E' una notte di Natale fredda e nebbiosa, io sono un po’ stanco e non ho voglia di uscire nemmeno per la messa di mezzanotte. Fuori la nebbia confonde le luci e i passanti frettolosi scompaiono in fretta nel buio e nel silenzio.
Quest’anno per me è stato duro, a volte angoscioso e anche l’anno nuovo per tante persone, si profila incerto e difficile. Le previsioni non sono buone, chissà che passi in fretta questo periodo in cui sembra che tutto vada male.
In casa abbiamo fatto il solito albero sintetico e un piccolo presepio con le statuine di cartapesta acquistato in un mercatino di roba vecchia.
Ci è stato detto che proviene da un istituto di suore di Venezia, e questo mi piace.
Lo guardo senza troppo trasporto, ma la malinconia mi porta via, lontano, negli anni in cui ero bambino e in casa facevamo un piccolo presepe in un angolo freddo della “saletta”, che poi era il piccolo corridoio che dava sulla cucina.
Poche statuine vecchie di gesso, qualcuna avuta in regalo dai nonni materni, i Bon, rosicchiate dalle “moréje” e dal tempo.
Le conservavamo incartate per bene in una cassetta di legno della frutta in un angolo remoto del “granàro” in compagnia della polvere e delle ragnatele fino ai primi di dicembre. Quando il freddo e la neve coloravano i visi e i campi, andavamo per “lispo“ giù per la riva, verso i terreni e le siepi gelate di Rondello.
Ci facevano compagnia rari pettirossi e scriccioli intirizziti e il giocoso ricamo del fiato che si gelava in una nuvoletta tiepida e allegra.
Tornavamo a casa con il sacco pieno del soffice e profumato mantello che presto sistemavamo sopra una vecchia tavola che per l’occasione toglievamo dall’oblio del disuso. La grotta celeste la ricavavamo da dei sassi muschiosi posizionati in modo da ricavarne un anfratto e le stradine le tracciavamo con un po’ di farina bianca che ci concedeva nostra madre misurandola con parsimonia.
Tiravamo poi fuori dalla cassetta di legno le piccole statuine e le scartavamo lentamente, facendo attenzione a non rompere niente e cominciavamo a disporle una ad una nei posti che ritenevamo più giusti, magari cambiandone più volte la posizione.
Quando si scartavano quei personaggi, ci pareva di ritrovare dei vecchi amici che ci venivano a far compagnia in quei giorni sereni di Natale della nostra fanciullezza. Io mi incantavo a guardare quel mondo magico con i piedi nudi poggiati sul pavimento di palladiana gelata, ma non avvertivo per niente il pungere del freddo. Sentivo solo il profumo del muschio e di qualche candela che aggiungevano a quell’atmosfera un tocco di magia e un poco di poesia.
Col tempo accanto al presepe, abbiamo aggiunto un piccolo abete, che mio padre si procurava non so dove, con poche palline di vetro colorato e qualche candelina che accendevamo la notte di Natale, e mi pareva che il cielo entrasse in quella povera stanza. Quel profumo di muschio e di abete erano l’incenso di noi poveri, l’amore di mia madre era poi la dolcezza di quei giorni. Bastava questo e si poteva sognare ad occhi aperti.
Adesso c’è ancora solo quella stanza vuota, sono rimaste le piastrelle bianche e nere del pavimento che col freddo mi mordeva i piedi, tutto il resto non esiste più, le statuine si sono perse chissà dove e mia madre se ne è andata ormai da più di un anno.
Domani è Natale, mi mancherà il suo solito biglietto di auguri vergato con calligrafia incerta ed antica con su scritto: auguri Giovanni e Giannina.
Firmava anche per mio padre come se fosse stato ancora vivo; anche se l’aveva preceduta nella partenza già da un paio di anni. Mi mancherà il profumo del brodo che bolliva sulla stufa già dal mattino, e il suo gran daffare per preparare il pranzo. Il povero torrone con i bagigi nel cesto e i pochi mandarini per l’occasione, il buon sapore del bussolao e quello antico della ”salsetta” da una ricetta di mia nonna. I vetri appannati della cucina in cui io scrivevo buon Natale col dito e quelle pareti mal dipinte di calce e di muffa. Mi rimane poco di quei Natali, dei miei Natali, non mi vanno quei babbi natale di adesso che pendono pateticamente dalle case e quelle luminarie che danzano al vento a cui forse solo i bambini appendono il loro stupore.
