lunedì 10 dicembre 2012

El musso



Nei primi anni ‘60 tutti o quasi, usciti da un dopoguerra gramo e stentato, sognavano una vita diversa, una libertà nuova. Volevano scappare dalla miseria e dalle ristrettezze, che li avevano attanagliati per anni. Dopo aver tribolato per tanto tempo a mettere insieme il pranzo e la cena, finalmente  potevano concedersi  un normale regime alimentare che anzi sconfinava,  qualche volta, nell’esagerazione. Allora, esibire una  rotondità sostenuta o una pancia molto evidente era un simbolo di benessere, di possibilità se non altro di mangiare. La pubblicità aveva adeguato i canoni estetici; andavano di moda le “maggiorate”, attrici come la Loren e la Lollobrigida dai grandi seni, che entrarono presto nell’immaginario collettivo. La televisione spingeva massicciamente verso una modernizzazione inimmaginabile solo pochi anni prima e, il Carosello, era il megafono e lo specchio ammaliatore di quel tempo. Ci eravamo infilati nel “boom economico” che per qualche anno farà dell’Italia un paese che alla svelta  entrava “miracolosamente” nel novero dei grandi stati industrializzati.  Ora il sogno  portava a guardare ad altri obiettivi, meno pressanti che non fosse l’alimentazione, ma che permettevano di compiere un salto di qualità della vita. Dalle case scomparvero tutti quegli oggetti che nel passato avevano rappresentato la miseria. Via pentole e paioli di rame, via posate di ottone sostituiti da più moderne stoviglie in alluminio o in acciaio, via i vecchi tavoli e credenze di legno massiccio, barattati frettolosamente con altrettanti mobili dalla moderna ed accattivante copertura di fòrmica.  Sparivano i grandi focolari, che per secoli avevano riscaldato e affumicato le case; entravano le nuove stufe americane, bianche e smaltate per la gioia delle casalinghe. Qualcuno però, come mio padre, non si rassegnava del tutto alle nuove realtà e sistematicamente arrivava in cucina con le “slorde” di terra sotto i piedi o nella stufa infilava dei “rapari” di legno lunghi due metri sostenuti da una sedia che bruciavano ed “ infumentavano” lentamente le stanze  con la disperazione di mia madre. La plastica dominava la scena e una miriade di oggetti colorati  invasero la nostra vita.  Ma quello che  pubblicamente dava il segno di  emancipazione  evidente erano i mezzi di trasporto, vale a dire le motociclette e le automobili. Vi erano ancora, per le strade, le ultime sgangherate “Topolino”, che avevano attraversato la guerra e i posti di blocco; gli ultimi sfiancati “BL” e “Tre Ro”  finivano le loro ultime corse in viaggi  avventurosi con i due autisti, che si davano il cambio dopo le ore di guida canoniche. Una gran quantità di  moto, motorini e “rocare” di biciclette trasportavano chi non poteva permettersi di più, mischiate a traini di animali, che ancora ansimavano  e trasportavano di tutto. Le strade erano in gran parte asfaltate, ma in qualche caso ancora bianche, con i paracarri di pietra ai bordi, “le cunette” ben tenute e i platani che creavano dei lunghi viali di verde e di poetica frescura. I verbaschi dal lungo pennacchio giallo coloravano i bordi nelle estati calde e s’inchinavano al passare dei mezzi. Un po’ alla volta a questo panorama si aggiunsero le nuove auto, le prime “600” e le piccole “500”, che in quegli anni conquistarono  mercato ed il cuore degli Italiani. Servivano per i piccoli spostamenti di lavoro, e per le gite domenicali al mare o in montagna per la famiglia. Vi trovavano posto genitori, bambini, e nonni che per quanto compressi trovavano comodi i nuovi veicoli. Mio zio Ninin aveva una “600” bianca e