venerdì 31 gennaio 2020

Dal libro "Casotto tu nel cuore della Val d'Astico" Il triste lamento del vecchio larice - di Armando Serafini


Un po' di tutto - l'Amore

Aprire il cuore sembra chiedere una fiducia nell’amore, quando in realtà si tratta di non tradire se stessi e la verità di ciò che siamo profondamente.
Quando chiudi il tuo cuore per paura di sentire dolore, per paura di essere di nuovo ferito, per nascondere quella meravigliosa apertura che la mente chiama vulnerabilità, vivi una vita di estrema sofferenza e separazione. Il vivere dalla paura non ti è naturale, perché l’idea di essere separati gli uni dagli altri non corrisponde in realtà al naturale sentire dell’essere umano.

Ogni essere umano nasce immerso in una coscienza unificata di cui però non è consapevole.
La coscienza stessa, attraverso la forma del bambino, viene immersa in un campo di vibrazioni che esprimono la sofferenza della separazione e per il troppo dolore finisce per costruire una barriera egoica fatta di strategie e credenze che permettono temporaneamente a quel dolore di non essere sentito. A un certo punto della nostra vita, nel nostro percorso, quella sofferenza diventa troppo intensa e cominciamo cercare una risposta a quel dolore. Ecco che cominciamo un’indagine dapprima psicologica, nella mente, e poi se la nostra sincerità è sufficiente, un’indagine più profonda che può condurre a toccare la radice e l’illusione di quel senso di separazione. Il silenzio che sta dietro quel dolore e quella sofferenza di separazione è il vero cuore e da lì possiamo ascoltare quella vibrazione di sofferenza che non appartiene solo alla nostra apparente storia individuale, ma alla sofferenza dell’intero genere umano.

Possiamo risvegliarci attraverso l’amore. Sebbene viviamo come se fossimo individui separati, a un livello profondo noi sappiamo di essere una coscienza unica e il tradimento di questa verità è la ragione e la radice di questa stessa sofferenza. Ecco che la vera meditazione, ovvero la capacità di restare presenti alle emozioni senza interferire, senza reprimere, e senza esprimere, diventa la via per la trascendenza. La trascendenza è la sublimazione del piombo della paura della separazione nell’oro dell’amore, del vero amore, che non ho bisogno di un oggetto d’amore per esistere, un amore in cui non c’è amante o amato, ma solo amare. Il modo in cui di solito concepiamo l’amore è pensare che si tratti di un’emozione che passa da un corpo a un altro: crediamo davvero che quell’amore finisca quando la nostra storia d’amore finisce, che inizi quando la nostra storia d’amore inizia. In realtà quella storia è solo l’espressione del nostro amare.

Quando siamo in grado di non restare solo nella superficie della manifestazione, ma di entrare nella profondità del cuore, scopriamo che aldilà delle storie che la nostra mente intesse su cosa sia l’amore, esiste qualcosa di immortale, eterno e quindi sempre vero. È uno spazio di ascolto profondo, in cui io e te cessiamo di esistere, ed esiste solo amore. Non è un luogo dove io e te diventiamo uno, bensì uno spazio in cui siamo già uno e ci esprimiamo come io e te. Talvolta ci avviciniamo al riconoscimento di questo spazio, ma spesso finiamo per credere che la nostra storia d’amore sia l’origine di questo spazio di unità.

Ci perdiamo a quel punto nel riflesso di questo amore, invece che riconoscere nell’amore l’origine della nostra storia d’amore. La tua meravigliosa solitudine, quello spazio in cui ogni cosa nasce e muore, è quell’amore. Quando puoi stare in compagnia di qualcuno nello stesso modo in cui stai con te stesso, allora conosci questo spazio di comunione profonda, che non accade nell’oggettività della manifestazione che è la nostra storia d’amore, ma in quel silenzio che è il soggetto ultimo di ogni cosa.

Ecco allora che tutte le tue idee sulle storie d’amore cadono, ecco che non hai più paura che il tuo cuore si spezzi, perché sei stufo di andare in giro con un cuore spezzato. Ecco che sei pronto a vivere dall’apertura, senza condizioni, senza limiti, oltre la paura. Sembra sia una porta che passi dalla fiducia, ma non è la fiducia in un altro o in qualcosa. È il vedere che ogni cosa è te, è il vedere che la separazione è illusione, è vedere che è proprio quel senso di separazione che sembra proteggerci che in realtà ci fa soffrire. Fino a che la coscienza identificata con il concetto egoico difende il senso di separazione, pensando che la chiusura sia un’opzione migliore a un cuore spezzato, non conosceremo quella porta sublime dell’andare oltre limiti autoimposti dal condizionamento e dalle credenze della mente. Quella porta sublime è il cuore.

