Il dibattito si è riaperto dopo l'elezione di Trump. Il
problema però non sta solo nel «mezzo» che si usa. Occorre lavorare
sull'educazione digitale
Ci volevano le elezioni americane e la vittoria di Trump per
rimettere al centro del dibattito mondiale il problema del ruolo dei
social, della verità e dell’informazione. Anche se, a ben guardare,
tutti questi problemi si condensano in uno solo: il modo con cui ci
informiamo e ci scambiamo informazioni nell’era digitale. Secondo
l’Oxford Dictionaries il neologismo dell’anno è «post-verità».
Sta a significare che il consenso di massa si basa sempre più su
informazioni non vere (o totalmente false) che vengono considerate vere
anche quando ne viene dimostrata l’infondatezza. Come ha dimostrato uno
studio del CSSLab dell’IMT di Lucca, che si occupa di scienze sociali
computazionali, «smentire le bufale è praticamente inutile». La maggior
parte delle persone infatti anche di fronte alla verità non cambia
comunque opinione. Non a caso, durante la campagna elettorale americana
le bugie sono state più lette e condivise su Facebook degli articoli di
giornale dedicati ai candidati e ai temi elettorali. Secondo Buzzsumo,
che misura le conversazioni sui social, le principali 20 storie false
sulla Clinton (soprattutto) e Trump, hanno generato su Facebook
8.711.000 tra like, commenti e condivisioni contro i 7.367.000 dei 20
principali articoli sui candidati, messi online dai più importanti siti
di informazione. La notizia falsa più condivisa era intitolata:
«Clamoroso: Papa Francesco appoggia Donald Trump». Seguita da:
«Wikileaks conferma: Hillary (Clinton - ndr) ha venduto armi all’Isis».
Diffondere
falsità su web e social non è soltanto un’arma politica (in Italia sul
tema è in corso un durissimo scambio di accuse tra Movimento 5 Stelle e
Pd) ma anche un business. Perché le bugie e le notizie ad effetto
generano «visualizzazioni», che a loro volta generano denaro. Il Washington Post
ha intervistato un uomo che ha fatto della falsità su web e social
un’impresa fiorente. Si chiama Paul Horner, ha 38 anni, e oltre a
guadagnare decine di migliaia di dollari al mese creando «bufale», è
convinto di aver dato un contributo significativo all’elezione di Trump.
«Ci sono riuscito perché le persone sono stupide – ha detto senza mezzi
termini –. Nessuno controlla più niente, tutti condividono in
continuazione cose, senza domandarsi se siano vere. Trump è stato
eletto perché ha detto quello che le persone volevano sentire. E quando
la gente scopriva che magari quello che aveva detto era falso, non le
importava».
Ovviamente non bastano questi due esempi,
seppur illuminanti, per affermare che i social e le notizie false sono
stati più importanti nelle elezioni americane delle notizie certificate e
della verità, ma è indubbio che il problema esista e sia enorme. Perché
i social e il web non sono mezzi «neutri», ma attraverso algoritmi
matematici (e a volte anche azioni umane), possono far pendere da una
parte o dall’altra il flusso informativo (ma non solo) che ci appare
ogni giorno davanti agli occhi. La colpa però non è solo di una sorta di
«grande vecchio» che comanda tutto e tutti. Una parte importante di ciò
che ci appare sugli schermi dei nostri pc, talblet o smartphone (e che
finisce inevitabilmente per condizionarci) dipende dalle nostre scelte.
Se riceviamo certe informazioni e non altre, è perché noi stessi –
navigando su certi siti o non su altri, cercando certi termini e non
altri, mettendo mi piace o condividendo certi post e non altri – abbiamo
trasmesso ai computer dei signori del web come Google e Facebook un
numero enorme di informazioni sulle nostre preferenze, compresi i nostri
orientamenti sociali, religiosi e politici. Altro chiarimento
necessario: uno dei motivi del successo dei social è proprio quello di
farci connettere con persone che (spesso, molto spesso) sono affini a
noi. Lo piscologo Jonathan Haidt l’ha chiamato «effetto Facebook».
