martedì 29 novembre 2016

Chiuppano. Ripartono da qui le iniziative per chi è contrario alla Valdastico Nord

Il comitato ‘Salviamo la Val d’Astico’ si rimbocca le maniche e pensa alle iniziative future per impedire la realizzazione del progettato proseguimento della A31. Ed il netto e ribadito ‘No alla Valdastico nord’ diventa anche un modo per fare il punto della situazione sul territorio e le sue fragilità.

Il dovere di sensibilizzare la popolazione su un tema così delicato come l’impatto della autostrada sull’ecosistema della vallata e la necessità di fare pressione sulle istituzioni sono i due temi sul quale si è incentrato il dibattito, discusso giovedì nella saletta riunioni di palazzo Colere a Chiuppano.

Ad intervenire i rappresentanti di molti gruppi che da sempre si sono messi in prima fila per la salvaguardia della valle, tra i quali il comitato ‘Salviamo il rio Tovo’ di Arsiero ed il gruppo Legambiente che è attivato contro la discarica del Melagon di Asiago.

‘Dobbiamo prendere i comuni – ha detto in particolare Eros Zecchini, attivista del comitato ‘Salviamo la Val d’Astico’ – anche da un punto di vista amministrativo, in modo da perseguire una azione condivisa ed avere una forza maggiore contro la costruzione dell’autostrada. A questo scopo servono per il futuro nuove idee e progettualità, e capire qual è la prospettiva futura di questa vallata’.

‘Non deve essere trascurata – ha sottolineato invece Giuliana De Marchi, coordinatrice del gruppo – la necessità di dare informazioni adeguate alla popolazione, in particolare sulla salute. I cittadini devono sapere cosa gli spetta se l’autostrada verrà realizzata’.

Presente alla serata anche il consigliere dell’unione montana Alto Astico Riccardo Fimbianti, che ha spiegato brevemente il suo lavoro di sensibilizzazione a livello sovracomunale. E’ infatti da poco stato approvato dal consiglio stesso la creazione di un comitato ad hoc per analizzare l’impatto che avrà sul territorio la realizzazione della autostrada e per fare informazione capillare. ‘Dobbiamo muoverci su vari livelli se vogliamo avere dei risultati concreti – ha detto Fimbianti – ed uno di questi è quello istituzionale. E non ultimo però bisogna dare delle alternative, soprattutto per quanto riguarda il traffico. Da pensare seriamente alla creazione di una linea ferroviaria, che porterebbe anche turismo in valle’.

La paura che serpeggia tra il gruppo è anche quella che l’idea dell’autostrada si stia ‘fossilizzando’ nella mente delle persone come un’opera ormai di certa realizzazione. ‘Dobbiamo fare informazione ed uscire con delle proposte concrete – ha concluso De Marchi – perché dal 2017 dobbiamo aspettarci un battage mediatico studiato per convincere la gente che l’autostrada è un’opera che fa fatta per il bene di tutti’.

Marta Borriero - altovicentinonline

Le false difese della "clausola di supremazia" di Francesco Farri


La "clausola di supremazia", contenuta all'articolo 117, comma 4 della Costituzione che entrerà in vigore se vincerà il Sì, stabilisce che "su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale". Queste leggi saranno, secondo il nuovo articolo 70, comma 4, approvate dalla Camera, visto che il Senato avrà al massimo 10 giorni di tempo per esaminare il testo (il termine è così ristretto da apparire "canzonatorio") e visto che, comunque, eventuali richieste di modifiche da parte del Senato possono essere rigettate dalla Camera. Tale clausola conferma la matrice marcatamente statalista e accentratrice della nuova Costituzione e dà al principio di preferenza della autorganizzazione della società rispetto allo Stato, cardine della Costituzione del 1948, uno schiaffo che si ripercuote sugli stessi principi supremi della Costituzione, formalmente non toccati dalla riforma.
I sostenitori del Sì affermano che tale clausola recepirebbe un principio già affermato dalla Corte Costituzionale prima della riforma stessa, e costituirebbe una regola di chiusura presente anche nelle più evolute costituzioni federaliste moderne (in particolare, in Germania e negli USA). Niente di più errato. In realtà, il principio affermato dalla Corte Costituzionale si declina in modo totalmente diverso e le clausole contenute nelle costituzioni tedesca e statunitense prevedono delimitazioni neppure lontanamente comparabili con la clausola Renzi-Boschi. Il principio affermato dalla Corte Costituzionale (cosiddetta "chiamata in sussidiarietà", elaborata a partire dalla sentenza n. 303/2003 e ripetuta con piccoli aggiustamenti nella giurisprudenza successiva) poggia su due requisiti fondamentali:
 1) l'esercizio del potere legislativo dello Stato in materie riservate alla competenza legislativa esclusiva delle Regioni può avvenire soltanto previa consultazione e accordo tra Stato e Regione interessata: "per giudicare se una legge statale che occupi questo spazio sia invasiva delle attribuzioni regionali o non costituisca invece applicazione dei principî di sussidiarietà e adeguatezza diviene elemento valutativo essenziale la previsione di un'intesa fra lo Stato e le Regioni interessate, alla quale sia subordinata l'operatività della disciplina" (sent. n. 303/2003). La necessità della consultazione e del coinvolgimento della Regione sono rimaste ferme nella sostanza anche nelle decisioni successive, tanto che per la Consulta “il mancato raggiungimento dell’intesa costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento” (Corte Cost., n. 6/2004);
 2) la chiamata in sussidiarietà ha presupposti e limiti precisi. Deve dimostrarsi che ai sensi dell'art. 118 Cost. una certa funzione amministrativa non può essere svolta in modo soddisfacente a livello sub-statale; conseguentemente, la deroga al criterio di riparto di competenze legislative stabilito dalla Costituzione deve limitarsi alla "organizzazione e (al)la disciplina delle funzioni amministrative assunte in sussidiarietà", poiché "il principio di legalità ... impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge". Si statuisce quindi in modo chiaro che la chiamata in sussidiarietà non poteva basarsi su "mere formule verbali capaci con la loro sola evocazione di modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito": infatti, come chiarisce sempre la Consulta nella sent. n. 303/2003, "ciò equivarrebbe a negare la stessa rigidità della Costituzione".
I due predetti elementi, richiesti dalla giurisprudenza costituzionale in materia di "chiamata in sussidiarietà", sono completamente assenti nel nuovo testo costituzionale, che àncora la supremazia a concetti amplissimi (come tali, suscettibili di strumentalizzazione) ed esclude il coinvolgimento delle Regioni. L'affermazione secondo cui la clausola di supremazia del nuovo testo costituzionale costituirebbe la positivizzazione di un precedente orientamento della Corte Costituzionale risulta destituita di fondamento. Anzi, nella parte in cui indica come possibile elemento sufficiente per l'avocazione di competenze legislative "la tutela dell'interesse nazionale", essa contrasta apertamente con la giurisprudenza costituzionale precedentemente formata e concretizza quello stesso rischio che la Corte aveva evocato in casi del genere, ossia la trasformazione della Costituzione da rigida a flessibile.
Quanto agli USA, l'articolo 6, comma 2 della Costituzione americana stabilisce che soltanto le leggi federali approvate in conformità alla Costituzione prevalgono sulle legge dei singoli Stati e, considerato che le competenze del Congresso federale sono elencate tassativamente all'articolo 1, Sezione 8 della Costituzione, appare evidente come non possa essere rinvenuto alcun elemento di somiglianza rispetto al sistema delineato dalla riforma Renzi-Boschi. Per inciso, gli USA prevedono da oltre duecento anni un sistema parlamentare di vero e proprio bicameralismo perfetto (articolo 1, sezione 7): sono quindi false le affermazioni secondo cui la Costituzione Italiana del 1948 sarebbe risultato l'ultimo esemplare di bicameralismo perfetto nel mondo progredito.  
Quanto al sistema tedesco, l'art. 72 della GrundGesetz afferma che lo Stato Federale ha in ogni caso potere legislativo quando e nella misura in cui la creazione di condizioni di parità di vita o il mantenimento dell'unità giuridica o economica nell'interesse nazionale richieda una regolamentazione a livello federale, ma chiarisce che ciò può avvenire soltanto in determinate materie indicate tassativamente e già di regola (art. 74) comprese nell'ambito della legislazione concorrente (immigrazione; alcuni settori economici come industria, professioni, banche e assicurazioni; pubblica assistenza; circolazione stradale; diritto alimentare e fitosanitario; responsabilità dello Stato; bioetica), mentre in altre materie (cura e protezione di natura e paesaggio, ricerca scientifica, espropri, spesa sanitaria, pianificazione territoriale, distribuzione della terra, distribuzione dell'acqua, ammissione scolastica, caccia) vale il principio opposto, ossia quello per cui la legge dei Laender ha il sopravvento anche se il legislatore federale le abbia regolamentate diversamente.