qualche domenica portava anche me in montagna, non più in là di Conca o Cesuna, per non stressare troppo la macchina, che ogni volta finito il Costo, gorgogliava come una caffettiera. Ci portavamo dei panini e della frutta, un Thermos di caffè, del vinetto  “mericanelo” a volte sostenuto dal gusto del “crinto” e una bottiglia de acqua “de Vissì” fatta con le bustine, che ribolliva in mille bollicine. Mi è rimasta impressa la volta in cui mi offrirono una novità: un panino al “parsiutto”. Tentai di dire che forse era prosciutto, ma non ci fu nulla da fare, loro sapevano il nome giusto. Mio padre possedeva una scassata “Ducati 98” che avrà avuto una ventina di anni. Tentare di farla partire era ogni volta un rodeo, che si svolgeva lungo la discesa del ponte di Caltrano. Forse si decideva a partire mossa a pietà quando mio padre per lo sforzo di spingerla diventava paonazzo. Un giorno, forse stanco di “urtare la moto” e abbagliato da tutte le novità della strada decise di fare il gran passo. “A cambio la moto” disse risoluto a mia madre, che accolse di buon grado l’idea, stufa di vedere “sto poro can sfinirse xo par el ponte”. Finalmente qualcosa cambiava anche in casa mia; sognavo una “500” che allora aveva gli sportelli a favore di vento, mi immaginavo con mio padre in gita, ma presto la mia illusione si spense. Mi portò a Thiene in un’officina con la scritta “MotoGuzzi Berton”, vicina al bosco. Vi erano esposte delle bellissime moto rosse che odoravano di gomma e di vernice. Scelse uno “Stornello 125”; per me non era il massimo, ma se non altro avevamo un mezzo nuovo ed affidabile. Io chiesi: e la macchina? “Un doman” rispose mia madre. Pensavo spesso a “sto doman”, in cui i miei rimandavano ciò che in quel momento non potevano avere. Lo immaginavo questo domani   pieno di cose belle, una macchina, una casa senza “rapari, e punari e schiti” dappertutto. Almeno avessimo avuto un gabinetto interno, invece ci toccava andare nell’orto in quello di “tole”,  di notte la pipì la facevamo sulla “secia “ e la sera scaldavamo i letti con le “bronse e la monega”. Quando, un giorno, mio padre mi portò a fare un nuovo acquisto, da “Marco da Fara”, capii subito che la mia “500” avrebbe avuto due orecchie e quattro zampe e che al bolso suono del clacson si sostituiva il ridicolo “sgrignare” dell’asino. Almeno avesse scelto un cavallo, il cui portamento elegante mi attirava, ma proprio un  “musso”; per me era il massimo dell’avvilimento. “El doman” si allontanava definitivamente anche dall’orizzonte dei miei pensieri,  caricato sul quel carretto azzurrino con le ruote di legno cerchiate di ferro, che mio padre acquistò di seconda mano da un vecchio, a Mosson. Mi creava qualche problema il solo  pensare di  dover andare in giro con la bestia e il carretto. Il musso che portammo a casa era nero col muso bianco, anche simpatico da vedersi, ma aveva l’abitudine di ragliare spesso a qualunque ora, specie nei momenti meno opportuni; in più captai dai mezzi discorsi tra gli adulti che era “castrà cioè non più intiero”. In definitiva era stato castrato. Non capivo tanto cosa volessero dire quelle frasi, ma certo doveva essere qualcosa di strano. Quando “il musso” era nella mia stalla, qualche volta cercavo di scrutare sotto il pelo per vedere se aveva qualche crepo, visto che non essendo più “intiero”  doveva vedersi il difetto. Non trovai niente di strano, ma mi fermai nell’idea che, per risparmiare, mio padre aveva comprato un asino rattoppato, forse di seconda mano . Eravamo proprio poveri grami! Era questa la mia ultima considerazione. Tra l’altro avevamo in stalla una capra