Il cuore non è un luogo fisico, non è un luogo di emozioni, ma il centro stesso della meditazione. Il cuore, il vero cuore, è silenzio. Riposa nel silenzio del cuore e scopri come ogni cosa parla di te, a te, per te. Riposa nel cuore e vivi quell’amare che è già vero, che è la tua vera natura, il tuo diritto di nascita. Questa la mia preghiera per te.

(Caterina Maggi - La porta sublime)

giovedì 30 gennaio 2020

Dal drone di Flores Munari - Forte Cherle


Dal drone di Flores Munari - Malga Camporosà

“Protesta dei pesci di fiume”, a Pedemonte in riva all’Astico il flash-mob contro le centraline



Si è svolto il 25 gennaio a Casotto, Pedemonte (Vi) – ci scrive Irma Lovato Serena – il flash mob promosso da cittadini e da associazioni ambientaliste denominato “Protesta dei pesci di fiume”: l’intento di tale manifestazione, svoltasi in contemporanea in un centinaio di luoghi d’Italia, è quello di informare e sensibilizzare l’opinione pubblica e gli organi preposti sull’utilizzo sconsiderato o poco accorto o per nulla controllato dell’acqua dei fiumi, da parte di chi gestisce centraline idroelettriche.
Negli ultimi anni si è notato nel territorio dell’Alto Vicentino, una capillarità lievemente sospetta sulla proliferazione di progetti idroelettrici; progetti che mettono a rischio i corsi d’acqua naturali, con tutte le conseguenze che ciò comporta, a partire dall’impoverimento della vita del fiume, fino al prosciugamento dello stesso; non casuali quindi gli altri due luoghi scelti per le manifestazioni: Valdagno e Valli del Pasubio.
Ben venga, sottolineano gli organizzatori, l’energia pulita generata da fonti rinnovabili, purché dietro a questa prospettiva ecologica non si nascondano interessi economici che vanno a discapito della collettività.
La nota del Wwf, chiede al ministro dell’Ambiente Sergio Costa lo “Stop ai progetti idroelettrici che mettono a rischio i corsi d’acqua naturali. E’ inaccettabile che le Regioni aggirino la procedura d'infrazione sulla Direttiva acque: dobbiamo evitare un ulteriore danno ai nostri fiumi. Anche quando si tratta di energia idroelettrica”.
E’ sotto i loro occhi, per chi vive sulle sponde dell’Astico, il cambiamento verificatosi dal 2010, anno in cui è entrata in funzione la centralina idroelettrica: oltre alla moria dei pesci, si nota la scarsità d'acqua presente nell’alvo del fiume fino a vederne, in alcuni periodi, la totale secchezza.
Indubbiamente i cambiamenti climatici stanno influendo su ogni forma di vita, ma ciò che appare evidente è che l’uomo non ha ancora compreso l’importanza dell’acqua quale “bene comune” non infinito e quindi da tutelare contro ogni speculazione e spreco.
Visto il silenzio assordante sull’argomento, viene da chiedersi da che parte sta la politica, il cui primo obiettivo dovrebbe essere quello di tutelare i beni comuni per il bene comune.
Ma ora all’orizzonte si vedono solo i cittadini a manifestare, per chiedere controlli intransigenti e ferrei su chi ricava sostanziosi utili, forse senza neanche rispettare il DMV (deflusso minimo vitale).
da Vicenza più
segnalato da Giuseppe Sentelli

Una risata allunga la vita





Erroneamente chiamato bucaneve, in realtà è "l'elleboro"

Nel cuore dell’inverno l’Elleboro apre le sue corolle coraggiose che non temono il freddo, un bel simbolo di forza e di speranz
Presente nella flora selvatica italiana, l’elleboro fa parte della cultura e delle tradizioni del nostro Paese.

mercoledì 29 gennaio 2020

I video di Gino Sartori - Monte Pasubio le 52 gallerie

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario... (Primo Levi) - Per non dimenticare...


Domenica 26 gennaio 2020, alle ore 17,30, la Sala Consigliare del comune di Valdastico si è riempita di persone che hanno accolto l’invito di fermarsi per ricordare i crimini della storia passata. Anche se non abbiamo più testimonianze dirette, ci sono molte persone che hanno studiato e si sono documentate perché le giovani generazioni sappiano cos’è accaduto e si ricordino che la cosa più importante, in ogni storia, è il rispetto per gli altri. Sono intervenuti a questo momento: il consigliere regionale Maurizio Colman, l’architetto Domenico Molo e lo storico-scrittore dott. Andrea Vollman. Assieme al sindaco Claudio Sartori, hanno portato un loro pensiero sul tema proposto, intervallati dalle musiche di Gabriele De Rosso che con chitarra acustica e violoncello ha creato un’atmosfera speciale. Interessante ogni intervento, ma sbalorditiva la carrellata storica che Andrea Vollman ha proposto, travolgendo il pubblico con date ed episodi, raccontando la storia degli Ebrei da Mosè ai nostri giorni: 2000 anni raccontati di seguito per provare a capire… Un evento che è stato voluto dall’Amministrazione che, vedendo la sala piena, ha avuto pieno consenso e che ha confermato l’orgoglio che il sindaco nutre per il suo gruppo. Raccontare per non dimenticare, per non ripetere, non per avere pietismo o altro, ma per conoscere, per capire che in questi 2000 anni la storia è stata colma di avvenimenti orrendi, ma che l’uomo ancor oggi, riesce a tirare fuori il peggio di sé, negando il rispetto per “l’altro”.

