giovedì 24 gennaio 2013

L'orso de Tinàsso



     Se con la nostra fantasia tornassimo per un momento nel mezzo del 1800 e il nostro sguardo, dai Valergi volasse sù in Tinasso, dei pennacchi di fumo azzurro sicuramente desterebbero la nostra curiosità: sono le carbonaie che 
stanno pipando. Grossi pezzi di faggio messi a piramide con forma circolare, il tutto ricoperto di terra, un fuoco al centro, il quale, dopo molto tempo, trasformava il legno in carbone. Il tutto era creato e seguito con paziente maestria dai nostri paesani carbonai, vita dura e semplice che permetteva di vivere onestamente. Il prodotto finale era di buona qualità e venduto al mercato di Thiene, fruttava un compenso che gratificava la dura stagione in montagna. Sul finire di un autunno quasi estivo il carbone accumulato era molto e due amici per la pelle Martin e Rocco erano soddisfatti del lavoro compiuto. Tutti e due erano di S.Pietro, esperti carbonai, che da Aprile a Novembre costruivano carbonaie nella zona del Tinasso, una in particolare era in fase di spegnimento, si trattava solo di aspettare e nel frattempo caricavano le slitte (chiamate dai valligiani Idole) con i sacchi di carbone. Il trasporto giù per le valli era pericoloso, ma i nostri compari lo facevano con prudenza, non era il caso di perdere il carbone lungo i dirupi della valle di Toniero. Mentre controllavano la qualità del carbone, il loro pensiero era già al mercato, alla vendita e al guadagno, ma anche alla giornata di bevute e divertimento che ne seguiva; sorridevano al pensare che la giornata si sarebbe conclusa con la visita a una casa di piacere di Thiene. Molta gente il lunedì si recava al mercato, a piedi o con mezzi di fortuna, compravano il necessario, ma per i maschi era un'occasione per incontri d’amore mercenari; dalle cronache del tempo si legge che ben tre erano le case di piacere in quella città. Naturalmente le mogli non si rendevano conto del tradimento mercenario, o per lo meno, non lo facevano capire, ma la Bepa suchéta, madre dei due figli di Rocco, stava sempre in guardia. Era sua consuetudine preparare la tinozza per il bagno, pronta, non appena il marito entrava in casa, in questo modo lo poteva “annusare”. Finito il bagno lo faceva giurare davanti all’immagine della Madonna e il povero Rocco, con occhi bassi, era costretto a giurare il falso. Quella domenica, già verso sera il carro era pronto per il trasporto, mancava solo di preparare il cavallo bajo che lo zio del Martin gli prestava per l’occasione. Finirono, e dopo poche ore di sonno erano verso el prà longo diretti al mercato di Thiene. Tutto andò per il meglio, vendettero tutto il carico alla famiglia Colleoni e subito si recarono dalla Mora a farsi un caldo brodo di trippe, seguito da abbondanti alzate di gomito con il vino nuovo e con un rosso che proveniva da Breganze, molto apprezzato dai due amici. Nel pomeriggio andarono ai bagni pubblici per una lavatina, ma la carica ormonale dei due stava pericolosamente aumentando. Rocco con un cipiglio quasi violento sbottò: “sa trovo la Babalù ghe magno el culo“. Barbara Lucchetti in arte Babalù era una dolce tigrotta che esercitava al Fior di Luna, una nota casa di piacere, formosetta, ma con un fondoschiena degno di un quadro: il classico tipo che piaceva al carbonaio. Dopo un altro bicchiere entrarono nella sala d’aspetto, Martin lesse le tariffe, toccò il portafoglio e si diresse verso la Luisa, la grande organizer della casa. Alla vista di quelle grazie così in libertà i due non aspettarono più di tanto e quando Babalù scese la scala dal tappeto rosso Rocco sentì una vampata di calore che quasi lo faceva svenire; non fece in tempo a cercare con lo sguardo il socio, che già era sparito con la Marghi, una moracciona che dicevano venisse dalla lontana Spagna. Chiusa la porta Babalù si distese sul letto, un grande giaciglio di colore arancione e mentre Rocco tentava di fare il rito obbligatorio del lavaggio, lei,  mostrando la sua mercanzia,  fumava tranquilla una sigaretta francese, forse regalo di un cliente. Memore della frase detta al suo amico chiese alla donna di girarsi prona per poterle visionare il lato b,  la sigaretta si spense e dolcemente Babalù  acconsentì alla richiesta. A quel punto la pressione del carbonaio andò alle stelle, tutti gli spiriti del Tinasso gli entrarono nel cervello, con un salto felino piombò a lato del letto e con un urlo animalesco prese a morsi , in questo caso lo sfortunato sedere. Urlando di dolore la ragazza si girò di