Il biennio scolastico all’ITIS Silvio De Pretto di Schio era passato in fretta, la classe si era abbastanza amalgamata nonostante le diversità di provenienza di ciascuno di noi, che venivamo dai vari paesi intorno. Eravamo i “valigiani” non esattamente ben visti da chi era della città scledense e anche qualche insegnante non ci risparmiava delle frecciatine non proprio simpatiche. ”Scarpe grosse e cervello fino” ci apostrofava sarcastica la Cazzola insegnante di italiano, ma per fortuna non tutti erano così.
Erano stati anni intensi e per certi versi difficili, io avevo una timidezza insormontabile che mi strangolava e spesso avvampavo di rosso come un “pevaròn” se solo venivo interpellato. Non parliamo poi di quando dovevo leggere qualcosa in classe a voce alta. Per l’emozione cambiavo in continuazione timbro di voce passando da un tono da basso ad un registro da castrato. Ne veniva fuori un rodeo tra risa e sberleffi che mi uccideva. Anni duri dunque, ma anche di interessi e di scoperte.
Ci eravamo lasciati alle spalle i paesi e i vecchi compagni delle medie, le case con il “cesso”, che a volte era ancora nell’orto. Per le strade gli ormai rari ”mussi” tiravano carretti carichi di anni e di imbarazzo. Passavano anche gli ultimi carri dei coscritti, che “sbraitàvano” pieni di gioventù e di vino, la televisione portava nelle case un modello di vita ancora lontano fatto di lavatrici, di liquori contro il logorio della vita moderna, di detersivi che lavavano che più bianco non si può ed il resto era lasciato ai sogni. Spariva lentamente un mondo e noi cercavamo di affrancarci in fretta da quelle che ritenevamo miserie. Arrivavamo dai paesi con le corriere della Siamic stipati come sardine, l’abbonamento mensile costava 8500 lire. La corsa era occasione di incontro per tutti. Si conoscevano ragazzi nuovi, ”altri valigiani”, ma soprattutto altre ragazze. Io me ne stavo in disparte, troppo timido, troppo imbranato. Per me la rivoluzione sessuale passava lontana, mi ero quasi innamorato di una bella ragazza rossa di Cogollo, ma lo sapevo solo io. A volte ero scontroso per tenere le distanze, non so da cosa o perché, ma era così. Non tutti gli autisti erano gentili e simpatici, sicuramente lo erano Tony Zenari e Gian Pietro De Muri, non così invece Cirillo spesso “sustoso e roverso”, bastava un niente perché si “intavanasse come un cavallo col morbìn”. Ci faceva rigare dritti, poche ciance con lui, mica tanto da scherzare. La corriera ci portava ad indovinare un futuro diverso da quello dei nostri genitori, che con grandi sforzi e privandosi di ciò che potevano, cercavano di regalarci una vita meno dura della loro, che erano appena usciti dalla miseria e dalla guerra. Mio padre lavorava alla Lanerossi di Piovene stabilimento numero uno, reparto lavaggio, sperava per me un domani da impiegato, meglio ancora un “capo” come quelli da cui riceveva ordini e rimbrotti, che qualche volta lo umiliavano. A volte ne parlava in casa con mia madre a cui confidava amarezze e difficoltà e la speranza che “un doman par el toso la sarà diversa”, chiaramente intendeva la vita. Era la sua speranza, la sua forza di combattere una guerra per una vita diversa almeno per i figli. Non poteva nemmeno permettersi un’auto, possedeva una scassata Ducati che perdeva i pezzi; per andare a lavorare aveva investito qualche risparmio per acquistare un “motocoltivatore Bertolini” che aveva sostituito il “povero musso”. Ecco perché io mi trovai senza sapere bene come, a frequentare un istituto che non era esattamente sulle mie corde e nei miei interessi. Mi sarebbe piaciuta una scuola tipo un liceo che dava spazio al tratto umanistico e letterario degli studi, ma capitai tra formule di meccanica e di tecnologia, disegni tecnici e matematica, che poco mi prendevano e meno mi interessavano.