Lucia Marangoni Damari

Non mandate i vostri figli in gita premio ad Auschwitz


Contesto la parola gita in tutte le sue forme quando è riferita ai campi di sterminio.
Ai campi di sterminio si va in pellegrinaggio, non in gita.
Sono posti da visitare con gli occhi bassi, meglio in inverno con vestiti leggeri, senza mangiare il giorno prima, avendo fame per qualche ora.
La gita i ragazzi la devono fare a Lucca o a Spoleto. Ai campi di sterminio si va in pellegrinaggio, non in gita, e i bambini non sono adatti. E poi i bambini devono giocare e conoscere più tardi possibile i mali degli uomini. Gli stessi miei coetanei all’epoca sono rimasti indifferenti e ancora oggi mi chiedono cosa sia quel tatuaggio sul braccio.

Liliana Segre

Le "serate d'inverno" a Pedescala


Le “Serate d’inverno” proposte dalla pro loco di Pedescala, sono iniziate con l’appuntamento di venerdì 24 gennaio 2020. La serata ha ospitato Daniele Zovi con il suo libro “Italia selvatica”. il suo quarantennale lavoro in servizio al Corpo Forestale Dello Stato, gli ha permesso di stare al contatto con la natura, studiando gli animali tanto da diventare uno dei maggiori esperti in materia di animali selvatici. Autore di diversi trattati su questo tema ha spiegato al numeroso pubblico presente “Sotto al Portego”, il ritorno di tanti animali selvatici in alcune zone d’Italia e anche nel territorio dell’Altopiano e della Valdastico. Specie che rischiavano l’estinzione, ma che hanno ritrovato il luogo ideale per vivere e riprodursi, anche nei nostri boschi. Il libro che ha presentato, attraverso la storia di otto animali, traccia una cartina di un’Italia selvatica misteriosa e incantevole. Con le illustrazioni di Giuliano Dall’Oglio, il volume è un alternarsi di racconti con minuziose notizie tecniche che arricchiscono il lettore. È stata una serata interessante, intervallata da brevi filmati e fotografie che hanno aiutato a comprendere quello che veniva spiegato.

Un ringraziamento va a chi di anno in anno, organizza questi momenti culturali con impegno e dedizione e crede che siano occasioni speciali d'incontro. Spesso si sente dire che nei nostri paesi non c’è niente… partecipare ai momenti che ci vengono proposti è un modo per apprendere, per stare in compagnia, ma anche per dire il nostro GRAZIE alle persone che con il loro impegno, rendono possibili serate diverse. 
Ringraziando tutte le persone che hanno aderito alla proposta, ci diamo appuntamento alle prossime serate in programma.

Lucia Marangoni Damari

I tre giorni della merla




martedì 28 gennaio 2020

Il Castello di Montegalda






Ecco lo spettacolare Castello di Montegalda in provincia di Vicenza, un castello da far invidia persino ai Francesi!

Nel 1176 il Comune di Vicenza chiede ad Ottone, signore di Montegalda, di cedere le sue proprietà per costruire una fortezza militare a difesa del territorio vicentino contro gli attacchi dei padovani.
Nella prima metà del ‘200 il Castello viene conquistato da Ezzelino III da Romano mentre nel 1266 il Castello passa ai padovani e, in seguito, alla potente famiglia scaligera della Scala, signori di Verona. Lo stemma della famiglia della Scala è una scala a pioli, tuttora ben visibile sopra il ponte levatoio del ‘300 perfettamente conservato e ancora funzionante.
Alla fine del ‘300 il Castello diventa proprietà della famiglia Visconti, signori di Milano. Quando nel 1404 inizia il dominio della Repubblica Serenissima di Venezia, il Castello perde la funzione militare per diventare a poco a poco una villa nobiliare. A metà del ‘400 il Castello viene donato alla famiglia vicentina Chiericati per essere poi ceduto nei secoli successivi alle nobili famiglie veneziane Contarini, Donà, Grimani e Marcello. Il castello di Montegalda diventa la loro residenza estiva.