Ci si rende immediatamente conto che, senza considerare la presenza di una vera clausola di "reciprocità" che non è prevista nella nuova Costituzione italiana, la clausola di supremazia tedesca può esercitarsi soltanto in ambiti tassativi, mentre quella targata Renzi-Boschi non ha alcun limite e non patisce alcuna circoscrizione, prestandosi così a ogni abuso: anche considerato che la competenza legislativa esclusiva statale copre, in Italia, già tutto quello che può ragionevolmente incidere sulla unità giuridica ed economica del Paese, compresa la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale.
La verità è che, a differenza della "chiamata in sussidiarietà" precedentemente elaborata dalla Corte Costituzionale, la "clausola di supremazia" contenuta in quello che, vincendo il Sì, diverrebbe il nuovo articolo 117, comma 4 della Costituzione si caratterizza per una estrema e pericolosa vaghezza e ampiezza dei requisiti in base ai quali l'avocazione può avvenire e per l'assenza di coinvolgimento delle Regioni (che sono distinte dal Senato, neppure al quale peraltro è conferito un sostanziale potere di incidere sul meccanismo). Ciò apre la via alla commissione di ogni abuso da parte del Governo e della Camera da essa controllata, rimettendo il tutto a un sindacato della Corte Costituzionale che si troverebbe in queste ipotesi le mani sostanzialmente legate per la vaghezza del meccanismo previsto dalla riforma. Non è un caso, del resto, che la nuova clausola utilizzi proprio quel concetto di "tutela dell'interesse nazionale" che la Corte Costituzionale aveva messo in guardia dall'invocare a questi fini denunciando che "ciò equivarrebbe a negare la stessa rigidità della Costituzione". 
Che la riforma Renzi-Boschi tenda a trasformare nella sostanza la Costituzione Italiana da rigida (casa comune degli Italiani) a flessibile (strumento della maggioranza politica di turno) traspare in modo evidente da un molteplicità di elementi, che vanno dalle deplorevoli modalità di approvazione (maggioranze risicatissime e sempre variabili a seconda della stampella politica di turno) al legame propagandistico con la legge elettorale. La clausola di supremazia è uno degli elementi che traduce questo passaggio in dato giuridico inoppugnabile. Con buona pace di chi sostiene che essa non incida sui principi fondamentali della Costituzione Italiana.








lunedì 28 novembre 2016

La casa di Anacleto si sta abbandonando alla furia delle acque dell'Astico

Mi è stato chiesto da Gianni Toldo da Piovene la ripubblicazione di questa foto, che era stata scattata in diretta da Armando Spagnolo e prestata da Adriano Carraro per condividerla con tutti voi.

