giovedì 24 dicembre 2020

Caro Gesù Bambino...



Sotto l’albero vorrei ritrovare l’innocenza

di Susanna Tamaro

Caro Gesù Bambino, ti scrivo dopo più di cinquant’anni di silenzio e, mentre ti scrivo, già so che scivolando nella tua cassetta questa lettera farà il rumore sordo di una busta che cade nel vuoto. La mia famiglia non è mai andata alla messa di mezzanotte né a quella di mezzogiorno, per contare i Natali passati insieme bastano le dita di due mani; malgrado ciò è rimasta indelebile nella mia mente e nel mio cuore la tua immagine di infante che, con le braccia spalancate, sorrideva al mondo. Edith Stein, la grande filosofa diventata poi carmelitana e poi ancora cenere in un forno di Auschwitz, nel 1932 scriveva: «La semplice parola Natale emana un fascino misterioso cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi. Anche coloro che professano un’altra fede e i non credenti, cui l’antico racconto del Bambino di Betlemme non dice alcunché, preparano la festa e cercano di irradiare qua e là un raggio di gioia». Dai ricordi della mia infanzia devo confermare che era proprio così. La trepida attesa della sera della Vigilia, avvolta dal silenzio, l’odore delle candele e della resina dell’abete mischiato a quello del linoleum tirato a lucido nella casa dei bisnonni, parlavano di un evento straordinario che non poteva accadere in nessun altro momento dell’anno; e straordinario era davvero perché, a un tratto, ai piedi dell’albero comparivano i pacchetti dei doni e quell’improvviso materializzarsi non aveva una storia visibile alle spalle. Non c’era Babbo Natale che solcava il cielo incitando le renne a bordo di una slitta carica come un furgoncino di Amazon né tanto meno il Goffo Vegliardo che si calava furtivamente attraverso i camini la schiena piegata da un sacco colmo di regali. Con te era diverso. Prima non c’era nulla, poi c’erano i doni mentre tu, sdraiato nella paglia, riempivi la stanza con l’innocenza del tuo sorriso.

In questi giorni di attesa mi sono guardata intorno, ma, invece che della gioia che tutti dovremmo irradiare come diceva Edith Stein, ho visto solo ansia e confusione. Potremo partire o no? Saremo gialli, arancioni, rossi o semplicemente verdi di rabbia o grigi per la nebbia delle indecisioni di chi ci governa? Pranzeremo in due, in quattro, in sei, con gli zii, senza zii, con i nonni in videochiamata? Potremo compiere tutti i riti che da ormai troppi anni ripetiamo, senza riuscire a comprendere quello che davvero succede? L’odiato pranzo di Natale, della cui esistenza cominciavamo a lamentarci già in ottobre, improvvisamente sembra essere diventato un diritto al quale è impossibile rinunciare. La nostra principale preoccupazione — e quella di chi ci governa — è che i negozi siano pieni, che si compri di tutto e che si mangi in abbondanza. E questo è comprensibile perché scambiarsi i doni, quando doni davvero sono, è bello e perché il giro dei soldi crea benessere, e il benessere è una cosa buona.

Però nessuno sembra preoccuparsi del vuoto dei cuori, dell’impossibilità di provare non dico la gioia citata da Edith Stein, ma neppure una forma di temporanea serenità. Ci distrarremo con il pranzo, con lo scambio di regali per lo più inutili, con la poca compagnia concessaci dalle regole del governo e, una volta rimasti soli davanti ai piatti sporchi e alle carte da regalo accartocciate sul pavimento, verremo colti da una profonda tristezza. Forse solo allora ci renderemo conto che il traguardo della felicità, che il mondo super efficiente e iperconnesso pone davanti a noi, non è molto diverso dalla finta lepre dietro alla quale i poveri levrieri erano costretti a correre. Se anche riusciremo ad afferrarla, non rimarrà con noi che per pochi attimi e, al suo dipartirsi, ci troveremo a sprofondare nella triste nostalgia della sua assenza. E così ci rimetteremo in pista per riprendere la corsa.

Se questo Natale siamo tutti allo sbando è perché un piccolo virus in pochi mesi ha mandato all’aria quella sazia stabilità che credevamo acquisita per sempre, ma questa bizzarra e imprevedibile forma del vivente in realtà non è stata altro che il suono troppo acuto che, vibrando nell’aria, a un tratto manda in frantumi i cristalli. Questo crollo ha reso evidenti due realtà che fino al secolo scorso erano intuitivamente e collettivamente condivise. La prima è che la natura in sé non è buona. La seconda è che non siamo né onnipotenti né immortali.

Ci siamo troppo rapidamente dimenticati infatti che per la natura, altro non siamo che grandi mammiferi e quando le popolazioni si muovono troppo, si sviluppano in modo incontrollabile e vivono in condizioni non adatte alla loro specie, la natura interviene, riportando l’ordine. Se io tengo troppe galline nel mio pollaio, se non le pulisco, se non le faccio stare al sole e le nutro male, non posso stupirmi se un giorno, aprendo la porta, le troverò tutte morte o moribonde. Ad avere un pollaio ormai siamo una minoranza e, in un mondo dominato dall’immateriale, è difficile rendersi conto e accettare una verità così lapalissiana. E proprio questo mondo senza più rapporti con la realtà fisica, questo mondo che ha rimosso la morte nella sua corporeità e che ci consente di dare ordini ad Alexia ed essere prontamente ubbiditi ha fatto il resto. La società che è crollata come un gigante dai piedi d’argilla aveva già da troppo tempo corroso tutto ciò che fonda l’essere umano nella sua complessità.

