mercoledì 2 gennaio 2013

Tracce nella neve



  Ieri è venuta la neve, tanta, da coprire ogni cosa. I campi sono bianchi, bianchi i rami degli alberi, bianchi sono i tetti, la valle e i monti intorno.
E’ appena passato Natale, abbiamo bisogno di un po’ di bianco che ci porti lontano con la fantasia e la memoria, anche i cuori chiedono di un po’ di candore, forse aiuta  non dico ad essere più buoni, ma un po’ più solidali questo sì.
Ci si lascia andare, più disposti alla confidenza e alla condivisione. La neve è un abbraccio caldo di un amico, la carezza di una madre, la dolcezza di un vecchio che ci trattiene, la poesia della memoria. Mi passano questi pensieri nella testa mentre oltre la finestra vedo la casa del mio amico Aldo col comignolo che fuma, i laboratori di Ilario Maino con i tetti bianchi , la vecchia casa della Maria “balin” che fu di mia nonna e che muove i ricordi, la “contrà” laggiù sull’Astico di “Bessè” e quella al di là del torrente che è “il Majo”, i vecchi stabili diroccati della segheria di “Mengotto”.
Caltrano disteso sull’altra riva sembra un presepe, case e luci si confondono con lo sciame che scende lento dal cielo e che danza col vento.
I rumori arrivano fiacchi, una fucilata si perde nel niente, i latrati di un cane forse spaventato da tutto quel bianco insiste lontano.
L’odore acre del  fumo confonde il delicato sentire della neve che forse non ha profumo se non quello che ci immaginiamo.
Nevica ancora, fino alla sera, poi  la notte porta con sé quella magia, la reinventa col gioco dei chiaroscuri e con  la luna lassù che sembra appesa a guardare questo incanto.
Domani con Aldo voglio fare un giro sui campi e lungo l’Astico per trovare le tracce che lasciano gli animali e che solo di inverno si possono vedere.
Conviene andare a dormire con quella poesia negli occhi, non si può barattarla con i tristi spettacoli che passano in televisione.
La notte dormo, cullato dal sonno al confine dei sogni che però non riesco a catturare forse è già un sogno quello che ho visto attraverso i vetri, conviene allora svegliarsi presto ed uscire.
Mi alzo appena il chiarore dell’alba si è fatto un po’ più sicuro, in cucina la stufa è spenta, ma vi è un dolce tepore, la casa di Aldo è illuminata, lui si alza sempre presto, ben prima che si faccia giorno.
Fuori dalla finestra c’è un mondo lunare, una fiaba di gelo per chi la sa cogliere , una pagina di un libro delle elementari di quando eravamo bambini.
Fa freddo fuori, i candelotti di ghiaccio pendono dalle grondaie e le scarpe affondano “sgrensando”, il termometro è imprigionato sui meno quattro.
La rete dell’orto è un ricamo di gelo, un disegno bianco tessuto di freddo.
Quel tratto di strada che mi porta da Aldo è in discesa e rischio di fare qualche passo falso. Non siamo più abituati ad inverni di neve e di ghiaccio, gli ultimi sono stati troppo miti, si era quasi perso il senso delle stagioni.
Da bambini “slissigavino” per mesi sul ghiaccio delle strade e qualche volta sull’acqua gelata dell’Astico, con le “buganse” che mordevano le mani e i piedi.
Pochi vestiti allora contro il freddo:“bareta con le reciare” maglioncino di lana sopra la “fanela”, braghe di “veludo” e se andava bene un paio di scarponcini di “corame”, il tutto ovviamente passato di mano in mano da cugini, parenti o vicini.
Il viso di solito era sul “roan” con le orecchie che prendevano delle sembianze diavoline se non protette.
Il cane avvisa Aldo che sono arrivato ed entro in fretta in corte dal cancello, il risveglio degli animali è già cominciato. Sulla stufa esterna un “cagliero di pastà” sta cuocendo e sparge un buon profumo di polenta e di patate.
Mi accoglie con una tazza fumante di caffè e con la sua affettuosa schietta amicizia che mi consola di molte mie amarezze.
Per me Aldo è il custode della memoria, del più genuino sentire, con la saggezza di un vecchio e l’intelligenza di un antico maestro.
Mi ha preparato un regalo di Natale: un pezzo di legno di “cornolaro” fatto come una mazza per “pestare” il baccalà. Un dono prezioso costruito con le sue mani.
Il tempo per  sorbire il caffè e per qualche parola e poi usciamo nel freddo e nella neve.
Scendiamo per il vecchio sentiero che mio padre percorreva per raggiungere i campi laggiù sul piano appena sopra il mulino della “Singela”.
E’ tutto bianco intorno, le antiche viti sembrano vecchi con le braccia distese a cogliere questa candida messe, le siepi un miracolo di luce e di gelo rotte soltanto da qualche bacca rossa di pungitopo e da fugaci pettirossi “spaurati” dal bianco.
Anche uno scricciolo fa capolino ma scompare in fretta dentro un buco di un vecchio albero. Per terra tracce di animali, traiettorie che si perdono lontano forse verso un confine che porta chissà dove.
“Questa la xé na peca de un scoiatolo e questa de un gato, varda quela la xé de un merlo e questa la xé …..ma,…..fursi de bolpe” mi fa osservare Aldo con la sapienza di chi ha tanti inverni alle spalle. Alcuni “cavassi” di bucaneve spuntano appena dal manto bianco, tocco appena quei fiori: sono gelati, sembrano di vetro; un alto piccolo miracolo.
Le vecchie piante che mio padre mi ha lasciato sembrano fantasmi scuri e severi; furono i custodi della mia giovinezza. La terra sul piano è ora una coperta bianca, sotto si intravedono  i resti di un orto e di un’estate passata, più in là le stoppie del grano, o meglio i “scataruni”, seguono una geometria precisa e i filari di viti tagliano lo sguardo verso il recinto di cavalli di Tony Gasparotto.