Ma fatela finita con queste giornate dell’ipocrisia




Non se ne può più di questa retorica alla giornata con cui i soliti ipocriti pensano di lavarsi la coscienza infiocchettando frasi fatte. Festeggerò la giornata contro la violenza sulle donne quando gli stessi ipocriti che la promuovono smetteranno di considerare il velo una libera scelta culturale. Proprio perché è la cultura il terreno di coltura della violenza. Le culture non sono affatto tutte uguali e soprattutto non sono tutte libere, anzi in realtà nessuna lo è proprio perché condiziona, volenti o nolenti, le nostre scelte. E la violenza, per definizione, è una coercizione della libertà. Una violenza psichica che può essere ancora più limitativa della libertà di una violenza fisica perché annienta la volontà. E allora ditemi come si possa considerare davvero libera una donna quando la cultura in cui vive la costringe ad adeguarsi all’imposizione tutta maschile di nascondersi. In Marocco quest’estate una giovane e molto intelligente guida (specifico per la Presidenta degli ipocriti che si trattava di un uomo), quando gli ho chiesto come mai tante giovani ragazze, apparentemente moderne e vestite alla moda, fossero velate, mi ha aperto gli occhi con una semplice quanto disarmante risposta: “per trovare marito”. Mi si è gelato il sangue, soprattutto quando mi raccontava che fino a pochi anni fa non lo portava nessuna, non era imposto dalla religione né dalla famiglia, poi qualche marito ha cominciato a farlo indossare alla moglie per dimostrare all’esterno quanto fosse religioso e padrone in casa propria, gli altri mariti hanno fatto altrettanto, poi sono passati alle figlie e in breve tempo quasi tutte le ragazze si sono convinte di avere più possibilità di farsi scegliere in sposa mettendosi il velo. In quel “farsi scegliere” c’è tutta la violenza che da millenni le donne subiscono in tutto il mondo. Non serve a niente cambiare l’ultima lettera di un mestiere, inventarsi un reato con un nome pietoso e offensivo, né sproloquiare di pari opportunità se non si prende atto di una semplice realtà: siamo animali istintivamente portati alla procreazione. Le donne, però, scontano quello che agli occhi degli uomini è un peccato originale imperdonabile: sono sempre certe di essere la madre del proprio figlio. Loro no. È banale? È riduttivo? Può darsi, ma la realtà è semplice, sono gli esseri umani che l’hanno resa complicata infiocchettandola di cultura. Volete forse negare che gli uomini soffrano da migliaia di anni della sindrome del cuculo? Quel terrore atavico di crescere e dare immortalità ai geni di un altro uomo. Osservate i precetti religiosi, il peccato di atti impuri, l’adulterio, il mito della verginità, la lettera scarlatta, la lotta per la minigonna, la rivoluzione sessuale nata grazie alla pillola anticoncezionale, la mutilazione dei genitali femminili, il velo, la cintura di castità, le streghe bruciate sul rogo, l’isteria, lo stesso matrimonio, inventato dagli uomini per segnare il territorio. Non ci vedete lo stesso filo conduttore? E pensate davvero che dopo 5.000 anni di sottomissione culturale bastino 50 anni di emancipazione femminile per mettere a tacere gli istinti animali di uomini insicuri? Forse, invece, di tante chiacchiere sarebbe banalmente più utile imporre il test del DNA ad ogni nuovo nato per iniziare a cambiare mentalità. Certo, abbiamo fatto un salto evolutivo incredibile, in occidente siamo in una situazione decisamente migliore perché le donne hanno dovuto raggiungere una certa indipendenza economica per smarcarsi dalla dipendenza psicologica e poter finalmente iniziare a scegliere. Ma siamo ancora anni luce dalla vera libertà reciproca di scelta, siamo nella confusione dei ruoli più incredibile, siamo al vagare senza bussola da un letto all’altro, siamo all’arroganza di donne cacciatrici ed al terrore di uomini preda, siamo ai rapporti virtuali che si consumano nell’arco di una spunta blu, siamo alla solitudine perché ci siamo dimenticati proprio di essere animali che si scelgono a vicenda per donarsi reciprocamente l’eternità. La direzione è giusta, ma la strada è ancora lunghissima e non si può transigere in alcun modo sulla libertà di scelta delle donne, basta un “quella è una facile” di troppo, basta un rossetto “troppo acceso”, basta una gonna “troppo corta”, basta un voltarsi dall’altra parte quando un vicino di casa ammazza di botte la figlia perché veste all’occidentale, basta un velo giustificato dalla cultura e tornare alla repressione e alla violenza è un attimo. E allora, invece di festeggiare una inutile giornata all’anno, chiedetevi ogni giorno quanto davvero ciò che dite, ciò che fate, ciò che pensate, ciò che giudicate, ciò che commentate nei confronti di qualsiasi donna incontriate la induca davvero a continuare a farsi scegliere o finalmente scegliere.
Barbara Di
Il Giornale 25/11/16

domenica 27 novembre 2016

Le «bufale» e il voto: così sui social crediamo a ciò a cui vogliamo credere



Il dibattito si è riaperto dopo l'elezione di Trump. Il problema però non sta solo nel «mezzo» che si usa. Occorre lavorare sull'educazione digitale