Firmava anche per mio padre come se fosse stato ancora vivo; anche se l’aveva preceduta nella partenza già da un paio di anni. Mi mancherà il profumo del brodo che bolliva sulla stufa già dal mattino, e il suo gran daffare per preparare il pranzo. Il povero torrone con i bagigi nel cesto e i pochi mandarini per l’occasione, il buon sapore del bussolao e quello antico della ”salsetta” da una ricetta di mia nonna. I vetri appannati della cucina in cui io scrivevo buon Natale col dito e quelle pareti mal dipinte di calce e di muffa. Mi rimane poco di quei Natali, dei miei Natali, non mi vanno quei babbi natale di adesso che pendono pateticamente dalle case e quelle luminarie che danzano al vento a cui forse solo i bambini appendono il loro stupore.
Stasera vorrei addormentarmi e sognare, raggomitolato nella mia stanchezza e nella mia malinconia.
Vorrei sognare un presepe costruito col poco che è restato della mia giovinezza.
Ci metterei i “miei vecchi” come li chiamo io, le persone che ho sempre visto e che amo, che mi hanno accompagnato per tutta la vita e che spero facciano ancora un po’ di strada in mia compagnia.
Allora ci metterei Toni Lucca vestito da meccanico col suo solito cinturone di cuoio, ci metterei Aldo Fabrello nei panni di un contadino con la sua saggezza di un buon padre, Danilo “latàro” col suo furgoncino di tanti anni fa , Versilio “scarpàro” seduto al desco tra pece e spago, Alcide “munàro” mio cugino curvato dal peso dei sacchi e degli anni, Bruno Zabino vestito da zampognaro, Angelin Piai il mio vecchio barbiere, la maestra Mary Gioppo e l’ultima dolce amica di mia madre l’Albina Bellinaso, la Beppina del maestro e Battista Jane, la Rina “bela” vestita da attrice del cinema, Tony e Checco Gasparotto vestiti da macellai, Gian Silvio Gheno il farmacista, il mio antico professore di scuola Enzo Segalla e Bruno Zucchi mio buon compagno delle elementari. Poi Umberto Sarolo, Teresiano “Mossanega” e Ninin Dal Prà. Ci metterei un torrentello con l’acqua ed un ponticello come l’Astico ed il ponte di Caltrano dove andavo a pescare con mio padre e mio cugino Armando. Non mancherebbe neppure la volta celeste e le stelle in cui metterei quelli che ormai sono in cielo, i miei genitori, Claudio, i miei suoceri e chi del paese se ne è andato e ora riposano tutti sulla collina. Purtroppo questo presepe ogni anno perde qualche pezzo, vuol dire che ormai anch’io sto diventando vecchio.
Il giorno di Natale l’ho trascorso in casa con i miei figli, di buon mattino, appena si è fatta luce è venuto Aldo a farmi gli auguri, senza di lui non mi sembra festa, poi le visite dei parenti e qualche telefonata di amici.
Ho pensato anche al mio sogno: è un po’ come restare bambino aggrappato agli ultimi sprazzi di quei giorni lontani e sereni che sapevano di freddo e di sole, di siepi e giochi. Verso sera è comparsa la neve, una mezza bufera che in breve ha imbiancato le strade, gli alberi e i campi. Il giorno dopo è tutto bianco: ecco il mio Natale venuto dal cielo forse lassù qualcuno mi ha ascoltato. Anche il camposanto è coperto di neve, le tombe, i fiori e le fotografie. Devo togliere quel bianco per ritrovare quei visi che sono lì per sempre.
Porto qualche bucaneve e un po’ di pungitopo a chi mi è più caro, ma uno sguardo come un augurio lo porto da tutti e a mia madre una viola gelata che ho trovato lungo le siepi di Rondello dove da bambino andavo per “lispo”. Forse l’ultima viola dell’anno o meglio la prima che precede la primavera che verrà.
Una viola di Natale per tutti quelli che sono là.
Una viola di Natale per tutti quelli che sono là.
Maurizio Boschiero
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