I licei in quei primi anni ‘70 erano scuole per ricchi o perlomeno per figli di professionisti o di industriali. Chi come me, era un figlio di operaio, era più che sufficiente una scuola tecnica.
Il tragitto che io facevo con la corriera da Chiuppano a Schio passando per Piovene e per Santorso era una corsa quasi tra i campi, poche erano le case di recente costruzione e le stagioni si rincorrevano coi colori dell’erba e delle foglie dei filari, che ancora disegnavano gli spazi in un’infinita fuga dal finestrino. L’Italia di quegli anni fuggiva in fretta dalla stagione misera e dura del dopoguerra e dall’illusione di un benessere per tutti a buon mercato degli anni del boom. I fiati libertari del ‘68, le colorate e libertarie filosofie d’oltre oceano cominciavano a lambire anche i nostri paesi in un’onda lunga e ritardataria, che però coinvolgerà un po’ tutti in quegli anni. Cominciavano a comparire le prime minigonne e i primi capelli lunghi, il movimento hippy aveva un esercito di figli dei fiori, che predicavano la pace e l’amore, contro la guerra che in quel momento incendiava il Vietnam. Comparivano i primi blu jeans di marca “Roy Rogers” a zampa di elefante, che con bagni di varechina diventavano uno stravagante abbigliamento per la disperazione di genitori ed insegnanti ancora ingessati dentro concetti, che sapevano di vecchio . Bastava questo per essere giudicato un contestatore; il prete dal pulpito la domenica si sgolava a denunciare la superficialità e la poca serietà di quella balorda generazione. Nascevano i primi locali da ballo o meglio di ritrovo di questa gioventù, che forse era troppo avanti rispetto ai modelli che fino ad allora avevano resistito. A Piovene c'era il “Cacciatore” un bar nel cui scantinato, tolte in fretta le vecchie cianfrusaglie e le ragnatele polverose, avevano trovato posto dei morbidi divani e qualche luce colorata, un po’ di musica sparata male da un juke box ed il locale era fatto. Luogo di peccato e di perdizione a giudizio di Don Guzzo il parroco di Chiuppano. Vi era anche “La Capanna azzurra” un ex ricovero ferroviario che l’intraprendente Bortolo Dal Ferro aveva trasformato in un centro di attrazione per mezza provincia. Si esibivano i vari complessi della zona, tra i quali: L’altro mondo, I Cadaveri, I Defunti, I Normanni, Gli Apostholi e altre amenità. Proprio “robe dell’altro mondo”. Ogni paese aveva i suoi gruppi musicali che suonavano: se andava bene in scantinato, se andava male tra le gabbie dei polli e dei conigli in qualche baracca o cantina tra bottiglie e damigiane, a volte “in granàro” tra i mucchi di “sorgo e feri veci”.
Chiuppano aveva i “Gisifelia 69”, esistevano da qualche anno i The Carolls che avevano all’attivo anche un’incisione discografica dal titolo “Sei solo tu” ed altri, che, credo, non durarono neanche il tempo di darsi un nome o di imparare una canzone. L’Italia di quei giorni si avvicinava rapidamente alla crisi petrolifera e alle domeniche senza auto. Leone diventava presidente della repubblica, Pasolini era una voce fuori dal coro dalle colonne del Corriere; uscivano grandi film come: Morte a Venezia di Visconti , Ultimo tango a Parigi ed Arancia meccanica. Canzonissima e San Remo incollavano il paese al video. Feltrinelli moriva accanto ad un traliccio di Segrate. In America sempre più il conflitto del Vietnam sconvolgeva la gente, che esprimeva il suo dissenso con grandi cortei pacifisti; la superficie lunare veniva esplorata con un mezzo meccanico dagli astronauti dell’Apollo 15; il ping pong diventava un mezzo per dialogare con la Cina. La piccola classe del piccolo istituto, era in fondo, una navicella persa nel suo spazio a cui arrivavano le notizie dall’Italia e dal mondo, non tutte metabolizzate ed elaborate dalla sensibilità e dagli strumenti culturali in nostro possesso, che erano poi quelli di ragazzi di16-17 anni. Erano frequenti gli scioperi a cui partecipavamo spesso senza