Ci volevano le elezioni americane e la vittoria di Trump per rimettere al centro del dibattito mondiale il problema del ruolo dei social, della verità e dell’informazione. Anche se, a ben guardare, tutti questi problemi si condensano in uno solo: il modo con cui ci informiamo e ci scambiamo informazioni nell’era digitale. Secondo l’Oxford Dictionaries il neologismo dell’anno è «post-verità». Sta a significare che il consenso di massa si basa sempre più su informazioni non vere (o totalmente false) che vengono considerate vere anche quando ne viene dimostrata l’infondatezza. Come ha dimostrato uno studio del CSSLab dell’IMT di Lucca, che si occupa di scienze sociali computazionali, «smentire le bufale è praticamente inutile». La maggior parte delle persone infatti anche di fronte alla verità non cambia comunque opinione. Non a caso, durante la campagna elettorale americana le bugie sono state più lette e condivise su Facebook degli articoli di giornale dedicati ai candidati e ai temi elettorali. Secondo Buzzsumo, che misura le conversazioni sui social, le principali 20 storie false sulla Clinton (soprattutto) e Trump, hanno generato su Facebook 8.711.000 tra like, commenti e condivisioni contro i 7.367.000 dei 20 principali articoli sui candidati, messi online dai più importanti siti di informazione. La notizia falsa più condivisa era intitolata: «Clamoroso: Papa Francesco appoggia Donald Trump». Seguita da: «Wikileaks conferma: Hillary (Clinton - ndr) ha venduto armi all’Isis».
Diffondere falsità su web e social non è soltanto un’arma politica (in Italia sul tema è in corso un durissimo scambio di accuse tra Movimento 5 Stelle e Pd) ma anche un business. Perché le bugie e le notizie ad effetto generano «visualizzazioni», che a loro volta generano denaro. Il Washington Post ha intervistato un uomo che ha fatto della falsità su web e social un’impresa fiorente. Si chiama Paul Horner, ha 38 anni, e oltre a guadagnare decine di migliaia di dollari al mese creando «bufale», è convinto di aver dato un contributo significativo all’elezione di Trump. «Ci sono riuscito perché le persone sono stupide – ha detto senza mezzi termini –. Nessuno controlla più niente, tutti condividono in continuazione cose, senza domandarsi se siano vere. Trump è stato eletto perché ha detto quello che le persone volevano sentire. E quando la gente scopriva che magari quello che aveva detto era falso, non le importava».
Ovviamente non bastano questi due esempi, seppur illuminanti, per affermare che i social e le notizie false sono stati più importanti nelle elezioni americane delle notizie certificate e della verità, ma è indubbio che il problema esista e sia enorme. Perché i social e il web non sono mezzi «neutri», ma attraverso algoritmi matematici (e a volte anche azioni umane), possono far pendere da una parte o dall’altra il flusso informativo (ma non solo) che ci appare ogni giorno davanti agli occhi. La colpa però non è solo di una sorta di «grande vecchio» che comanda tutto e tutti. Una parte importante di ciò che ci appare sugli schermi dei nostri pc, talblet o smartphone (e che finisce inevitabilmente per condizionarci) dipende dalle nostre scelte. Se riceviamo certe informazioni e non altre, è perché noi stessi – navigando su certi siti o non su altri, cercando certi termini e non altri, mettendo mi piace o condividendo certi post e non altri – abbiamo trasmesso ai computer dei signori del web come Google e Facebook un numero enorme di informazioni sulle nostre preferenze, compresi i nostri orientamenti sociali, religiosi e politici. Altro chiarimento necessario: uno dei motivi del successo dei social è proprio quello di farci connettere con persone che (spesso, molto spesso) sono affini a noi. Lo piscologo Jonathan Haidt l’ha chiamato «effetto Facebook». Andiamo sui social per sentirci rincuorati, coccolati e confermati nelle nostre scelte. Così facendo, però, finiamo per vivere in «bolle», che ci portano in realtà sempre più parziali. Un altro «bisogno» che viene risolto dai social è quello «di farci sfogare». Non a caso sempre più utenti li usano per litigare soprattutto con sconosciuti senza nemmeno dovere uscire di casa o guardare l’avversario negli occhi. Basta una tastiera. La questione, da seria che era, sta diventando drammatica. Non a caso Facebook, Twitter, Google e YouTube hanno annunciato misure per ridurre la quantità di odio e di falsità. Ma avere dei «poliziotti del web» che cancellano o bloccano i commenti volgari o le notizie false, è più difficile di quello che si pensi. Perché si può offendere e aggredire (anche pesantemente) senza usare parolacce o usando termini gergali. Per non parlare del fatto che esiste anche l’ironia o il paradosso, e insegnarli a un computer è un’impresa titanica. Un’altra questione è come arginare le notizie false su web e social – le cosiddette «bufale». Google ha promesso che farà apparire nel suo canale news, una scritta che ci informerà se la notizia proposta è «verificata» o «non verificata». Difficile dire se servirà davvero. Intanto Facebook ha spiegato che governare «bufale» e falsità sul suo social non è così facile. Peccato che quattro studenti della Princeton University hanno creato in 36 ore un’applicazione in grado di contrastare la diffusione di bugie. L’app è in grado di leggere in tempo reale un post e, confrontandosi con un archivio digitale sempre aggiornato, capire se una certa notizia arriva da un sito a rischio o da uno affidabile, e quindi eventualmente bloccarla. Purtroppo per fare davvero pulizia nei social non basta un’app o un «poliziotto del web». Costa fatica. Molta fatica. Per riuscirci dobbiamo impegnarci tutti. Nessuno escluso. Ogni giorno. Perché fare pulizia nel web e nei social è innanzitutto un fatto sociale ed educativo. Che richiama ognuno a precise responsabilità. Compresa quella di guardare tutta la realtà. Non è vero, per esempio, che sono solo le persone meno istruite a diffondere le bugie su Facebook e affini. A cadere nella trappola delle bufale, diventando a loro volta dei «propagatori» (incosapevoli) di falsità, sono anche tanti adulti insospettabili. Gente istruita e che ha posizioni di spicco nella società, e che per questo finisce involontariamente per «certificare» la «bufala» che condivide. Com’è possibile? Accade perché per muoversi nel web e soprattutto sui social servono competenze e «occhi» nuovi. Ma soprattutto serve una «soglia di attenzione» che chi frequenta i social tende ad abbassare. Perché chi va su Facebook e affini lo fa soprattutto per svagarsi. Se poi la «bufala» arriva da un sito che si spaccia per un giornale (ne esistono a decine solo in Italia), le sue notizie false appaiono ancor più credibili e la vicenda si complica ancora di più.
Intendiamoci: le bugie ci sono sempre state e i diffusori di bufale anche. Ciò che è radicalmente cambiata con l’avvento dei social è la facilità con la quale vengono diffuse, provocando danni enormi. Perché – come hanno spiegato sia lo spacciatore di bufale Horner sia il professore dell’IMT di Lucca – «la gente quando scopre che una cosa alla quale voleva credere è falsa, ci crede lo stesso». E non solo perché tutti vorremmo una pianta o una pillola miracolosa (che non esiste) in grado di curare il cancro. Ma anche e soprattutto perché certe notizie (pur false) confermano le nostre idee o demoliscono i nostri avversari, e in entrambi i casi ci fanno sentire meglio. A questo punto possiamo anche prendercela con la tecnologia e dire che i social non vanno frequentati. Il problema, però, come abbiamo visto, non è solo nel «mezzo» ma anche (soprattutto?) in noi. Per questo l’unico modo di combattere questa montagna di spazzatura che inquina la società è lavorare (anche) sull’educazione digitale. Di tutti. A tutte le età. Nessuno escluso.
avvenire.it
Gigio Rancilio
sabato 19 novembre 2016 
(segnalato da Patrizia Righele)