Le stanze interne conservano tuttora affreschi di Andrea Urbani, pittore paesaggista e decoratore veneziano del ‘700. Le statue del Castello sono invece opera della bottega di Orazio Marinali, scultore vicentino.
Nel corso dei secoli anche il parco viene arricchito con cipressi, alberi esotici, una limonaia e un bel giardino all’italiana. La famiglia Sorlini, attuale proprietaria del Castello, acquista il complesso a metà degli anni ‘70 e dopo un accurato restauro riporta il Castello all’antico splendore.
Veneto segreto

lunedì 27 gennaio 2020

La partita a carte con i Nonni - di Dana Carmignani


Si giocava a carte con Nonno e Nonna nelle sere di inverno. O meglio, loro giocavano.
Si mettevano allo stesso tavolo di ora, di punta d’angolo, rivolti l’uno verso l’altra. Il braciere in mezzo alle gambe, il fuoco che ardeva, e se le davano di santa ragione. Se le dicevano pure di tutti i colori e si zipittavano come bambini.
Io assistevo a quell’incontro come assistessi ad una commedia a più atti recitata solo per me.
Prendevo la mia seggiolina, anche quella ce l’ho sempre, e mi piazzavo fra i due anch’io col mio caldanino fra i piedi, i miei librini e di solito il micio in collo, e poi mi preparavo a quello spettacolo esilarante che si protraeva finchè nonno non ne poteva più e sbottava alzandosi di scatto e gettando il cappello sulla tavola urlando... “Vo’ alletto con te un ci gioo più!”
Io mi scompisciavo dalle risate piegata in due e tra un po’ rischiavo di cascare in terra, perché a quella scena finale, Nonno, non ci arrivava subito... prima gonfiava per diverse volte, perché tanto lei vinceva sempre... “ Tieni - diceva nonna a me accanto, porgendomi le sue vincite - tienimele te...” 
Mi toccavano le sue carte razzolate in quelle gettate che schioccavano sul marmo e mi sembrava facessero scalpore persino in quella cucina affumicata dal fuoco e dal fumo di nonno, che in quei momenti si intensificava. E io mi accorgevo dell’umore e delle carte perdenti che aveva in mano lui, proprio perchè cominciava a tirare quella pipa come fosse una ciminiera, ansioso come un pargolo che sa di andare incontro ad una perdita sicura, però non vuol cedere.
Gli occhi di lui, neri scuri guizzavano da sotto il cappello e la scrutavano, mentre si intorchiava i baffi con una visibile tensione che cresceva a man mano che perdeva.
“ Scopa!” Tuonava nonna, che, al contrario di lui, attenta, immobile, come un giocatore di poker, invece non batteva ciglio. Io solo mi accorgevo da una minima alterazione del labbro, che le si incrinava in un movimento impercettibile di lussurioso compiacimento, che lei era in una botte di ferro. Era lo stesso movimento invisibile quasi e sornione che nonna aveva quando me le meritavo, ma non mi faceva niente... avevo capito di piacerle tanto e avevo capito che bastava farla ridere. L’ironia di nonna era indiscutibile e sicchè, se ci riuscivo, se le si rizzava il labbro in quel modo in certi momenti, anche se mi toccavano, me le scansavo.
Ecco quando giocava a carte con nonno era così lei. Tutta un gongolio che io riuscivo a vederle addosso. Ed era irremovibile. Non c’era verso di nulla lei non demordeva, nemmeno durante le sceneggiate di lui.
Perché dico commedia a più tempi... perché di solito alla prima partita persa... lui faceva il verso di andarsene... si alzava scuoteva la seggiola... “Uhm ...” diceva annuendo, muto...
Lei doveva capire cosa voleva. Era sempre così nonno, lei doveva intendere da un mugulo, o da un’occhiata... e il bello è che lei capiva... “ Che voi? – diceva lei quando capitava anche a tavola che lui alzasse gli occhi mugugnando - che voi il vino? Un te lo poi piglià datte’... è lì...”
No, lui voleva che lei glielo mettesse davanti, proprio davanti il fiaschetto... “ Un lo poi alzà il braccio...?” – diceva lei, però poi glielo avvicinava.
Ma a carte no. Non si faceva corrompere. Rigida e risoluta rimaneva nelle sue posizioni. Conosceva bene i suoi polli, infatti lui, dopo la prima alzata, tornava indietro.
Lei dava un’occhiata a me di sottecchi, senza fiatare, come volesse dirmi: “Hai visto bimba... così si fa...”  infatti nonna non solo a carte, ma anche nella vita reale non si sottometteva mai a lui. Lo rispettava, a volte lo assecondava, lo seguiva, ma sempre rimanendo ferma nelle sue posizioni che se si contrapponevano a quelle di lui si facevano sentire... Imparavo il rispetto reciproco da due vecchi che se le davano a carte, ma si amavano e si erano amati tutta la vita.
