【Gianni Spagnolo © 20XI2】
Siamo terra di confine*, siamo gente di confine, lo siamo sempre stati. Non solo riguardo ai confini di stato, quelli che ci hanno seguiti per quattro secoli e si sono dissolti in una guerra devastante, ma soprattutto per i limiti interni.
I confini te li insegnavano fin da bambini: dovevi saperli! Così come le parentele e la creansa. I confini ci hanno, in un certo senso, sempre condizionato, sia in antico che in tempi più moderni, dove ne siamo diventati, nostro malgrado, formidabili valicatori.
Non c’interessava certo la geopolitica, di quella non ce ne siamo mai occupati, pur avendone subìto tutte le conseguenze; a noi interessava il nostro piccolo particolare: i confini dell’orto di casa, del prato, del bosco, i diritti di passaggio, gli usi civici. Su quelli non si transigeva mai.
Degli altri non ci curavamo granché.
È un fatto che, mentre noi ci accapigliavamo ostinatamente sulle nostre domestiche e minute faccende, altri si adoperassero per tracciare quei limiti che poi ci avrebbero condizionato per sempre. Abbiamo infatti sempre avuto bisogno di balie e tutori foresti per dirimere gli attriti fra di noi; protettori che ovviamente avevano anche altri interessi. Restando nel perimetro del paesello, possiamo dire che i due più significativi processi politici che ci hanno riguardato, cioè prima l’unione e poi la separazione da Rotzo quattrocento anni dopo, siano stati condizionati dall’esterno in forme più o meno felpate. La Serenissima del Millecinquecento aveva probabilmente un modus operandi e una capacità di convincimento più discreta che non quella del Duce nel 1941, ma la sostanza, pur negli opposti fini, non fu dissimile: dovemmo adeguarci! Chi s'è occupato della vicenda più lontana nel tempo si è generalmente fermato alle scarne cronache fisate negli atti notarili, mentre quella più recente ricade purtroppo in quel periodo nero della nostra storia dominato dalla tragedia.
Fermiamoci dunque in quel XVI secolo che celebrò la fruttuosa aggregazione di San Pietro al Comune di Rotzo e la conseguente condivisione delle risorse del territorio. La storiografia ufficiale ci riporta questo accordo come esito conclusivo di secolari contese fra le due comunità che accampavano pretese sulla stessa terra. Rotzo rivendicava i diritti feudali, richiamandosi agli accordi del 1204 che confermarono i suoi termini sull’Astico e la Torra. San Pietro allora era solo un ospizio soggetto all’autorità ecclesiastica e pertanto non ebbe voce in capitolo. In seguito si formò una comunità che cominciò a competere con Rotzo per l’uso delle risorse dei crinali delle montagne verso valle e dei conoidi orientali. I Sanpieròti erano anche usi servirsi delle risorse collocate sopra i Soji, come Camprosà, Bìsele e Vezzena, con le quali avevano anche più prossimità che non gli abitanti di Rotzo. Vediamo un po’ com’era il quadro giurisdizionale su quella parte nord-occidentale di altopiano, dove la signorìa imperiale valsuganotta dei Siconi prima e dei Beseno poi, confliggeva storicamente con quella corrispondente delle signorìe venete succedutesi nei secoli.
La situazione era invero assai complessa.
Legalmente, la piana di Vezzena, con Costa, Bìsele e Manazzo, apparteneva alla Città di Vicenza e al Comune di Rotzo, che era allora ancora unito con Roana. Almeno dal 1261, quando la città subentrò nelle proprietà del casato dei Da Romano, dopo che gli Ezzelini furono sterminati e condannati alla damnatio memoriæ. Su quelle montagne accampavano diritti e giurisdizione anche i Levicani, stimolati e spalleggiati dai vassalli imperiali. Ciò dette adito a aspre e continue contese fra gli abitanti di Levico e quelli di Rotzo e Roana, culminate in ripetute e devastanti incursioni e rappresaglie reciproche. Inoltre c’era Brancafora. Si, perché la chiesa di Santa Maria di Brancafora era proprietaria di un’ampia porzione delle Vezzene che concesse in affitto perpetuo a Levico. Per ben due volte Brancafora giurò fedeltà a Vicenza, ma finì infine nell'orbita della corte di Caldonazzo. Si trattava perciò di una sovrapposizione fra giurisdizione legale e diritto reale, che rendeva assai complesso l’esercizio della sovranità sul territorio. Complicata anche dal fatto che, sui beni della chiesa, l’autorità civile doveva muoversi con cautela, pena la scomunica. Per buona pace, i livellanti pagavano affitti all’uno o all’altro dei pretendenti a seconda delle circostanze e ciò non contribuiva certo alla certezza del diritto. Credo sia stato per queste ragioni che sulle Vezzene, non si sia mai fondato un paese, pur essendo allora snodo viario strategico e sito vocato.