Oggi prima domenica d'Avvento. Si inizia a respirare aria di Natale. Poca del "vero Natale", troppa, esagerata, di quello consumistico, ma di questi tempi sarebbe già una conquista poter trovare un equilibrio suggerito dal buon senso. Buon Avvento a tutti Voi!


sabato 26 novembre 2016

Manovra, «spariti» 50 milioni di euro per curare i bambini dell’Ilva

I fondi avrebbero dovuto finanziare strutture sanitarie per aiutare i piccoli pazienti colpiti dall’inquinamento provocato dall’acciaieria di Taranto. Secondo i dati un minore su quattro, a ridosso dello stabilimento, ha problemi respiratori.


Spariti dalla manovra i fondi per curare i bambini dell’Ilva. Erano solo 50 milioni i soldi promessi dal governo per finanziare medici, infermieri, analisi cliniche e attrezzature sanitarie a Taranto destinate ad affrontare l’emergenza dovuta alle emissioni venefiche dell’acciaieria più grande d’Europa alimentata a carbone. Dagli ultimi dati epidemiologici la mortalità è in aumento. E un bambino su quattro dei quartieri Tamburi e Paolo VI, a ridosso dello stabilimento, viene ricoverati per patologie respiratorie. C’era la promessa del governo. Ma, improvvisamente, alle 4 del mattino di giovedì l’emendamento è’ scomparso. Furioso il presidente della commissione bilancio Francesco Boccia: «Senza alcuna spiegazione, per quella spesa che avevamo concordato di mettere tra le priorità non c’era più il via libera di Palazzo Chigi. Ne chiederò conto è non farò sconti a nessuno».
Le promesse e il giallo della norma sparita
Aveva suscitato entusiasmo il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, annunciando a Bari il 12 novembre, l’intenzione del governo di «aiutare Taranto» per concedere la deroga al blocco delle assunzioni e della spesa sanitaria. L’accordo con il governo era stato sancito dal presidente della commissione bilancio, Francesco Boccia, con il viceministro del l’economia Morandi e il sottosegretario Beretta. «Eravamo d’accordo che tra le spese più importanti, oltre al centro meteo di Bologna o alla coppa del mondo di sci, ci fosse questa. L’impegno era stato sbandierato, soprattutto dal sottosegretario Claudio De Vincenti, e poi dal ministro Lorenzin. Non c’è’ tarantino che non lo sapesse», tuona il pugliese Boccia. E racconta lo sconcerto del momento in cui ha scoperto che quell’emendamento non c’era più. Immediata la richiesta di chiarimenti alla task force del Mef, nella stanza accanto. «Avevo preparato io stesso l’emendamento. Non mi è stato detto perché non era stato inserito. L’unica risposta che ho avuto è che non era stato autorizzato da Palazzo Chigi». E, alludendo alla posizione critica del governatore della Puglia, Michele Emiliano, nei confronti della battaglia referendaria di Matteo Renzi, conclude: «Temo che qualcuno abbia confuso le vicende politiche con gli interessi di una comunità. Non si fa».

giovedì 24 novembre 2016

De Luca, inno al clientelismo: arrivano fiumi di soldi... portiamo voti al Premier...

L’audio con l’intervento in cui ha istruito più di 200 sindaci. Il governatore spiega che Renzi ha dato molti soldi alla Campania. «Che vogliamo di più?» 

di Marco Demarco-corriere.it 




Il governatore della Campania Vincenzo De Luca (Ansa)


«Qui non ci sono giornalisti e possiamo finalmente parlare tra di noi...». Comincia così Vincenzo De Luca. È martedì 15, e il caso Rosy Bindi deve ancora scoppiare. In un albergo a due passi dalla stazione centrale di Napoli, il governatore arringa più di duecento amministratori. Obiettivo: fare vincere il Sì al referendum. Come? E questo è il punto. In venticinque minuti tirati allo spasimo, della serie «scatenate l’inferno», De Luca parla come Massimo Decimo Meridio prima della battaglia. Inneggia tra il divertito e il compiaciuto al clientelismo, parla di fondi pubblici ricevuti e da distribuire, invita i sindaci in sala a preoccuparsi nei prossimi giorni solo ed esclusivamente del referendum, mette a disposizione uomini del suo staff istituzionale. E come se non bastasse, chiede una rendicontazione scrupolosa di quel che si farà, chiama «testa di sedano» i commissari governativi che controllano la Sanità campana, ammette di averla sparata grossa, cioè di «aver fatto demagogia», quando alla presenza di Renzi ha chiesto duecentomila nuove assunzioni negli uffici pubblici meridionali.

Infine, liquida con un sonoro «vaffa» Bersani. Perché proprio lui? Lo spiega: perché è uno di quelli che nelle campagne elettorali, invece di fare promesse, si preoccupa delle compatibilità di bilancio. «Ma vi pare!», chiosa tra le risate. Il senso di tutto il discorso è chiaro. «Vi piace Renzi non vi piace Renzi a me non me ne fotte un c...», dice De Luca. Quel che importa — la vera ossessione — è il risultato referendario. Leggere la sintesi dell’intervento di De Luca ai sindaci, pubblicata da Fabrizio d’Esposito su Il Fatto Quotidiano, però non basta. Bisogna ascoltare l’audio, sul sito dello stesso giornale, per coglierne la portata vera, il machiavellismo ridotto ai minimi termini, la dimensione pragmatica della politica elevata a sistema. Forse in quel che dice De Luca non ci sono elementi di rilevanza penale. Forse esagera chi sui social già grida al voto di scambio come reato conclamato. Forse, chissà. Ma un dato è certo: quei venticinque minuti di chiamata alle armi non sono l’invenzione di uno sceneggiatore incline all’iperbole. Cetto La Qualunque qui non c’entra nulla. Tanto meno c’entrano i campioni della commedia all’italiana, i Sordi, i De Sica, i Verdone, a cui De Luca si è poi richiamato per giustificare il suo «infame da uccidere» — che non è proprio la stessa cosa di «te possano ammazzà» — rivolto alla presidente della commissione Antimafia. «I suoi sono sussulti emotivi» hanno scritto i consiglieri regionali di maggioranza in una nota di solidarietà.
 