Ripartiva la partita, lui si rimetteva a sedè... e di solito riperdeva... io mi riscompisciavo... lui faceva i soliti versi... a volte pigliava anche l’uscio dell’andito per andà sù... e poi si risedeva perché non gliela voleva dà vinta in ogni modo...
“Oooh... falla finita d’andà sù e giù... che viene freddo... chiudi l’uscio e mettiti a sedè... che ti dò la “riperdita”...
Lei proprio non gli dava soddisfazione, anzi infieriva, non gliene passava una al poromo... che mogio mogio si rimetteva a sedè chiudendo l’uscio, anche quello sempre lo stesso, che dà sull’andito delle scale e che pure chiudendolo non certo sortiva l’effetto di più calore. Solo che in cucina se si stava chiusi rimaneva un po’ più di tepore che del resto della casa.
E noi si stava chiusi, si stava in pratica solo lì al canto del fuoco e con persino gli scuroli sprangati che d’inverno eran bloccati già alle quattro.
In quelle sere dei miei ricordi esilaranti, non c’era altro in casa, né stufa, ne acqua né frigo... figuriamoci la televisione... niente... solo quel camino acceso quei bracieri fra le gambe... quei due vecchi... i miei librini e il gatto.
L’aria entrava dagli spifferi e soffiava fuori in inverni duri che portavano tramontane che facevano ululare gli alberi come lupi, o piogge battenti che picchiavano nel buio sulle finestre tappate, come mani che volessero aprire a tutti i costi, per entrare a quel briciolo di calore che emanavano quel fuoco e quelle persone.
Perché, ebbene sì, c’era calore fra noi, che non era dato solo da quel povero fuoco. Io ero felice. In mezzo a quei due vecchi mi sentivo protetta e al sicuro, in quelle serate che non erano nemmen lunghe se si vuol vedere, perché in realtà duravano poco visto che si cenava alle cinque.
Quelle serate che a me parevano interminabili, erano corte invece e finivano presto, perché all’ennesima partita persa di nonno... ci si alzava anche noi...
“Via via bimba si va alletto tanto la battuta ni s’è data anche stasera”
Nonno era già partito tutto inculito ed si era avviato sulle scale prima che ci si avviasse noi.
Nonna parlava con me al plurale come se anch’io avessi fatto parte di quella “battuta”, come diceva lei, che aveva dato a nonno. Continuava a ridere sulle scale, guardandomi complice e trasmettendomi in quei momenti una sicurezza interiore, che mentre mi teneva per mano e si andava sopra in quel gelo e al lume di una piccola lampadina, mi pareva che non solo lei avesse verso di me, ma che anch’io riuscivo a trasmettere a lei. Come se io piccola, potessi sorreggerla nella sua anzianità, come se potessi sostenerla in qualcosa che non capivo bene, ma che lei mi trasmetteva con quei guizzi negli occhi, quei lampi di felicità che non eccedevano mai in tante coccole perché era sobria lei, però si vedeva.
Lo vedevo al meglio quando in quelle serate salivamo le scale e mi sembrava proprio che una grande e una piccola, una vecchia e una giovane, non fossero tanto differenti, ma insieme si spalleggiassero in un mondo che come quegli inverni era duro, e insieme si facevano coraggio e compagnia.
Mai come in quelle sere me ne son resa conto al meglio e al meglio ho ringraziato nelle preghiere che lei prima di dormire mi faceva dire.
Arrivate con nonno avanti, sul pianerottolo sopra, ci si divideva. Nonno borbottando una buonanotte, ancora imbronciato pigliava per la sua camera, che era rimasta la loro camera da sposi... nonna e io si dormiva, da quando ero arrivata lì, in quello che era chiamato il camerone dietro e che era stato della zia Melia, e si entrava in una stanza gelida che di bello aveva solo il fuoco a letto... io mi spogliavo ed entravo veloce al caldo ricordando... “Come gliele hai cantate nonna”... ovvio, prendevo le sue parti, e lei sorridendo si spogliava e si infilava con me in quel calduccio, io mi appiccicavo a lei e sognavo, sognavo un mondo fatto di poco, di bellezze che mi pareva fossero poi tutte lì in quel piccolo mondo dove in una partita a carte era racchiuso anche l’universo intero.