una precisa coscienza, ma per il semplice gusto di esserci o di perdere una giornata di lezione. Si arrivò anche a scioperare per il peso del panino che ci veniva distribuito, o per l’operato di un bidello. Girava nelle scuole il libretto della dottrina di Mao. Ci sentivamo comunisti o di sinistra, ma c’era molta confusione e tanta ingenuità. A casa, mia madre pensava che Mao fosse un missionario venuto ad insegnare religione nel mio istituto o almeno così le avevo un po’ canagliescamente fatto capire. Ci sarebbe solo mancato che avesse saputo che era il leader del partito comunista cinese: mi avrebbe fatto delle storie infinite. Già me le faceva continuamente perché andassi a messa, e mi facessi il segno di croce davanti al capitello della Madonna vicina a casa. Ma ormai si rassegnava sempre di più alla mia, secondo lei, “deriva morale” e ai capelli lunghi che tenevo. “Almanco dighe sia lodato Gesù Cristo quando che te saludi Don Mao”, ripeteva ormai sconsolatamente triste. La terza B vide comporsi una nuova classe con compagni diversi perché da quell’anno si sceglieva definitivamente l’indirizzo da seguire. Io scelsi l’indirizzo meccanico senza troppa convinzione e più esattamente per stare insieme a qualche compagno a cui ero affezionato e per schivarne altri, che non mi erano proprio simpatici. Alle solite figure si aggiunsero quell’anno dei ragazzi, che avevano frequentato il biennio a Thiene e poi vennero a Schio per seguire l’indirizzo di specializzazione. Tra questi ricordo ancora bene Peron e Lucchini buoni ragazzi che però non lasciarono particolari tracce nella mia vita. Accanto a loro si presentò un ragazzo biondo che subito mi colpì per il particolare pallore del viso ed il tono di voce quasi flebile. Era un tono che sembrava un sussurro di vento, evanescente come il colore dei suoi capelli. Si chiamava Adriano Bassan. Una bionda creatura nordica descritta da certa letteratura romantica tedesca del cavaliere che aveva tratti efebici e gentili. Luchino Visconti era maestro nel descrivere figure così nei suoi film. Un angelo caduto in volo, come recitava una canzone di Battisti di quel periodo. Aveva un’aria dolce ed un particolare carisma, dovuto ad una buona cultura che mi attraeva ed affascinava. Era di buona famiglia di Thiene, il padre piccolo imprenditore a capo di un’officina ben avviata. Facemmo subito amicizia ed i nostri discorsi, sempre più spesso, ci portavano lontano dagli angusti spazi scolastici. Quell’anno come insegnante d’italiano avevamo una ragazza giovane dai capelli rossi e dal piglio deciso, che sapeva benissimo ciò che voleva da noi. Era di Vicenza e si chiamava Isabella Stauble. Con lei la classe si divise subito in due: chi la seguiva ed andava bene e chi invece, assorto nelle materie tecniche, si sottraeva subito ad ogni impegno letterario ed umanistico. Più di qualche volta chi veniva interrogato da lei, prima di uscire si arrendeva con un semplice: "Mi metta pure due professoressa, non perda tempo con me”. Purtroppo in poco tempo Adriano ed io eravamo da una parte, gli altri dall’altra. Ci piaceva la materia ed avevamo un buon rapporto con l’insegnante, che ci capiva e credo ponesse in noi la speranza di avere qualche soddisfazione dal suo lavoro che altrimenti con una classe tecnica andava a farsi benedire. In quell’anno si studiavano le origini della lingua Italiana, la letteratura del 1200 e quella religiosa, Dante, i Trovatori, la letteratura franco veneta, i primi poeti in volgare toscani e della corte di Federico 2° di Sicilia. Argomenti affascinanti che ci portavano lontano, ci spingevano ad approfondire la materia. Il meglio lo davamo nei temi in classe, il compito, piccole perle che resteranno per anni nella storia della nostra avventura scolastica. Avevamo sempre dei buoni voti, lui ottimi; aveva uno stile originale e fantasioso che non avevo mai visto. Anch’io facevo la mia parte con voli strani, con metafore e