All’Hotel Ramada, davanti ai sindaci, De Luca inquadra la situazione a suon di euro. «Abbiamo fatto — dice — una chiacchierata con Renzi. Gli abbiamo chiesto 270 milioni di euro per Bagnoli e ce li ha dati. Altri 50 e ce li ha dati. Mezzo miliardo per la Terra dei fuochi e ha detto sì. Abbiamo promesse di finanziamenti per Caserta, Pompei, Ercolano e Paestum. Sono arrivati fiumi di soldi: 2 miliardi e 700 milioni per il Patto per la Campania, altri 308 per Napoli...Che dobbiamo chiedere di più?». Poi spiega che una sconfitta al referendum potrebbe compromettere questa fruttuosa interlocuzione con il governo. Quindi suggerisce la strategia. «Dobbiamo parlare con i nostri riferimenti. Il mondo delle imprese. Gli studi professionali: utilizzeremo i fondi europei per finanziarli, non l’abbiamo mai fatto in Campania. Il comparto della sanità: questa non è la Toscana, qui il 25% è dei privati, migliaia di persone. Io credo, per come ci siamo comportati, che possiamo permetterci di chiedere a ognuno di loro di fare una riunione con i propri dipendenti e di portarli a votare». Infine, ecco l’esempio da seguire. È Franco Alfieri, sindaco di Agropoli, non candidato dal Pd alle regionali perché «impresentabile», poi promosso a consulente della Regione con delega all’agricoltura e alla pesca. De Luca lo introduce col tono del presentatore TV, tra gli applausi del pubblico: «Prendiamo lui, notoriamente clientelare. Come sa fare lui la clientela lo sappiamo. Una clientela organizzata, scientifica, razionale come Cristo comanda. Ah, che cosa bella!». Il compito di Alfieri sarà «di portare a votare la metà dei suoi concittadini, 4 mila persone su 8 mila». «Li voglio vedere in blocco, armati, con le bandiere andare alle urne a votare il Sì», spiega De Luca. E così lo esorta: «Franco, vedi tu come Madonna devi fare, offri una frittura di pesce, portali sulle barche, sugli yacht, fai come c... vuoi tu! Ma non venire qui con un voto in meno di quelli che hai promesso». Renzi ieri era a Caserta per una manifestazione. Quando De Luca è sopraggiunto, dal palco lo ha salutato così: «Vada per il ritardo, basta che non fai dichiarazioni».

A no me stufarìa mai de vardàrli...


mercoledì 23 novembre 2016

Sarà anca el tempo... ma ancò gò voja de polenta. Però de questa polenta, che te magnàvi solo con quel'odore da brusìn... che el se spandèa 'ntela stansa...


"I farmaci omeopatici non funzionano": in America ora è obbligatorio scriverlo sulle etichette



Non funzionano sono inefficaci, d’ora in poi i farmaci omeopatici dovranno dichiararlo apertamente sull’etichetta delle loro confezioni, a caratteri cubitali. 
Accade negli Stati Uniti e chi andrà in farmacia a comprare qualsiasi prodotto realizzato con i principi base dell’omeopatia, pomate, pillole o tutto quanto fa medical-free si troverà di fronte agli occhi l’avvertenza che “non ci sono prove di efficacacia” che garantiscono risultati nel loro utilizzano.

Una sorta di informazione-avvertimento dovuto deciso dall’agenzia americana di tutela del consumatore, ovvero la Federal Trade Commission. Che ha diffuso una circolare in merito a quei farmaci che non sono prescritti dal medico, ma dovrebbero in qualche modo curare malesseri vari. Quelli che presentano sintomi di vario genere, dal mal di testa alla nevralgia. E che «si risolvono da soli, senza un trattamento particolare» come precisa la Ftc. Sottolineando il fatto che per la maggior parte dei farmaci omeopatici le prove di efficacia si basano solo su teorie tradizionali, e non ci sono studi validi che utilizzino il metodo scientifico tradizionale. Pertanto le affermazioni per questi prodotti spesso possono confondere.

Anche perché l’omeopatia nata oltre tre secoli fa si basa su teorie che non sono mai state accettate nella loro globalità nell’universo scientifico. E l’unica maniera corretta per proporsi sul mercato sarebbe quella di informare nei minimi dettagli il consumatore: «L'Ftc ha da tempo riconosciuto che le affermazioni di marketing possono contenere informazioni aggiuntive. Un’affermazione su un farmaco omeopatico potrebbe non essere fuorviante se comunica che non ci sono evidenze scientifiche che il prodotto funziona e che le affermazioni sull'efficacia si basano solo su teorie del 1700 che non sono state accettate dalla maggior parte degli esperti moderni».