Non sono più tra noi - (5° - 01/20) - Giovanna Mattielli



La villa della morte nei colli euganei


Un vero e proprio campo di concentramento e la storia di una bambina morta ad Auschwitz.

Gli ebrei di Padova e del Padovano, vennero concentrati nell’antica villa Contarini Venier – situata nel cuore di Vo’ Vecchio nei Colli Euganei.
Il campo di concentramento di Vo’ è stato “riscoperto” una ventina d’anni fa grazie alle ricerche di Francesco Selmin che ne ha riportato le vicende nel libro Nessun “Giusto” per Eva.

La villa Contarini Giovanelli Venier è stata abitata fino a qualche decennio fa, oggi è di proprietà del Comune di Vo’ che l’ha aperta al pubblico come sede del Museo della Shoah e del Paesaggio.
Il campo di concentramento di Vo’ era così piccolo che Selmin ha potuto scriverne qualcosa come una storia totale: identificando per nome e per cognome tutti i detenuti e la maggior parte dei carcerieri. Selmin ha potuto inoltre ritrovare le tracce di alcune fra le suore elisabettine che prima dell’8 settembre avevano preso in affitto la villa, e che servivano i pasti ai futuri deportati. E Selmin ha ritrovato la bella figura del parroco di Vo’ Vecchio, don Giuseppe Rasia, che generosamente volle assistere gli ebrei internati nella villa, e i cui appunti costituiscono la fonte principale per questa storia della Shoah in miniatura.
Ci sono scene del libro che sono indimenticabili. Come quella di una bambina di sei anni – Sara Gesses, figlia di un ebreo di origini russe con un negozio di valigie a Padova – che, al momento della chiusura del campo di Vo’, cercò in tutti i modi di scampare a una sorte della quale, peraltro, doveva sfuggirle la portata. Dapprima, il 17 luglio 1944, Sara riuscì a non salire sui camion che trasferirono a Padova i reclusi di Vo’. E anche quando, l’indomani, una terrorizzata madre superiora delle suore elisabettine consegnò la bambina alle autorità tedesche del capoluogo, ancora Sara cercò di sfuggire al pullman destinato alla triestina Risiera di San Sabba, tappa intermedia del viaggio verso la Polonia.
Ma Sara, sei anni, non riuscì nell’intento. Finì per salirci anche lei, sul convoglio 33T, il treno per Auschwitz. Con tutti gli altri internati di Vo’, sbarcò a Birkenau nella notte fra il 3 e il 4 agosto 1944. E come quasi tutti i suoi compagni di viaggio, fu mandata nella camera a gas...

Veneto segreto

Per non dimenticare...


L'indifferenza è più colpevole della violenza stessa. 
È l'apatia morale di chi si volta dall'altra parte. Succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. 
La memoria vale proprio come vaccino contro l'indifferenza.
Liliana Segre


Du passi fin in Camprosà











1 - El strodo dei Valeri
2 - La vale

3 - Architetura de sti ani al Buso

4 - La Val del Trugole

5 - Peche de Fox

6 - Ormai ghe semo

7 - Deviasion

8 - I ricordi de Vaia

9 - La casara: al 26 de genaro core l’acqua nele gorne

10 - El campigolo

11 - Fora par i Fundi

Alessandro Toldo African

I gnochi con la fioreta

Una pietanza che geograficamente nasce nelle prealpi vicentine, parte della Lessinia e delle piccole dolomiti: ovvero gnocchi senza patate!
Ma come?! Eh sì, al posto delle patate vengono impastati con la “fioreta”, una specie di ricotta molto liquida prodotta nelle malghe: veniva preparato dai pastori durante l'alpeggio impastando la farina bianca con la ricotta semiliquida raccolta al suo primo affiorare.
Il risultato ottenuto è un primo più leggero dei soliti gnocchi di patate, ma altrettanto allettanti e gustosi, con quel tocco di acida freschezza che ci riporta subito alla genuinità dei prodotti lattiero caseari tipici delle malghe di montagna.
Un piatto dall'antica bontà nato nei primi anni dello scorso secolo.

domenica 26 gennaio 2020

La pagina della domenica




LA RIFLESSIONE

C’era una volta un contadino che si accorse di aver perduto l’orologio nel fienile.
Non si trattava di un semplice orologio, ricopriva per lui un valore affettivo.
Dopo aver cercato in lungo e in largo tra il fieno, si arrese e chiese l’aiuto di un gruppo di bambini che stavano giocando davanti al fienile.
Promise loro che chi lo avrebbe trovato avrebbe ricevuto una ricompensa.
Udito questo i  bambini accorsero nel fienile, perlustrarono tutto attorno e dentro l’intero pagliaio ma non riuscirono a trovare l’orologio.

Proprio quando il contadino stava perdendo la speranza di ritrovare il suo orologio, un ragazzino gli venne incontro e gli chiese di avere un’altra possibilità.
Il contadino lo guardò e si chiese, “Perché no?
Dopo tutto questo fanciullo mi sembra sincero.”
Per cui spedì il ragazzino di nuovo nel fienile.
Dopo un po’ il giovane uscì con in mano il suo orologio!
Il contadino era al tempo stesso contento e sorpreso e gli chiese come fosse riuscito laddove gli altri avevano fallito.
Il ragazzino rispose, “Non ho fatto altro che sedermi sul pavimento e ascoltare.
Nel silenzio ho udito il ticchettio dell’orologio e l’ho semplicemente cercato in quella direzione.”
Una mente quieta può lavorare meglio di una mente agitata.
Concedi alla tua mente qualche minuto di silenzio ogni giorno,
e vedrai quanto precisamente ti aiuterà a portare la vita nella
direzione che ti aspetti!