Fino alla Guerra di Cambrai, la giurisdizione Veneta spaziava dunque, pur con alterne vicende, anche sul territorio occidentale degli altopiani, incluso Vezzena e Lavarone, ma quando, nel 1535, il confine venne fissato finalmente sulla Torra, Brancafora e Lavarone furono confermati territori imperiali e quelle che erano contese locali divennero affari di Stato.
Ma torniamo al nostro paesello, qualche anno più tardi, quando venne votata la fusione con Rotzo. Le cronache ufficiali ci raccontano che allora Rotzo, piuttosto che cedere sulla proprietà, accettò San Pietro come suo colonnello, in ciò assistito dal cav. Piovene e, con ogni probabilità, anche dagli onnipresenti Cerato**, dominus loci, insieme (mia ipotesi) ad ingombranti convitati di pietra del calibro dei Caldogno, procuratori veneti. Quindi avevamo un Rotzo indefesso guardiano dei suoi confini e costretto a scendere a compromessi con quei parvenu dei Sanpieroti piuttosto che cedere un millimetro di sgrèbane. Se dovessimo inquadrare quegli eventi nell'ottica delle vicissitudini più moderne, fino a quelle delle attuali Amministrazioni Separate, non stenteremmo certo a crederlo.
Ma forse la storia più recondita ci offre qualche interessante, anche se oscuro, risvolto.
L'8 aprile del 1556 i Decani di Rotzo, senza aver ricevuto la delega della vicinìa dei capifamiglia, né la necessaria approvazione della Spettabile Reggenza dei Sette Comuni, né della città di Vicenza, legittima proprietaria, né tantomeno quella del Serenissimo Principe, autorità regnante, vendono alla Comunità di Levico quella parte delle Vezzene che faceva parte del loro territorio, arretrando di fatto il confine del Comune sul Costesìn.
Dopo essersi accapigliati per secoli, gli amministratori di Rotzo cedono dunque la parte forse più pregiata del loro circondario agli storici antagonisti, così, con un motu proprio privo di valore legale. Contro il provvedimento scattò infatti l'invalidazione della Spettabile Reggenza, che si stracciò le vesti per un tale affronto e pregiudizio alla sua collegialità, di Vicenza, proprietaria proditoriamente defraudata e di Venezia, scavalcata a piè pari da oscuri e infidi decani slàpari. Tanto clamore, ma sostanza immutata con continuazione di beghe e ritorsioni. La faccenda venne di fatto archiviata come un’operazione truffaldina in cui gli scaltri Levicani avevano imbrogliato gli ingenui, sprovveduti e rozzi montanari di Rotzo. All’atto pratico fu passata come una specie di circonvenzione di incapace, finché la successiva Sentenza Roveretana del 1605 sancì definitivamente proprio quel confine fissato da questi sprovveduti, che resistette anche agli assalti della Brigata Treviso nel 1915.
Baùchi? Fursi, .. ma no dal tuto!
A riprova della furbizia dei Levicani, si tramanda una divertente storiella. In preparazione della Prima Sentenza Roveretana del 1605, venne istituita un'apposita commissione bilaterale per definire i confini. Vennero convocati numerosi testi i quali, sotto giuramento, dovevano testimoniare di chi fosse la proprietà del territorio ispezionato. I Levicani si portarono appresso della terra prelevata a Levico e la introdussero nelle loro sgàlmare e così poterono giurare di trovarsi in ogni occasione sulla terra di Levico, senza rischiare la dannazione eterna per spergiuro. Il fatto che l'avessero avventurosamente comprata da Rotzo era infatti indice che non fossero poi così certi delle loro pretese.
La guerra di Cambrai aveva impegnato la Serenissima in una lunga ed estenuante lotta contro i potentati europei al fine di preservare la sua integrità territoriale e la sua autonomia. La proverbiale abilità diplomatica della Serenissima s’era forgiata in secoli di rapporti con i Levantini e puntava più sull’esercizio della pazienza e della mediazione che sull’uso della forza. Il fronte degli Altopiani, dal Cherle al Mandriolo era infiammato da secolari contese locali, che dovevano essere piegate alla ragion di stato. Cedere semplicemente territorio al nemico non era onorevole, occorreva agire con circospezione; inoltre Venezia aveva anche ben altre gatte da pelare con i Turchi e necessitava di normalizzare i rapporti con gli Asburgo. Nel contempo le popolazioni del posto dovevano essere in qualche modo coinvolte e convinte, con quella perspicacia che non difettava di certo alla Dominante. L'evidenza dei fatti era che Rotzo non riusciva a presidiare efficacemente un territorio aspramente conteso come le Vezzene***: erano in pochi e troppo distanti. Di boschi e pascoli ne disponevano a dismisura e non erano certo i roditori di San Pietro il problema per quelli. Era più appetibile la terra di valle, anche s'era già occupata da famiglie di Rotzo buona parte di quella di San Pietro fino alla Val dell’Orco. Il nuovo confine sul Costesìn era più controllabile dai Sanpieròti che dai Rotzesi, per antica consuetudine e prossimità geografica. Qualcuno aveva assai a cuore la stabilizzazione di quei confini e puntava a costituire un valido baluardo alle pretese imperiali, ma vedeva compromesso il suo disegno dalle astiosità fra gli abitanti di Rotzo e San Pietro.