con una gamba posteriore paralitica e un maiale che grugniva “nel staloto”; poi conigli, galline, anatre mute, uccelli in gabbia e “moreje” completavano l’arca. Quando portavamo col “musso la cavra al becco”, su a Camisino in quel di Caltrano da “Prisio”, era per me il massimo del disagio perché, a parte il dover attraversare il paese, dovevo assistere al rituale della monta con la capra che non reggeva il peso dell’infuocato “cavron” e mio padre che cercava di sostenere la povera capra tentando nei momenti più furibondi dell’assalto di coinvolgere me che gli tenessi la povera bestia per la “cavessa”. Dovevo, secondo lui, aiutarlo, ma non guardare, né ascoltare i rantoli bavosi delle bestie in amore. Erano spettacoli da grandi. “ Ghetu sentìo o visto qualcossa”, mi chiedeva dopo. “Gnente” rispondevo subito, per chiudere la partita.  Povero me, che sognavo di avere una piccola enciclopedia in cui studiare gli animali e raccoglievo qualche libro in una piccola libreria in camera che era il mio orgoglio. Questa convivenza rumorosa e strana fatta di affetto e rabbia si protrasse per anni, fino alla soglia degli anni settanta quando io abbandonai la mia fanciullezza; e quel carretto si fermò definitivamente sotto un portico di casa dopo che l’asino, “pora bestia”, era morto di tetano. Quanti ricordi, belli e teneri, ma anche situazioni imbarazzanti in quegli anni! Una volta venne il prete a benedire la casa, il severo e rigido don Guzzo . Nel bel mezzo della liturgia,  quando tutti eravamo compresi nella preghiera e nel ripetere le parole del rito, un raglio furioso del somaro spezzò quel momento mistico. Forse si sentiva anche lui trasportato, per una volta, dalla litania del prete. Mia madre si irrigidì, che pareva la statua della Madonna Pellegrina, io divenni color arcobaleno, dal rosso di vergogna  al verde di rabbia. Il prete fece finta di niente, benedì in fretta e ci lasciò nell’imbarazzante silenzio che era calato. Era questa la mia disperazione, quel raglio assassino e beffardo mi faceva morire. Speravo sempre che mai il mio maestro Olinto, la mia maestra Piccini, o qualche altra persona che ritenevo importante fossero venute a casa mia. Troppo imbarazzo se quella bestia si faceva sentire, troppo duro da digerire. Come duro da digerire per me era il viaggio che mio padre faceva per andare nel campo, quello che mia madre  aveva ereditato da mio nonno Bepi Bon, lungo la ferrovia sopra “i Lucca”. Era un piccolo pezzo di terra che confinava con i Lucca , Mario Bastianon,  il campo di mia zia Ada e appunto la ferrovia. Vi coltivava un paio di filari di vite, “ ua mericana, Crinto,  salbega e del cabernet  che secondo lui butava poco”, perché sempre “impestà de nibia rossa”. Tra i filari seminava delle file di sorgo, che lui difendeva dagli assalti della “broeja” ,  dalla gramegna e dagli “astuni” a cui quella terra era votata. Tanto faceva e si sfiniva, che il suo tempo libero lo passava quasi tutto nei campi della riva dietro cava e su questo piccolo pezzo. Le cose che gli servivano , gli attrezzi e il resto lo trasportava con il carretto tirato dal “musso”, adesso che aveva quella comodità. “Tacare il musso” era un rito che compiva davanti a casa dopo averlo slegato ed avergli infilato la briglia tra i denti. Vi aggiungeva poi il “comacjo” sul collo, la sella sulla schiena, che doveva sostenere il peso del carro ed il gioco era fatto. Io lo aiutavo un po’, magari passandogli il sottopancia che collegava le stanghe del carro o tenendo la bestia per la briglia. Quando tutto era a posto si partiva. “Monta su ca nemo “, mi diceva con orgoglio mio padre, ma