mercoledì 9 agosto 2017

Siberia


C’è una Sapienza, nelle cose che ci circondano, in cui siamo immersi e di cui facciamo parte, che sovrasta la nostra percezione. Con tutta la nostra tecnologia, la nostra arte, la nostra filosofia, noi siamo sempre comunque infinitamente piccoli al suo cospetto. Mi piace avvertire la sua presenza in quelle aree del mondo dove l’uomo sembra non aver parte, non essere così indispensabile come crede. Io amo in genere i posti in cui la natura è ancora padrona, in cui i flussi vitali obbediscono ad un inalterato ordine primordiale.

Uno di questi luoghi è la Siberia, quella distesa infinita che si stende dalla catena dei Monti Urali fino all’Oceano Pacifico.
Mi è entrata nel cuore la prima volta che l’ho sorvolata in aereo, una notte di primavera di parecchi anni fa in direzione della Cina. L’aereo andava incontro all’alba di un tersissimo mattino quando sotto di me, dopo un’infinita distesa bianca, apparve il lago Baikal. Era in disgelo e le lingue di ghiaccio che trasparivano da quelle gelide e profonde acque emanavano nella luce dell’aurora sfumature di cobalto così intense e belle che non saprei altro descrivere, ma che non ho più dimenticato.
L’ho poi sorvolata moltissime altre volte, in un verso e nell’altro, con ogni condizione di stagione e di tempo. Cielo permettendo, ho trascorso lunghe ore a inseguire i fiumi, le valli, i laghi, le montagne, le distese della taiga, le strade, le poche città, i lotti di taglio delle foreste, gli impianti minerari. La mia passione di ragazzo per la geografia mi aiutava a volte a riconoscere qualche fiume o città, ma era la deserta distesa intonsa e l'immensità degli spazi che più mi affascinava. 
Mi sono spesso chiesto perché la Natura non adoperi le linee diritte; pur essendo un eccellente architetto e ingegnere, sembra che queste forme non le appartengano proprio. Dove s’intravede una linea diritta: che sia strada, ferrovia, bordo di foresta disboscata o altro, lì, state pur certi, che c’è la mano dell’uomo.
Come poi spesso mi accade, per uno strano magnetismo che non so meglio spiegare, capita che prima o poi  ci vada pure in quei posti che attraggono la mia immaginazione.
Ecco che allora in Siberia ci ho messo anche piede, in più occasioni. La sua aria frizzante e secca, da sanatorio per tubercolotici, unitamente al freddo, che io amo, ha contribuito a rendermela ancora più amica, nonostante l’indubbia ostilità di un clima estremo e di inverni semestrali.
Le sue bacche selvatiche, i suoi funghi spadellati con le patate, i ravioli di orso; anche la culinaria, per cui non va certo celebre, ha lì un suo fascino particolare.
Da vecchio fondista m’è rimasto purtroppo il rimpianto di non aver potuto praticare quelle foreste con gli sci, ma chissà!

Un giorno mi trovavo dalle parti di Seversk, nel distretto di Tomsk, antica capitale della Siberia. Ero sbucato di fronte ad un fiume placido e maestoso, della larghezza che va dal Campolongo allo Spitz. A me, abituato all'asfittico corso incassato dell’Astico pareva veramente enorme. Ne chiesi il nome, da dove nascesse e dove sfociasse. I miei accompagnatori locali si guardavano l’un l’altro, riuscendo a mettersi d’accordo su che nome avesse, ma non sapendo indicarmi la fonte né la foce. Per loro era il fiume del posto, punto e basta; con tutti quelli che ci sono in Siberia non era dirimente sapere altro.

Era il Tom, da cui la città ha preso il nome. Nasce sui monti della Chakassia, verso la Mongolia, per confluire nell’Ob dopo 827 Km di corsa e farsi trasportare da questi nel Mar di Kara altri 2700 Km più a nord, oltre il Circolo Polare Artico con un immenso delta  di 4000 Kmq. Numeri davvero stratosferici per il mio imprinting.
Tutto in Siberia è estremo e gigantesco: gli spazi, il freddo, le risorse. Solo la densità di popolazione va in senso contrario.
Mi faceva strano vedere i prati di settembre, presidiati da una sola mucca ogni dieci campi. Volevo chiedere la ragione di tanto spreco, ma mi è fortunatamente bastato riflettere per capire che con l’inverno lungo sei mesi la bestia non aveva comunque granché da compiacersi.
Mi faceva pure strano la gran quantità e la bontà dei funghi che si trovavano nella foresta, che avrebbero fatto la felicità degli assatanati cercatori delle nostre parti. Il diametro delle grondaie, che era pari a quello del camino della casa vecchia, le casette sghembe per lo scioglimento del permafrost. Il mio vecchio parka Woolrich, che in Italia non mettevo più da anni perché mi teneva troppo caldo e che qui mi lasciava contare anche i buchi delle cuciture dai quali entravano spilli di gelo a – 27°C. La barba, che il respiro gelato saldava con i baffi e che non mi lasciava neanche ridere. Il calore all’interno delle case, che è sempre esagerato; un po’ come nei paesi tropicali, che prediligono l’aria condizionata al massimo.
Per contro la durezza della vita, specie durante un inverno lungo sei mesi, con la sua forzata reclusione, il massiccio ricorso all’alcool e la precarietà dei rapporti sociali che questo spesso provoca.  
Luci ed ombre di un territorio immenso, che forse i cambiamenti del clima renderanno in futuro meno isolato e più ospitale, ma anche meno affascinante (almeno per me).

Gianni Spagnolo

3 commenti:

  1. Bellissima descrizione, magìa della parola di questo novello Marco Polo. Complimenti Gianni! Esci allo scoperto, tira fuori dal cassetto il tuo diario di viaggi, pubblica un libro. Ti preghiamo. Sarebbe un contributo meraviglioso alla letteratura, alla conoscenza di popoli, usi e costumi.
    ANONIMO

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  2. Bravo Gianni, mi piace come descrivi. Riesci a farci essere almeno con la fantasia. Spero che almeno ti piaccia girare visto che il tuo lavoro ti porta sempre in giro. Un bagaglio di esperienze non trascurabile.

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  3. Leggendo l’interessante report dell'ottimo Gianni, mi ritorna in mente il libro “Finchè i piedi ci portano”, di J. M. Bauer, che ho letto cinquanta anni fa.
    Letture magiche, che fanno scorrere la fantasia in spazi sconfinati.

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