La decisione è rivolta a prodotti autorizzati dalla Food and drug administration (Fda) che, con alcune limitazioni, permette la commercializzazione di medicinali omeopatici senza richiedere lo stesso tipo di evidenze di quelli allopatici. Recentemente era stati lo stesso ente regolatore, indipendente dal governo americano, a far ritirare immediatamente dal mercato compresse e gel omeopatici, venduti per alleviare il mal di denti, che potevano mettere  a rischio la salute dei bambini. In Italia secondo l’Istat i consumatori di prodotti omeopatici rappresentano poco più del 4% della popolazione. Anche se l’associazione delle imprese del settore parla di dati più corposi che si aggirano intorno al 20%.
di Luisa Mosello-ilgazzettino.it

lunedì 21 novembre 2016

DIVARIO INCOLMABILE - Parliamone

Dicono che noi, ormai quasi trentenni, siamo dei viziati senza stimoli. Abbiamo la macchina ed un cellulare ultima generazione, ma ci lamentiamo di essere dei poveracci. Abbiamo vestiti, borse e scarpe, ma non facciamo progetti per il nostro futuro. I nostri genitori non avevano niente e poco più che ventenni iniziavano un mutuo e facevano figli e per loro rinunciavano a viaggi e a mangiar fuori, mentre noi siamo sempre in giro a bere. Siamo una generazione di fannulloni e mammoni! 
Io sono una quasi trentenne, che farebbe cambio con quella generazione molto volentieri! 
Cari genitori e loro coetanei, sapreste dire lo stesso?
La stragrande maggioranza dei lavori prevedono che tu sia automunito e per fissare il colloquio devi fornire un numero di cellulare e un indirizzo mail.
E’ richiesto che tu sappia parlare fluentemente almeno l’inglese e che tu abbia dimestichezza con il computer.
Se ti sei laureato, le prime ricerche di collocamento le affronti in media a circa 24-25 anni e, vista la crisi economica globale e l’incapacità totale di ristrutturarsi dell’Italia, prima di sei mesi difficilmente qualcuno ti contatterà per volerti semplicemente conoscere (assieme ad un numero esorbitante di individui, raccomandati e non, che sono in fila come te).
Nel frattempo temporeggi con lavoretti a chiamata e stages con cui speri di rientrare almeno dalle spese, e vivi con i tuoi, perché tra assicurazione, bollo, benzina alle stelle, le ricariche del cellulare e qualche malaugurata cura medica o dentistica... di certo non puoi permetterti un affitto, che costa quanto un mutuo, per il quale ci vogliono delle garanzie che tu non possiedi.
Magari hai un fidanzato con cui senti il desiderio di costruire qualcosa, di fare un progetto come una famiglia (anche perché l’età biologica te lo suggerisce), ma posticipi qualunque speranza e realizzazione a quando troverai un lavoro che ti permetterà di farlo.
Le tue opportunità, ormai alla porta dei trent’anni, sono contratti a progetto (che possono susseguirsi per un’infinità di tempo con semplici escamotages da parte dei datori di lavoro), o ancora stages o sostituzioni di maternità per 6 mesi o l’apprendistato per 4 anni, e se ti va di lusso un contratto a tempo determinato per un anno. 

Se sei donna tutto diventa ancora più complicato perché potresti volerti sposare o potresti rimanere incinta, cosa assolutamente da scongiurare per un datore di lavoro (che evidentemente è stato partorito da una provetta).
Io credo che la nostra generazione sia stata illusa, da un apparato scolastico che ci spingeva a puntare in alto (chissà dove poi), da riforme dell’istruzione che hanno creato mille specializzazioni universitarie inutili che non hanno fatto altro che convincere i giovani che i lavori manuali sono da disprezzare mentre il lavoro impiegatizio è da preferire.
Siamo denigrati da una classe politica che non è in grado di garantire le pensioni ai nostri genitori e restituire i soldi alle imprese facendole quindi fallire, figuriamoci offrire lavoro a noi trentenni!
Siamo beffati da una classe dirigenziale, da magistrati, deputati e senatori poco più che cinquantenni che non sanno usare un computer (in un mondo che non saprebbe più girare senza), che non parlano bene l’italiano figuriamoci l’inglese e che attuano politiche socio-economiche così autodistruttive che anche uno studente di economia del primo anno screditerebbe; tutto perché sono arroccati alle loro postazioni, totalmente avversi alla possibilità di condividere la loro esperienza per paura che possano essere superati dagli allievi.
Siamo bombardati da opinionisti, tronisti, conduttori sberluccicanti che non hanno niente di interessante o stimolante da comunicarci, ma che ci influenzano profondamente.
Visualizziamo ogni giorno immagini di partiti che, come l’aristocrazia romana foraggiata dal popolo, stanno rilassati nel triclinio a degustare ricche quantità di cibo, scarrozzati da auto blu di lusso, che trascorrono il tempo facendo pubbliche relazioni e tessendo alleanze per salvaguardare la propria posizione mentre gli elettori continuano a scannarsi sulla meritevolezza o meno della figura di un ultrasettantenne. (“Dicono che chi è sazio non può capire chi è affamato, io aggiungo che un affamato non capisce un altro affamato” sosteneva Fëdor Dostoevskij).
Se gli attacchi di panico fra gli adolescenti sono in continua crescita assieme ai suicidi dei quarantenni, e all’aumento dell’uso dell’alcool fra i giovani, siete davvero convinti che sia colpa dell’inettitudine della nostra generazione?
Ve lo propongo ancora… vorreste fare a cambio?" 


-anonimo 30enne- web

venerdì 18 novembre 2016

BASE TUONO

La Base missilistica NATO di Passo Coe - Monte Toraro
Situata nei pressi di Passo Coe (1610 m), nel Comune di Folgaria (Trentino), fu una delle dodici basi missilistiche dell'Aeronautica Militare dispiegate nel Nord Italia negli anni Sessanta nell'ambito del sistema di difesa aerea NATO del Sud-Europa. La sua funzione, come quella delle altre basi, era quella di contrastare eventuali attacchi aerei d'alta quota da parte dei paesi del Patto di Varsavia. Il sistema d'arma era basato sul missile Nike - Hercules, un vettore superficie - aria armato con testate convenzionali e nucleari.
Attiva dal 1966 al 1977,
è stata dunque uno dei presidi difensivi propri di quel periodo storico che ha preso il nome di Guerra Fredda, il conflitto ideologico, economico e politico tra l'Est e l'Ovest del mondo avviatosi subito dopo la seconda guerra mondiale e fortunatamente mai sfociato in guerra combattuta. Una tensione internazionale che ha segnato il secondo dopoguerra fino al crollo del muro di Berlino, nel 1989.