io sarei stato volentieri a casa, non mi andava di attraversare tutto il Costo magari carichi di letame e di altre diavolerie. Passare sotto il ponte davanti a casa mia era come passare le colonne d’Ercole, talmente era il disagio che per me comportava quel tragitto. Avevo paura a mostrarmi sopra quel tiro, che sapeva tanto di anni passati quando ancora la povertà imperava, ma ora pensavo che eravamo rimasti in pochi in quelle condizioni miserabili. Erano frustate le occhiate di chi incontravamo e per giunta salutavano. Una pena passare dai fini Bellinaso, poi su i Bon miei parenti, Bruno e la “Jovanela” “pumiboni”, i Federle,  i Lucca, “Merica”,   Olinto De Muri, Placido Busato, la Nenj Barona,i Benedetti. Un  rosario di nomi e di famiglie che si sgranavano  lentamente ai miei occhi come una preghiera funebre, che mi imbarazzava da morire. Col fiato sospeso arrivavamo da Bastianon e Volpato dove, tra i due bar, a volte, calavano le sbarre del passaggio a livello, perché passasse il treno. Speravo sempre che fossero alzate per finire il mio tormento tra i filari di “morari che costeggiavano la strada tra i campi dei “ Carliti”. Una volta purtroppo le sbarre erano abbassate ed un fischio lungo ed intenso annunciava l’arrivo del treno. Eravamo carichi di “luame “ ed io me ne stavo rannicchiato da una parte a guardare per terra. L’asino, al sentire il fischio forse impaurito, cominciò a ragliare e a dimenarsi come un ossesso fin quasi a sbalzarmi  sulla strada, si alzò sulle gambe posteriori e fece dei numeri che non avevo mai visto. Il treno rallentò quasi a fermarsi e contemporaneamente tutti i passeggeri si affacciarono ai finestrini e salutavano con le mani. Uscirono dai bar, per vedere che succedeva, anche gli avventori e subito si raccolse un piccola folla. L’asino ragliava che sembrava su un palcoscenico e mio padre disse: ”Sinti che bestia , sinti che pulmoni, non ga paura de gnente, come mi, parchè Joanj l’è sempre Joanj”. Si aggiunse anche il raglio del “musso de Bastianon” a sostenere il compare: fu l’apoteosi. Io avrei voluto sparire sotto il letame e quei saluti dal treno mi parevano schiaffi pesanti. Quando la bestia si calmò e fu passato il treno, finalmente si alzarono le sbarre. Piantai  mio padre e il suo “musso” e con una corsa furibonda tra i campi e la ferrovia mi rifugiai tra  il sorgo che, in quel momento, era alto. Mio padre mi cercò a lungo e uscii quando fui sicuro di non ripassare dal Costo per tornare a casa. “ Ti si roverso come le medaje, strambo come el mal de pansa”, sentenziò mio padre che forse aveva capito poco di me, ma tant’era! Ero suo figlio. Il “musso” continuò nelle sue esibizioni estemporanee, ed indimenticabile fu quella del funerale di mia nonna Francesca. Si esibì durante il “tersetto” e al momento della partenza del feretro da casa; tra le litanie e le preghiere inserì un raglio solenne, che fece sorridere gli astanti. Torsero la bocca senza farsi vedere troppo. Qualcuno sussurrò: “anca el musso el saluda la so parona”. Era il ’65, la bestia durò ancora un paio di anni; quando Checco e Tony Gasparotto, mercanti di bestiame, vennero a prenderlo per portarlo via, era molto malato. A stento si reggeva sulle zampe. Prima di uscire dalla stalla mi guardò a lungo, quasi a chiedermi scusa se mi aveva fatto dannare. Non vi fu raglio a salutare il vecchio amico, solo le mie lacrime silenziose che lo accompagnarono fino al suo sparire, oltre il ponte. Vorrei ritrovarlo se ci fosse un’altra vita in un paradiso di uomini e animali.    
             
Maurizio Boschiero



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