【Gianni Spagnolo © 21I13】
La resilienza, secondo la definizione della moderna psicologia, è un concetto che indica la capacità di fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.
Sono persone resilienti quelle che: immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e persino a raggiungere mete importanti. [Wikipedia]
Resilienza è parola diventata popolare solo di recente, prima era confinata nelle pubblicazioni specialistiche e il comune cittadino scuolaobbligato era legittimamente autorizzato ad ignorare cosa fosse, salvo magari applicarla inconsciamente in ogni circostanza della vita.
Oggi invece la mettono dapertutto come il prezzemolo, talvolta assieme ad assertività e proattività, un tempo relegate ai curricula più dotti.
In verità, questa resilienza sbandierata come scoperta virtù, la dice lunga sullo stato psicologico generale della nostra società, dove la difficoltà, l’ostacolo, l’impreparazione, la poca voglia, e chi più ne ha più ne metta, è portato a scusa di fatalismo, rassegnazione e inazione.
Educata ad ogni diritto rivendicato e garantito, ritiene un virtuosismo ciò che da sempre è stata una imprescindibile necessità.
Che concetto avranno avuto della resilienza i nostri genitori o nonni alle prese con: fame, malattie, guerre, eccidi, pandemie, disoccupazione, emigrazione e disillusione?
Con che fegato riusciamo a esprimere compiutamente questo sostantivo riferito alla società attuale?
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