 Le Aree operativeAssieme alle basi di Monte Pizzoc, monte Grappa e monte Calvarina, la Base di Passo Coe - Monte Toraro era una 'base di montagna', ed era composta, come le altre basi missilistiche Nike - Hercules, di un'Area di Lancio, un'Area Controllo e di un'Area Logistica.
L'Area Lancio -
edificata su una superficie di oltre 16 ettari occupando i pascoli dell'ex malga Zonta - si trovava a 1543 m di quota in località Malga Zonta di Passo Coe (Comune di Folgaria), in Trentino. L' Area Controllo si trovava invece sulla sommità di monte Toraro, a 1897 m di quota, mentre l' Area Logistica si trovava a Tonezza del Cimone, a 991 m di quota: entrambe le località si trovano in provincia di Vicenza.



Per raggiungere le aree operative dal centro logistico di Tonezza era necessario percorrere la strada che sale verso l'Altopiano di Folgaria. A passo Valbona una strada appositamente costruita portava alla sommità di monte Toraro, all'area di controllo. Dal medesimo passo, proseguendo in discesa verso passo Coe, si raggiungeva l'area di lancio. Nelle immediate vicinanze si trovavano le caserme per l'alloggiamento del personale.

La distanza dall'area logistica alle aree controllo/lancio e la differenza altitudinale (906 m) creavano non pochi problemi, soprattutto d'inverno, quando le abbondanti nevicate rendevano particolarmente disagevole raggiungere le postazioni.
 

Per certi versi... beati quei tempi...


giovedì 17 novembre 2016

La calcara


Scendendo a piedi da San Piero per la vécia pontàra, non sfugge all'occhio di un osservatore, nella curva, in fondo, vicino alle prime case dei Cerati, un vecchio manufatto, quasi nascosto dalla vegetazione. E' quell'elemento che don Giovanni Toldo, Cappellano nel nostro Paese nel '36, autore del libro: ”Storia di San Pietro in Val d'Astico”, chiama - La Calcara -.
Scrive nel suo libro: “Nel 1910 cominciarono i lavori per la costruzione dell'attuale chiesa (quarta di numero, la terza in poco più di tre secoli)...; enormi cataste di legna e mucchi di pietre sono preparati per la calcara della Chiesa ai Cerati.” 
Dunque questo manufatto appartiene alla Chiesa. 
Si pensa sia stato costruito nel 1585 dall'allora parrocco don Gian Maria Lorenzi da San Piero, per l'edificazione della seconda, (ma in realtà della prima “vera” chiesa). Se ne servì certamente qualche secolo dopo ,nel 1790, l'allora parroco don Bartolomeo Gianesini, anche lui da San Piero, per l'edificazione della terza chiesa. Con cinque secoli di vita credo sia la piu' vecchia "opera" lasciataci dai nostri Avi, forse ci vorrebbe un po' più di attenzione per conservarla!



1 PARETI (camìsa)
2 TERRAPIENO
3 INGRESSO ALIMENTAZIONE (bochéta)
4 ASPIRAZIONE-ASPORTAZIONE CENERE
5 CAMERA DI COMBUSTIONE
6 VOLTA DI SEPARAZIONE
7 CARICO CALCARA (da calsinàre)
8 CAPPELLA DI RICOPERTURA E SFIATO
9 VAMPAROLI



Ma che cos'è una "calcara" e a che cosa serve?
La calcara è un forno per cuocere i sassi calcarei che, portati ad una elevata temperatura, si sgretolano.
Leggermente bagnati diventano "calce viva".  
Posti su una fossa ed ulteriormente bagnati diventano "calce morta", atta all'uso nelle costruzioni edilizie. Debitamente dosata con la sabbia produce la "malta" che tutti conosciamo.
La calcara é costruita su un terreno in pendita, in gran parte interrata. La sua forma è cilindrica, con una altezza variabile fra i tre (come questa) e i cinque metri (quella della val de Tognon), (vedere le due foto) con un diametro di tre metri, più stretta in basso ed in alto.
La struttura di sostegno è costituita da grossi massi squadrati, resistenti a temperature anche di mille gradi. Il focolaio interrato è formato da un metro di sassi. Sopra questo focolaio si appoggia con grande perizia la volta composta da sassi calcarei. La volta ha doppia funzione :forno per la legna, ma sopratutto sostegno per i sassi da cuocere che dovevano essere caricati sopra. Una volta pronta per la ”cota” alla calcara restavano due aperture: una all'altezza della volta per il caricamento della legna "la bochéta", ed una più piccola in basso per l'aria.
Vien da chiedersi che cosa spinse i nostri avi a costruire una calcara, in questo luogo.
La risposta potrebbe essere la vicinanza del materiale. Secondo alcuni storici un ramo dell'Astego nel seicento passava ancora ai piedi del monte, dunque subito sotto la calcara: sassi, tondi, calcarei, forniti dal greto del fiume sottostante, legna tutto intorno in grande quantità perchè i terreni erano ancora incolti. 
Per riempire una calcara come questa ci volevano centottanta—duecento quintali di sassi, e duecento quintali di legna (duemila fascine).
La cima era coperta di malta e al culmine una piccola croce. 
Prima di accenderla era usanza chiamare il prete per benedirla. 
Il ”fornaciaio”, uomo di grande esperienza, assieme ad altri quattro addetti accendeva il fuoco, prima piano piano e poi sempre più vivace per circa otto giorni,
con elevate temperature, tra gli ottocento-mille gradi. 
Per verificare lo stato di cottura si prendeva uno dei sassi e lo si gettava lontano, sull'acqua fredda... partiva in mille pezzi, sembrava lo scoppio di una bomba a mano.
Delicatissima e pericolosissima l'estrazione della calce viva...
Subito dopo la guerra '45-'46, usando la calcara del Cucco, ora distrutta per allargare la strada, aiutai i miei fratelli a cuocere parecchie calcare per fare “la calsina” (calce) per la costruzione della “casa nova” ed anche per venderla.
Lino Bonifaci

Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...