Andiamo sui social per sentirci rincuorati, coccolati e confermati nelle
nostre scelte. Così facendo, però, finiamo per vivere in «bolle», che
ci portano in realtà sempre più parziali. Un altro «bisogno» che viene
risolto dai social è quello «di farci sfogare». Non a caso sempre più
utenti li usano per litigare soprattutto con sconosciuti senza nemmeno
dovere uscire di casa o guardare l’avversario negli occhi. Basta una
tastiera. La questione, da seria che era, sta diventando drammatica. Non
a caso Facebook, Twitter, Google e YouTube hanno annunciato misure per
ridurre la quantità di odio e di falsità. Ma avere dei «poliziotti del
web» che cancellano o bloccano i commenti volgari o le notizie false, è
più difficile di quello che si pensi. Perché si può offendere e
aggredire (anche pesantemente) senza usare parolacce o usando termini
gergali. Per non parlare del fatto che esiste anche l’ironia o il
paradosso, e insegnarli a un computer è un’impresa titanica. Un’altra
questione è come arginare le notizie false su web e social – le
cosiddette «bufale». Google ha promesso che farà apparire nel suo canale
news, una scritta che ci informerà se la notizia proposta è
«verificata» o «non verificata». Difficile dire se servirà davvero.
Intanto Facebook ha spiegato che governare «bufale» e falsità sul suo
social non è così facile. Peccato che quattro studenti della Princeton
University hanno creato in 36 ore un’applicazione in grado di
contrastare la diffusione di bugie. L’app è in grado di leggere in tempo
reale un post e, confrontandosi con un archivio digitale sempre
aggiornato, capire se una certa notizia arriva da un sito a rischio o da
uno affidabile, e quindi eventualmente bloccarla. Purtroppo per fare
davvero pulizia nei social non basta un’app o un «poliziotto del web».
Costa fatica. Molta fatica. Per riuscirci dobbiamo impegnarci tutti.
Nessuno escluso. Ogni giorno. Perché fare pulizia nel web e nei social è
innanzitutto un fatto sociale ed educativo. Che richiama ognuno a
precise responsabilità. Compresa quella di guardare tutta la realtà. Non
è vero, per esempio, che sono solo le persone meno istruite a
diffondere le bugie su Facebook e affini. A cadere nella trappola delle
bufale, diventando a loro volta dei «propagatori» (incosapevoli) di
falsità, sono anche tanti adulti insospettabili. Gente istruita e che ha
posizioni di spicco nella società, e che per questo finisce
involontariamente per «certificare» la «bufala» che condivide. Com’è
possibile? Accade perché per muoversi nel web e soprattutto sui social
servono competenze e «occhi» nuovi. Ma soprattutto serve una «soglia di
attenzione» che chi frequenta i social tende ad abbassare. Perché chi va
su Facebook e affini lo fa soprattutto per svagarsi. Se poi la «bufala»
arriva da un sito che si spaccia per un giornale (ne esistono a decine
solo in Italia), le sue notizie false appaiono ancor più credibili e la
vicenda si complica ancora di più.
Intendiamoci: le bugie
ci sono sempre state e i diffusori di bufale anche. Ciò che è
radicalmente cambiata con l’avvento dei social è la facilità con la
quale vengono diffuse, provocando danni enormi. Perché – come hanno
spiegato sia lo spacciatore di bufale Horner sia il professore dell’IMT
di Lucca – «la gente quando scopre che una cosa alla quale voleva
credere è falsa, ci crede lo stesso». E non solo perché tutti vorremmo
una pianta o una pillola miracolosa (che non esiste) in grado di curare
il cancro. Ma anche e soprattutto perché certe notizie (pur false)
confermano le nostre idee o demoliscono i nostri avversari, e in
entrambi i casi ci fanno sentire meglio. A questo punto possiamo anche
prendercela con la tecnologia e dire che i social non vanno frequentati.
Il problema, però, come abbiamo visto, non è solo nel «mezzo» ma anche
(soprattutto?) in noi. Per questo l’unico modo di combattere questa
montagna di spazzatura che inquina la società è lavorare (anche)
sull’educazione digitale. Di tutti. A tutte le età. Nessuno escluso.
avvenire.it
Cari Carla e Gianni, questo articolo parla anche di voi, poliziotti del web e conferma le difficoltà delle vostre scelte. Auguri dunque....
RispondiEliminaCiò, tusi, ..ma se invesse de darghe dosso a tute ste pore bufale a le doparassimo par fare la mossarela?
RispondiEliminaMa verrebbe mozzarella di bufala o una bufala di mozzarella? :-)
RispondiEliminaOrmai il web ci ha portato ad un eccesso di informazioni...
E se alcuni modi di diffonderle vanno bene: vedi il blog su cui sto scrivendo... altri creano veramente un vivere “fuori dalla realtà” e mi riferisco innanzitutto a feisbucc quando se ne abusa...
Eliminatelo!!! :))