Eravamo — siamo — tutti stanchi, tutti profondamente sfiniti da questo correre intorno che ora mostra, con lampante chiarezza, la sua assenza di senso. Non sei stato proprio tu, caro Gesù Bambino, a dire da grande: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi?». È per questa tua frase che, con rinnovata fiducia, ho deciso di scriverti. Ma prima di interpellarti sui doni, voglio, in quanto tu rappresentante di tutti i bambini, chiederti perdono. La nostra società intontita dal benessere, inebriata dal più folle dei narcisismi, ha eliminato dal suo orizzonte l’infanzia. Abbiamo smesso di fare figli e quei pochi che vengono al mondo, da subito li trattiamo come adulti onniscienti. Abbiamo smesso di educare e, smettendo di farlo, abbiamo rinunciato alla nostra umanità. Per educare bisogna essere convinti che ci sia una direzione verso la quale andare; se questa direzione è assente, se la nostra vita altro non è che un pascolo errabondo, il mondo sarà sempre più sotto il dominio di ciò che sonnecchia nel fondo di tutti noi: la ferinità. È bello battere le mani, è bello cantare dai balconi dicendosi che andrà tutto bene, ma un bene senza una radice nel Bene viene spazzato via come una foglia secca al primo refolo di vento. Senza il bene, non c’è il male; senza il male, non c’è limite. E senza limite, scivoliamo inesorabilmente verso l’Homo homini lupus.

Nell’istante in cui scrivo, mi torna in mente il volto luminoso di Willy, un ragazzo mite ucciso barbaramente per aver cercato di difendere un amico, la cui famiglia credeva in te. Se si pensa che il bene e il male non esistano, ci si concentri sul viso di Willy e su quello dei suoi carnefici e si metta poi una crocetta sulla realtà in cui preferiremmo vivere. In quella di Willy o in quella dei suoi carnefici?

Caro Gesù Bambino, invidiosi di non essere gli artefici e i padroni della vita, abbiamo ridicolizzato l’esistenza dell’anima, del mistero che comunque avvolge l’essere umano nel momento in cui viene al mondo; abbiamo privato i bambini di questa dimensione, abbiamo dato loro scandalo negando l’innocenza, lo stupore, negando l’inquietudine che ci porta a interrogarci; li abbiamo consegnati senza alcun rimorso alla perpetua infelicità insoddisfatta dell’avere, li abbiamo resi fruitori inesausti dell’intrattenimento, trasformandoli in piccoli tiranni senza regno.

La claustrofobica cupezza di un mondo senza etica ci serra il cuore di angoscia. Tutto sembrerebbe perduto, ma tutto perduto non è perché ogni anno tu vieni al mondo e al mondo spalanchi le braccia offrendo a noi la possibilità di un nuovo cammino. Non è così forse per ogni bambino che nasce? La vita porta sempre con sé altra vita mentre la sua negazione ci spinge nei vicoli angusti della morte interiore.

E adesso, caro Gesù Bambino, ecco la mia richiesta. Quello che ti chiedo non è più bontà — il bene è già presente in maniera solenne nel mondo — ma ti chiedo la capacità di riconoscerlo. Per fare questo non abbiamo bisogno che ti carichi un sacco sulle spalle e che trascini il peso di improbabili doni, ma semplicemente che tu benedica i nostri occhi donando loro la gioia liberatoria delle lacrime.

Sì, dovremmo piangere a lungo per tutto quello che abbiamo sprecato, per tutto quello che abbiamo perduto, per le nostre vite di adulti infantili e per quelle degli infanti che, grazie alla nostra immaturità, non potranno mai diventare adulti, per il nostro cuore corazzato dal cinismo in cui la misericordia da troppo tempo non riesce ad aprirsi un varco, per la nostra incapacità di vedere il bello e il bene sparsi ovunque a piene mani, per la nostra cecità predatoria nei confronti del Creato. Perdonaci per il disprezzo della vita, per la nostra paura della sua potenza che ci spinge a calcolare, distinguere, selezionare in modo alla fine non molto diverso di quello in cui si calcolava, si distingueva e si selezionava sul binario di Auschwitz. Perdonaci per essere convinti che il vaccino sarà la salvezza, perché il vaccino sarà sì un meraviglioso, indispensabile aiuto — come meravigliosa e indispensabile è la scienza che si mette al servizio dell’uomo — ma non sarà in grado di dissolvere la nebbia della nostra infelicità. Per fare questo avremmo bisogno di un nuovo sguardo e di un cuore purificato che, con quello sguardo, dialoghi.

Il virus che ci ha atterrati è cinto da una malefica corona che sparge intorno a sé desolazione e morte. Forse la notte di Natale, grazie al dono delle tue lacrime, saremo in grado di vedere la corona che splende sul tuo capo, la luce di speranza che irradia da ogni bambino che viene al mondo. È di quello splendore innocente che abbiamo nostalgia ed è verso quello splendore che, come i Re Magi, dovremmo metterci in cammino.

(segnalata da Piero Pettinà)

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