frasi che mi uscivano non so nemmeno da dove. Adriano intanto mi aveva fatto conoscere grandi autori che per me furono folgorazion . Mi fece conoscere Pavese della “Luna e i falò”, Bassani degli “Occhiali d’oro”, Ungaretti del “Sentimento del tempo”, Proust della “Recherche”, ed Heminguey, Pound, Dos Passos, Nice e molti altri. Una scoperta continua, preziosa miniera da cui avrei attinto tante volte. Vi erano anche i cantautori di quel periodo, che incontrammo, da Guccini a Brel, Brassens, De Andrè, Battiato e i grandi gruppi stranieri Jethro Tull con Aqualung, King Crimson con Island, Genesis, Van Der Graaff. Traduceva testi di canzoni i cui versi diventavano, a volte, parti dei nostri temi, liriche pregne di poesia e di folgoranti invenzioni. In un testo di Aqualong della canzone My God, che significa mio Dio, venne questo verso che ancora adesso mi è in testa: “L’uomo creò Dio e lo fece così potente che col passare del tempo sembrò che Dio avesse creato l’uomo”. Sempre più quel mondo di poesia e di lettere, in cui ci eravamo inoltrati mi riempiva l’anima, i sentimenti ed i temi. Fu verso la fine dell’anno scolastico, forse in occasione dell’ultimo compito, che Adriano scrisse questa frase: “Tutti coloro che mi giudicano hanno meno dignità di una puttana”. Questa volta la professoressa, che durante l’anno aveva sempre cercato di capire, di assecondare e di tollerare anche frasi provocatorie e a volte al confine del lecito, non accettò. Forse si era sentita ferita, offesa, o chissà ….tradita. Credo non fosse assolutamente nelle intenzioni di Adriano di offendere la nostra insegnante, ma forse avevamo passato ormai il segno e successe il putiferio. Eravamo figli di quei giorni contrastati, di quei tempi di ribellione ai vecchi modi di pensare, ai consumati clichè. Riunione del collegio insegnante con il preside ing. Giuseppe Lobba, nota sul diario ed infine sospensione per quindici giorni. Vi fu un gran trambusto a livello di istituto e anche all’esterno; si fece un gran parlare, ma il ragazzo pallido accettò con serenità, quasi con distacco questa esposizione; del resto la scuola, a quei tempi, era ancora pregna di retorica e di etichette e perbenismo. Adriano divenne un simbolo quasi di liberazione, come quei personaggi che spesso combattono battaglie grandi e che si incontrano nei romanzi. Quel tempo passò in fretta e il fremito letterario, che pervase i nostri giorni lasciò un segno profondo dentro la mia anima. L’Italia si trovò in fretta nel tunnel di violenza degli anni a venire, con gli attentati delle brigate rosse, la morte violenta di Pasolini e di Moro. Il paese rapidamente arrivò ad un benessere che però, svuotava le coscienze e barattava i valori veri con un controvalore economico destinato a lasciare l’amaro in bocca. Quel biondo ragazzo che mi aveva tanto insegnato e a cui dovevo parte della mia formazione, fuori dai binari scolastici finita la scuola l’ho frequentato poco, ma mai l’ho dimenticato. Ho però mantenuto con lui un legame strano che andava al di là del tempo e dello spazio. In fondo non avevo bisogno di frequentarlo per sentirlo presente, mi nutrivano i suoi insegnamenti e i ricordi che mi erano rimasti dentro.
La professoressa Stauble, la rossa, non l’ho più rivista, se non forse di sfuggita una volta, ma non ero nemmeno sicuro fosse lei. Ho dato il suo nome a mia figlia, anche lei mi ha lasciato un segno duraturo che non dimentico. Vorrei rincontrarli nell’ultimo quarto di vita e rivivere ancora qualche momento come quelli di tanti anni fa.
Ciao amico pallido, io non ti scordo!
Sei un raggio di luna su quegli anni ormai sbiaditi!
Maurizio Boschiero
di Isabella Stauble posso solo pensare cose negative e in democrazia c'è libertá di pensiero. Una delle peggiori persone che io abbia mai conosciuto in vita
RispondiEliminamia. Che Dio abbia pietà di lei quando sarà il momento
Perché?
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