Secondo la mia modesta opinione, il Lodo Piovene fu la sintesi di un percorso lungo e lungimirante volto a consolidare l’autorità veneta su questi nostri termini così tribolati. Fu un compromesso a più mani in cui Rotzo, prestandosi a fare il baucòto di turno, perdeva un territorio ormai incontrollabile e acquisiva stabilità e forze dall’unione con San Pietro. Quest'ultimo si tolse una spina dal fianco orientale e vide confermate le sue pretese sulle montagne. San Pietro non risulta abbia pagato a Rotzo i famosi 833 ducati di compensazione previsti dal Lodo, né i 50 all’anno in alternativa, che nessuno rivendicò; così come alla fine venne nei fatti ratificata la vendita delle Vezzene da parte di Rotzo, in cui el vécio baùco assurse a stratega, con buona pace di tutti.
Strano davvero che gente abituata a scannarsi per una dasa, sorvolasse su interessi ben più cospicui, ma tant’è. Il compromesso raggiunto era buono e tutti gli interessati ne trassero vantaggio e sviluppo, prova ne è che resse all’urto dei secoli. Fu modificato d'autorità da un’Impero che non aveva neanche cinque anni di vita e che evidentemente difettava della lungimiranza e dell’esperienza di mondo derivante da secoli di esercizio del potere.
Spesso la verità non si scrive nei libri di storia.
**A quel tempo i Cerato dai Forni erano conduttori del Bìsele e di Camprosà e pagavano livelli per due terzi a Vicenza e un terzo alla Chiesa di Brancafora, ma in seguito, in misura crescente, dovettero farlo anche ai Baroni di Beseno.
*** Non si trattava solo di scaramucce, ma di autentiche ruberie e razzie di armenti e legname, che culminavano a volte in omicidi da ambo le parti. Fruire di quelle terre diventava sempre più pericoloso per i veneti.
Fonti:
Biblioteca Bertoliana, Vicenza, Archivio Torre, b49/9;
T. Bellò - Storie di Confine - Ed. La Serenissima - 2006;
Don A. Toldo - Valdastico ieri e oggi - Ed. La Galiverna - 1984.
Grazie Gianni, molto interessante
RispondiEliminaComplimenti allo storico per il suo impegno di ricerca a cavallo dei secoli.Un lavoro così bene argomentato meriterebbe di essere parte integrante della didattica scolastica della valle per confermare che un passato lo abbiamo avuto a fronte di un presente fuggevole e un futuro che non si sa.
EliminaLodevolissimo lavoro di Gianni. Riguardo il consiglio di integrarlo nella didattica scolastica preferirei che a scuola si sviluppassero argomenti di storia attuale. Probabilmente, (ma almeno si sarebbe provato)si eviterebbero negazionismi che vanno dai lager al Covid!
EliminaGrazie ad entrambi per l’apprezzamento, ma c’è un motivo per cui preferisco occuparmi più di storia antica che di quella recente. Dici bene Anonimo delle 11.54, se la storia recente venisse raccontata in modo ragionevolmente obiettivo, ma così purtroppo spesso non è! Non posso certo dire che quella che abbiamo studiato a scuola non sia stata inquinata da visioni di parte odi comodo.
EliminaLe uniche cose certe sono le date e gli eventi macroscopici; riguardo ai fenomeni politici e sociali e ai rapporti di causa/effetto, ognuno li interpreta e spiega secondo le proprie ideologie.
Dov’è la verità di quello che è successo nella nostra generazione? Da Piazza Fontana alla Stazione di Bologna, passando per la strategia della tensione e Ustica, .. tanto per dire.
Anche se ci fermiamo alle tragiche vicende della nostra zona avvenute nel secolo scorso, sei sicuro che riusciremmo ad interpretarle e trasmetterle in modo univoco e obiettivo, senza urtare sensibilità e sollevare indignati distinguo?
Il complottismo è figlio certo di carenze culturali, ma soprattutto di capacità critica. Oggi si possono trovare facilmente informazioni di ogni tipo e fatta, ma si ha difficoltà a metterle in relazione e ad interpretarle. Ciò non perché non sappiamo (dato che possiamo facilmente documentarci) ma perché non siamo stati addestrati a farlo.
Torna utile richiamare una riflessione di Umberto Eco: “Per me l’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma colui che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve, e in due minuti”.
Penso che la cosa più importante sia comunque parlare dei fatti. Anche di quelli le cui verità si vedono in un caleidoscopio. La riflessione di Umberto Eco dice di cercare l’informazione ma dove la cerca un ragazzo di oggi al quale nessuno mai ha detto cosa è successo a Bologna il 2 agosto 1980? Ah sono l’anonimo delle 11,54.
EliminaSi, hai ragione, i fatti vanno raccontati. Gli approfondimenti poi andranno ricercati partendo dai fatti.
EliminaMah...solo in bella favola
RispondiElimina