scatto, colpì con il piede il viso di Rocco facendolo cadere sulla sponda, la testa urtò sullo spigolo e con schiaffi contornati da numerosi graffi in faccia si difese con molto vigore riuscendo ad uscire dalla stanza. Il seguito fu confuso, il mix di alcool, botte e stanchezza fece che si svegliò dalle parti di Arsiero disteso sul carro. “ Ma cossa ghetu combinà? situ semo? me gà tocà pagare tanti schei par portarte via”… "ma va in mona anca ti..." rispose Rocco prigioniero di dolori in viso e alla testa. Martin spiegò dettagliatamente i danni subiti e il problema di cosa dire alla Bepa diventava serio e assillante. Molte idee erano strampalate, non potevano stare in piedi, come... cadute, rami in faccia ecc..., ma ricordando i loro amici di Rotzo,  Bora e Baistar, due scalpellini rinomati in tutta la zona, che dopo giorni di mancato rientro a casa, tra pianti e campane a festa dissero che il salvanelo aveva girato loro le scarpe di entrambi i piedi, in questo modo facevano un passo avanti e uno indietro ritrovandosi sempre nello stesso posto, solo dopo vari tentativi riuscirono a gabbarlo e tornare sani in paese. ”Se in Ròsso i gà bevù sta bala...anca mi posso dire che so stà tacà da un orso sù in Tinasso” sbottò Rocco. Martin andò dalla Bepa e la storia che gli raccontò fu semplice, ma geniale: arrivati ai Scalini, guardando nella zona di Tinasso, abbiamo visto del fumo e pensando che l’ultima carbonara non fosse spenta del tutto ci siamo preoccupati; Rocco ha pensato di andare sù senza passare per casa, sarà di ritorno nel pomeriggio. In attesa del marito la donna ritornò alle sue faccende, mentre Rocco nascosto in un fienile sopra ai Baise attendeva la sera. Per non essere riconosciuto, dovette passare a nord del paese facendo attenzione di non farsi notare. Si strappò la giacca, ma non troppo per non buttarla e si presentò a buio fatto sulla soglia di casa. Alla vista del marito con il viso gonfio, la testa fasciata e graffi sulle orecchie... la Bepa si mise una mano sulla bocca e con voce soffocata disse: "cossa te zelo sucesso... cossa ghetu combinà? "Me gà tacà un’orso" rispose secco Rocco. Durante le cure delle ferite raccontò il fatto alla moglie: sono arrivato alla carbonaia e ardeva ancora il fuoco, mi serviva dell’acqua, andai verso la pozza,  ma con mio grande stupore, trovai un orso che si stava abbeverando, non sapevo cosa fare e per scacciarlo tirai dei pezzi di legno verso l’animale, lui mi rincorse, mi raggiunse, e mi ritrovai a terra con l’orso che mi spingeva via, non so come, ma gridando se ne andò; mi ritrovai dolorante e sporco di sangue come mi vedi. La notizia fece il giro della valle, molti furono i paesani che credettero al fatto, il sindaco organizzò una battuta nel tentativo di liberare la zona da una pericolosa (almeno per quei tempi) presenza, ma il tutto finì con una grande bevuta in onore all’orso di Tinasso. Fu probabilmente da allora che la pozza a nord del prato di Tinasso si chiama pozza dell’orso. La Bepa Sucheta non aveva mai visto un orso, ma non fu mai convinta del tutto di questa storia; il sospetto maggiore erano le scarpe del marito, troppo patinate per aver combattuto contro un orso e aver corso a casa giù per quelle valli impervie...e perché quella mattina non passò per casa prima di andare in montagna? Poteva cambiarsi almeno la giacca, non si va nel bosco con la giacca della domenica. Questi i dubbi, che al solo pensarci, la rendevano nervosa, ma dopo pochi anni la faccenda era dimenticata e sepolta. Sul cielo della Val d’Astico passarono molte stagioni, qualcuno per grazia ricevuta pose una piccola icona sull’abete più maestoso vicino alla pozza; il silenzio, rotto solo da spari inutili dei cacciatori, si impadronì dei prati del Tinasso. Sulla fine degli anni settanta a mio padre servivano assi di abete per costruire la sua nuova casa; sapeva che nel lotto sù alla  pozza dell’orso c’erano degli esemplari che facevano al suo caso. Una mattina grigia e fredda di novembre, due splendidi abeti avevano finito la loro esistenza terrena e nel ramarli un boscaiolo scorse un piccolo quadro di metallo inchiodato al tronco dell’albero: si notava un orso che attaccava un pastore, sotto c’era scritto: "in quest..lu. go nel..  no del signor. 18.7. nabe.t.af.erì un cr..tiano martin pos". La frase non si capiva del tutto, ma si potè interpretarla così:In questo luogo, nell'anno del Signore 18.7 una bestia ferì un cristiano. Martin pose.


Piero Lorenzi



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