Questo era il mondo di mio padre che ha custodito per anni. Se tornasse, chissà se sarebbe contento di come io lo curo, per fortuna mi aiuta Aldo, senza di lui sarebbe troppo difficile.
Mi perderei in un gran daffare rincorrendo i lavori a casaccio senza perizia né arte.
Questi erano i campi della mia giovinezza, i campi dei giochi, dei miei primi turbamenti e delle prime trasgressioni.
Mi sembra che quelle tracce sulla neve che se ne andranno col sole, siano come i miei passi in quegli anni lontani che ormai si sono dissolti quasi nel niente.
Ora scendiamo, anzi, i nostri passi quasi rotolano verso il vecchio mulino dei De Muri, o meglio di quel poco che resta tra le rovine e i “russari”.
Si intravedono le vecchie finestre, sembrano bocche sdentate che esalano l’ultimo “arfio” di vita, gli squarci sui muri lasciano in evidenza gli interni delle stanze e quel che poco rimane: c’è il focolare, dei vecchi scalini, e un “pergolo” in ferro che ricama una facciata in scarso equilibrio, sfiancata dagli anni e dall’umidità. Ad altezza d’uomo una scritta rossa: viva il 29. Chissà chi sarà stata quella mano che ha lasciato quella traccia ormai corrosa. 
Vorrei  ritrovare il suo ultimo abitante “Bepi  rana” e sua moglie Celinia che si affacciavano alle finestre quando da bambino li andavo a trovare con mia nonna.
Qui vi ha abitato anche mia zia Lina e suo marito Grison prima di trasferirsi definitivamente in un paese verso Vicenza. Si porteranno dietro il ricordo di quei giorni e del rumore dell’Astico che in quegli anni spingeva ancora l’acqua nella roggia per far girare le pesanti macine di pietra che avevano macinato grano ed esistenze.
La parte più vecchia di questo mulino è del 1300, con aggiunte del 1600.
C’è ancora una energia strana in questo posto, mi emoziono ogni volta che ci torno.
Per un attimo il mio fiato gelato mi sembra un fil di fumo che esce dal buco che una volta era il camino pare che sia tornata la vita in quel posto, ma è solo un attimo e torno ai mie passi quando sprofondo con una scarpa su un cumulo di neve.
Borbotta l’acqua tra i sassi, è un rumore quasi sordo,  mi sembra quasi un rimprovero, perché è troppo tempo che manco da questi posti, dove ho passato tanti momenti della mia giovinezza.
Aldo mi segue, o forse sono io che lo seguo, mi pare di stare insieme a mio padre, ma purtroppo con lui non ho passato molti momenti come questi o forse a quel tempo era per me quasi un fastidio….sono stato troppo poco bambino sono stato responsabilizzato troppo presto o ero troppo difficile da capire.
Sono questi i pensieri che mi accompagnano in questa passeggiata confondo la mia vita con questi passi, ma chi dice che la vita non è anche questo.
Riemergo quando passiamo accanto al sasso delle “careghete” un masso enorme con degli intagli misteriosi che sembrano troni di pietra dove i pescatori si mettono per gettare l’esca dentro il bojo di acqua profonda e scura.
“El dovaria essare un altare antico” mi suggerisce Aldo e credo che può essere la lettura più fantasiosa e la più intrigante. Magari era solo una posta per deviare l’acqua.
Appena più sotto in un vecchio anfratto dalla cui volta pendono dei bei candelotti di ghiaccio rivedo come fosse adesso i secchi che Bepi “rana” metteva per raccogliere  l’acqua che gocciolava dalla roccia. Poi ancora acqua e sassi, rami che sbattono sul viso russe neve, procediamo lenti, chiacchierando come due vecchi amici di sempre che hanno tanto da dirsi anche nei silenzi.
Sopra  il ponte una lenta fila di macchine lunga come un rosario vanno verso una stupida domenica , per un attimo torno a questi giorni con un po’ di fastidio. Mi rendo conto solo adesso che ero con la testa e il corpo in quegli anni lontani.
Scendiamo ancora verso Rondello, l’altro mulino o quel poco che resta, la Teresa l’ho conosciuta è stata l’ultima abitante di quel posto vicino alla “rosta” quando d’estate si trasformava in un molo pieno di giochi e di vita: era il nostro mare.
Ornai si è fatto tardi , risaliamo in fretta il pendio imbiancato, poi su ancora per “le scalette” l’antico collegamento tra Chiuppano e Caltrano. Questo posto è tutto in ombra, “al roverso” puntualizza Aldo facendomi notare il muschio che copre i  vecchi sassi e la neve che resisterà parecchio tempo.
Qui da piccolo venivo per “lispo” a Natale e a “slitare” con gli amici del Costo.
Aldo ha fretta deve tornare a casa, si è fatto tardi e presto ci troviamo sulla statale con davanti ancora la novena di macchine in direzione di Asiago per un’altra domenica grama.
Mi disturba un po’ questa visione , mi fa tornare in fretta a questi giorni, mi pare di aver camminato dentro un sogno attraverso la neve e i ricordi, sarei stato ancora volentieri in quei passi con Aldo .
In alto uno stormo di uccelli neri puntano a sud e gracchiano forse per annunciare altra neve. Un allegro disegno di pipì sul quel bianco mi riporta lontano.
Farò un altro giro con due bravi amici fotografi Valter e Luca Borgo, voglio avere  qualche immagine di questi giorni. Ci saranno le orme di Aldo e le mie. Saranno i giorni della neve.


                                                          Maurizio Boschiero


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