IL VANGELO DELLA DOMENICA

Mt 4,12-23

In quel tempo, quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
Terra di Zàbulon e terra di Nèftali,
sulla via del mare, oltre il Giordano,
Galilea delle genti!
Il popolo che abitava nelle tenebre
vide una grande luce,
per quelli che abitavano in regione e ombra di morte
una luce è sorta.
Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.
Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.


LA POESIA

C'è una rosa
per ogni stagione
o un fiore nato apposta
per i giorni bui.
Ma gli occhi non sanno
dove guardare,
difficile scovarla,
sentirne l'odore
tenuto al chiuso
dal freddo di gennaio.
Ed io mi adeguo
al giorno privo
di colori,
allo sguardo perso
nel cuore dell'inverno.

Francesca Stassi

LA FRASE

Sii la Persona che rompe il cerchio:
se sei stato giudicato, scegli la comprensione.
Se sei stato rifiutato, scegli l'accettazione.
Se sei stato umiliato, scegli la compassione.
Sii la Persona di cui avevi bisogno quando stavi soffrendo,
non la Persona che ti ha ferito.

IL PROVERBIO

Passà che xè Nadàle... tuti i dì xè carnavàle... 



Dal drone di Flores Munari - Ossario Monte Cimone


Par l'anno novo... tute le galìne le fa ovo...

Non c'è gallina ne' gallinaccia, che di gennaio l'uovo non faccia”. 
Per le galline, gennaio è un mese favorevole, ricominciano a deporre le uova dopo il periodo della muta, e avere uova per la tavola o per barattarle o venderle nella bottega di paese era un'importante risorsa dei vecchi tempi...

(la campagna appena ieri)

sabato 25 gennaio 2020

Il tempo del gelo - di Dana Carmignani

Più che dalla fine delle feste, il primo mese dell’anno, si rappresentava al meglio col freddo. Cominciavano in questo periodo le gelate, che interessavano tutta la campagna, ma anche case e persone forzatamente.
Il fuoco in questo periodo non si spengeva mai. L’unico mezzo di sostentamento per bestie e cristiani andava tutto il giorno, producendo quel tanto di calore che bastava per vivere o sopravvivere ad inverni rigidi che proprio in questo mese e in quello dopo, davano i loro picchi più forti di un diaccio, che imperversava ovunque.
La brinata era spettacolare al mattino e così bianca spennellava prati e alberi che rimanevano incantati in posizioni che pareva fossero state prese di proposito dagli arbusti, come se giocassero a qualche gioco particolare che solo loro conoscevano.
Mani che si protraevano al cielo allargandosi come dita vogliose, o allungandosi al contrario verso terra come se cercassero un qualcosa di incommensurabile, mi rincorrevano in quelle mattine così gelide, mentre con la bicicletta, per seguire il mio compito di scolara, seguivo la strada, osservando intorno un cielo che si alzava sopra di me protettivo come sempre.
Il bello di quei giorni gelidi è che era bello, di solito sole e cielo azzurro, imperversavano dopo quelle mattinate, e insieme al freddo davano una consistenza strana alla giornata, perchè vedevi coesistere insieme pur se sembra strano, tutte le stagioni e potevi quasi toccarle.
Il rio gelato era un incanto, il ghiaccio bloccava l’acqua che si fermava in lastre piene di bollicine e che riflettevano la luce. I ghiaccioli pendevano dai tetti, dalle carrucole del pozzo, ogni rivoletto d’acqua era fermo ghiacciato in un istante che i primi raggi di sole avrebbe sbloccato, come se un incantesimo avesse fermato la vita stessa pensavo e poi la facesse di nuovo scorrere.
Anche la nostra vita, già difficile in quei giorni diventava più dura, ma io non la sentivo. Mi ero abituata a mettere i panni nel letto al mattino prima di indossarli, per scaldarli un po’. Le camere, come il resto della casa erano gelate, e poi mi precipitavo di sotto al fuoco che andava.
Non mi rendevo conto della difficoltà, era per tutti normale vivere in ristrettezze economiche e quella era la vita in inverno per i contadini, una serie di compiti che dovevi mettere in pratica tu lo volessi o no se volevi andare avanti.
Uno dei compiti del periodo che prevedeva quel gelo feroce, ma anche giornate splendide di sole e cielo azzurro, era la preparazione dei sostegni che sarebbero serviti per la vigna o altre piante.
Ecco, in quelle giornate nonno cominciava a tagliare le canne sulla puntina e le preparava per usarle... venivano tagliate a misura, appuntite in fondo e pelate. Venivano belle liscie levigate e sistemate per poi essere messe a sostegno delle piante di viti nella vigna o della pergola, anche di roseti o fiori... le canne servivano sempre. Insieme alle canne, si preparavano anche le calocchie, speciali pali di varie misure, sempre per lo stesso motivo di sostegno, solo che queste ultime si prendevano e si sbucciavano proprio come delle patate. Nonno eseguiva l’operazione a giornate intere, con quegli scarti di lavoro che si ammucchiavano ai suoi piedi, con me che osservavo ballettando intorno e pregustando già il falò che con quei residui si sarebbe fatto per l’ultimo giorno di carnevale. Infatti nonno, già preparava quell’incombenza, portando i resti di quelle pelature, sul prato davanti in preparazione di quel rito che a me e ad Argo, il nostro cane lupo, piaceva tanto.
Si tagliavano anche i salici, da noi “torchi”, per farne legacci di varie misure, che servivano per legare viti e tutto ciò che necessitava e per far cesti e canestri.
Si stava fermi a gennaio al gelo? No... si stava un po’ più accorti, tanto quanto il tempo lo permetteva, ma poi si lavorava e si usciva e si stava fuori, o almeno io stavo fuori, a ginocchia scoperte, senza guanti, senza cappello, senza niente, ma con la capacità di stabilire un contatto fra me e quella natura che mi ospitava, che poi non mi avrebbe abbandonato mai. Un contatto che anche in quelle gelide giornate di gennaio, trovava modo di esprimersi, fra mondi immaginari che, proprio per quello, per il gelo, mi sembravano ancor più immaginari e non reali.
Mi pareva di vivere esperienze che dovevo captare, imprimermi nel cervello come chiodi conficcati che bloccano emozioni che non devono scappare, che non devono esistere solo per un attimo, ma fermarsi, imprimersi nei ricordi, nella memoria, per continuare e continuare anche quando non ci sarebbero state più. Devono continuare perché tu le hai vissute certe emozioni, le hai viste, le hai toccate con mano e le hai sistemate dentro di te... questo dovevo fare in quei giorni gelati… sistemare la vita.

