«Quando
una festa si avvicina, gli uomini si preparano per celebrarla, ognuno
a modo suo. Ce ne sono molti e anche Benedikt aveva il proprio, che
consisteva in questo: se il tempo lo permetteva, la prima domenica
d’Avvento, si metteva in viaggio». Così comincia il bellissimo
romanzo breve dello scrittore islandese Gunnar Gunnarsson: Il
pastore d’Islanda, edito da Iperborea, che andrebbe riletto
ogni anno in questo periodo. «Avvento» ha la stessa radice di
avventura. Adventus infatti (da advenio, da cui
il nostro avvenire) era l’incontro/scontro con qualcosa di
straordinario che un uomo medievale, a seguito delle sue avventure
nella selva (della vita), finalmente raggiungeva per diventare
cavaliere: un evento tale da far morire il vecchio io e farne nascere
uno nuovo, così come accade nei momenti chiave della nostra
esistenza. E nel caso di Benedikt, un povero contadino islandese, con
un cane di nome Leó e con il suo montone Roccia, di che cosa si
tratta? In un periodo dell’anno freddissimo, a cavallo tra novembre
e dicembre, Benedikt si avventura tra le montagne per trovare le
pecore smarrite durante i raduni autunnali delle greggi, prima che il
gelo le inghiotta: «Dovevano morire di freddo e di fame solo perché
nessuno aveva la voglia o il coraggio di cercarle e riportarle a
casa? Erano pur sempre esseri viventi. E Benedikt aveva una specie di
responsabilità nei loro riguardi». Perché?
Responsabile
viene da rispondere. Chi risponde? Solo chi riceve un appello. Quella
di Benedikt non è infatti una gita o un diversivo, ma un avvento.
Lui, contadino, affronta l’avventura in cui mette a repentaglio la
sua stessa vita per un motivo semplice e decisivo per la trama di
ogni esistenza, rispondere alla domanda: per cosa vale la pena
vivere? Per quale «avvento» sono in gioco? Che cosa aspetto? Il
desiderio, fuoco della vita, è ancora acceso? Infatti ogni «avvento»
mira a un «natale». Nella cultura cristiana è Dio che si fa
trovare, tra le montagne, come un bambino qualunque e bisognoso di
tutto, così che i primi a diventare protagonisti
dell’avventura/avvento sono i meno protagonisti della storia umana:
poveri pastori che vegliano nella notte sul loro gregge. Ma questo
vale per ciascuno di noi. Ognuno, come Benedikt, sente che c’è
qualcosa di buono da fare della e nella propria vita, e che questo
qualcosa, di cui l’avvento è la ricerca, ha bisogno di un
«natale», cioè di una nascita: nostra e altrui. E la strada è la
risposta a cose e persone che hanno bisogno di noi, che ci chiamano,
anche se sono mute, come, per Benedikt, le pecore disperse nel gelo:
«Il suo scopo era semplice: trovarle e ricondurle a casa sane e
salve prima che la grande festa portasse la sua benedizione sulla
terra». Il racconto, da leggere in poche ore al calore buono di
casa, mentre magari fuori cresce una notte buia e fredda, si snoda in
una ricerca che, passo dopo passo, diventa un’epica del bene. E
quando sembra che tutto si metta male, accade sempre qualcosa che
rilancia la scommessa fatta dal protagonista, proprio perché si
imbatte in qualcun altro, come lui, che si sta prendendo cura di un
altro pezzettino di mondo, ferito e disperso. La somma di tutte
queste quotidiane e piccole cure operate dai giusti salva «il
mondo», che è semplicemente ciò che abbiamo attorno e che troppo
spesso ignoriamo, ma che Benedikt trova anche in una candela che lo
ha guidato nel buio: «Prima di passare in casa, strinse lo stoppino
tra due dita. È un atto di compassione verso la luce, non lasciare
che si consumi invano». È questo il segreto dell’avvento, cioè
di ogni avventura che prepara una (ri)nascita: il coraggio e la
compassione per un pezzettino di mondo ferito o semplicemente
dimenticato. Ed è sorprendente scoprire quanto salvare quel pezzetto
di mondo salvi un pezzetto della nostra anima. Benedikt lotta con una
natura aspra che tenta in tutti i modi di congelare il suo desiderio
di bene, ripetendogli: ma a che vuoi che serva? E credo che lui non
risponderebbe «alle pecore smarrite», ma: «a non smarrirmi io»
nel gelo del cuore. Per vivere infatti non basta restare in vita, ma
occorre essere vivi: nascere e rinascere sempre.
Il racconto
del contadino islandese regala al lettore il senso di questa
compassione quotidiana che, in mezzo a tanto gelo, accarezza e
riscalda la pelle del mondo. «A Natale sono tutti più buoni», un
luogo comune che nasconde solo una cosa vera, a Natale ci ricordiamo
di poter essere un po’ più «presenti» (che in italiano vuol dire
anche regali): chi ha bisogno delle nostre cure e attenzioni (più
che mai in un Natale inevitabilmente segnato da tante ferite e
solitudini dovute al periodo attuale)? Se leggerete la storia di
Benedikt vi verranno in mente le risposte: dove l’autore arriva
inizia l’avventura del lettore, il suo coraggioso avvento, il suo
possibile Natale.
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