrovia. Insomma vi era una commistione di notizie che per me avevano dello sbalorditivo. “Che mondo!” Veniva da dire anche a me. Tra l’altro, con tutte quelle nudità in giro che mi disorientavano un po’, non sapevo da che parte gettare lo sguardo. Dovevo per forza guardare le onde o il mare, che proprio non mi attirava. Se si muoveva mia zia, le ero attaccato come un’ombra e la mia mano restava saldata nella sua che quasi mi faceva male. Non amavo andare in acqua, memore delle raccomandazioni di mia madre di stare attento a non “negàrme”, preferivo le passeggiate lungo la riva, con il mare che toccava i piedi e le conchiglie da raccogliere che erano tante e belle.Un giorno, durante una passeggiata, lasciai la presa della mano di mia zia e mi “imbaucài” per un attimo. Quando, dopo poco, mi resi conto di camminare per conto mio mi prese un colpo; mi attaccai subito alla mano che vidi accanto a me. Non osai guardare in alto, troppe le donne “nude” in giro, ma mi calmai seguendo questa mano che mi accompagnò per un po’ di strada. Ad un certo punto, mi resi conto che quella non era la mano di mia zia; evidentemente per tenerezza, o per scherzo, quella signora stette al gioco. Allora mi prese un panico così forte che mollai un urlo che gelò la donna. Per poco non le venne “afàno”, dovettero farle aria e mia zia accorse subito a quel disperato richiamo. Dal juke box giungeva la canzone “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, mi tornarono in mente mia madre, Danilo “latàro” che passava coi bidoni del latte sulla sua “Ape”e la “cavra” che avevo nella stalla. Allo strano odore del mare avrei preferito il profumo del gelsomino, che proprio nel mese di luglio fioriva e inondava l’aria di casa mia. Insomma, di quell’ambiente, di quella sabbia e di quel mare non ne volevo sapere. Non vidi l’ora di tornare al mio paese, alla mia casa, al latte di Danilo, al mio orto e alla terra che non dava fastidio sotto i piedi come la sabbia. Di quei giorni mi sono restati questi ricordi e un senso di disagio che sempre mi accompagna quando d’estate qualche volta devo tornare al mare con la mia famiglia. Non mi appartiene quell’ambiente, mi rende nervoso e triste, giorni che non passano, onde che cancellano le orme in un attimo.Quel ’63 si chiuse drammaticamente. Ad ottobre un pezzo di monte Toc franò sull’invaso d’acqua del Vajont; si sollevò una frustata d’acqua che cancellò i paesi a valle compreso Longarone. Duemila persone furono sorprese nelle case e morirono come topi. Il mio amico Teo, il mio compagno di giochi al mare, era proprio di quel paese, chissà che la morte non l’abbia preso per mano in quell’acqua gelida e vigliacca. Aveva la vita davanti e non posso pensare che non sia riuscito a diventare grande.Il mio paesano Sandro Santacatarina, soldato di leva, si trovò a scavare tra il fango e la tristezza di quei giorni. Quando lo ricorda, le lacrime gli bagnano il viso. Io ho un senso di angoscia a pensare a quei giorni, finiti dentro a tristi ricordi e a qualche fotografia. Teo invece lo porto nel cuore e non è l’onda del tempo a cancellarlo dalla mia vita.
Maurizio Boschiero
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