Un po' di tutto - riflettere

Si può riflettere mentre si stira o si fa un lavoro ripetitivo, prima di dormire o durante una passeggiata
Oppure mentre si fanno le pulizie o si guida la macchina, e anche durante una psicoterapia.

Si può riflettere in qualsiasi momento e qualsiasi luogo, ma abbiamo un bisogno innato di 'riflettere'.

Riflettere non è rimuginare, non è trovare una soluzione,  è lasciar libero il pensiero di collegare fatti, recuperare ricordi, far emergere sensazioni.

È in questo lavoro di "ricamo"  che costruiamo e affiniamo la nostra capacità di lettura del mondo, ed è la chiave delle nostre scelte.

Agire, fare, impegnarsi continuamente serve a riempire, e non  lascia  spazio al vuoto e alla riflessione.

È nel vuoto e nei momenti di riflessione che si costruisce la vita.

Organizza la tua vita per trovare lo spazio.
Regalati momenti di vuoto.

Vuoto di parole, vuoto di azioni, ma pieno di "te".

Fin fa piccola il mio vuoto lo cercavo tra le vigne assolate dei pomeriggi d'estate nella campagna di mia nonna, oppure  nelle passeggiate tra le colline.

Quel verde mi è rimasto dentro e lo cerco ancora adesso, è il mio luogo del vuoto.

Cerca il tuo posto per fare  vuoto e silenzio,  è in quel luogo che può parlare la tua anima.

Elettra-web

Femmina di picchio rosso - Ivan Mosele


E poi dite...

giovedì 23 gennaio 2020

Bla-bla-bla

"Fare pace con le parole, scordarsele se è necessario, dare loro il giusto peso che - ormai lo so bene - deriva in buona parte dalla bocca che le pronuncia, non farci troppo caso alle parole se è necessario per scansare una ferita, non confidare troppo nelle promesse, che a pronunciare grandi frasi sono bravi tutti, a mantenere gli impegni solo pochi. Non fermarsi alle parole, anche se sono affascinanti, guardare oltre... sempre, aspettare... aspettare i fatti, che le parole sono come una bella confezione, ma il contenuto è ben altro e poi si rischia di rimanere delusi, molto.
Belle parole possono anche nascondere brutte persone, possono essere utilizzate per annebbiare, per prendere in giro, per rendere meno amaro quello che piacevole non è. Io le amo le parole, ma a volte mi fanno paura, il modo in cui vengono usate mi disturba, senza pensare, senza sceglierle, mi dispiace che delle parole si abusi, non amo chi ripete troppe volte la stessa cosa, ho come l'impressione che in realtà voglia dire altro, mi basta una volta sola, perché io, alle parole, ci faccio caso.
Non mi piace la facilità con cui le persone usano le parole per tagliuzzare l'anima, non mi piace chi si nasconde dietro le parole e usa le più dolci per mostrarsi diverso da com'è, non mi piace chi non pensa quello che dice, non mi piacciono le parole vuote.
Io le amo le parole, le amo davvero ma un po' le temo quando sono in bocca a chi gioca con i sentimenti e con le speranze altrui, a chi le utilizza male, a chi non ascolta nemmeno il suono di quello che dice."
Laura Messina-web

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...