martedì 22 gennaio 2013

Il matto



Mio padre Giovanni nacque a Fara provincia di Vicenza nel 1915. Anni della guerra mondiale, la prima, con gli uomini che consumavano i loro giorni al fronte tra la paura e il filo spinato. I bambini e i ragazzi venivano cresciuti dalle donne, come meglio potevano e non era facile per loro trovare qualcosa  da mettere sotto i denti di quelle bocche che avevano sempre fame. Chi poteva si arrangiava anche rubacchiando nei campi qualche frutto di stagione. Pere, mele, uva, ciliegie erano le occasioni ghiotte per chi passava per le stradine di campagna e coglieva furtivamente quello che poteva. Si cresceva in fretta in quegli anni; erano le compagnie che aiutavano a diventare grandi tra “malegràssie” alle bestie, caccia di frodo coi “bachetùni”  o con gli archetti e non di rado qualche atto “inpuro” consumato di nascosto dove i maestri erano i compagni più grandi.  Questo termine, lo si usava in confessione, significava cosa proibita quasi da non nominare. Per loro erano “mas-ciarìe” e basta.  Mio padre era cresciuto in questo clima e ben presto dimostrò doti di furbizia e di scaltrezza non comuni. Mi raccontava che un giorno sottrasse di nascosto il fucile da caccia a mio nonno e se ne andò tranquillamente tra i campi a sparare a ciò che di lì passava. Non vi erano veti in quegli anni; si potevano cacciare tutte le specie di uccelli e lui si acquattò tra “i russari e la sanguana” ad aspettare i “petaréi” che erano un boccone grasso e prelibato. Sparò alcuni colpi, poi arrivarono le guardie e lo colsero sul fatto. Capirono subito che si trattava di un bambino o poco più. Non potè scappare. Ma fu presente a se stesso e quando gli chiesero nome e cognome lui risoluto rispose: Lazzaretti Matteo. Si accorsero il giorno dopo che Matteo era un vecchio di ottanta anni, quasi cieco, che poco aveva a che fare col ragazzino di quindici, sedici anni che avevano fermato. Lui che abitava nella casa di fronte seguiva la scena da una finestrella della cucina e se la rideva vigliaccamente. Mio nonno, se da una parte la questione lo faceva disperare, sotto sotto era orgoglioso di quella “canàja”, che era cresciuta selvatica e furba. Non passò molto tempo e si presentò un’occasione per guadagnare qualche soldo e per impegnare la “lengéra” che diventava ogni giorno più spavalda. Dovevano portare un matto al manicomio “San Felice” di Vicenza. Avevano un cavallo e facevano piccoli “noli” di merci nei paesi vicini. "Te la senti?" Chiese mio nonno al figlio. Rispose alzando le spalle, quasi a dire: cosa vuoi che sia. Era l’incoscienza dell’età a parlare! Erano  gli anni trenta, anni di paesi arroccati sulla loro secolare storia, sulla loro fame atavica e sulla fatica cronica, che facevano invecchiare precocemente uomini e donne, che a trenta anni erano già vecchi  nell’aspetto e nell’anima. Nulla dello sforzo quotidiano era concesso, al di fuori del lavoro per procacciarsi quel po’ di cibo, che serviva per non morire di stenti. La pellagra era sempre in agguato e le malattie venivano curate alla bell’e meglio da una farmacopea casalinga che, se a volte era efficace, nella maggior parte dei casi scadeva in rituali e intrugli che si perdevano nel tempo e nella superstizione. Dunque venne presto il giorno della partenza per il manicomio di Vicenza. Per l’occasione mio padre indossava un paio di “sgàlmare”, le meno peggio che avevano in casa, un paio di pantaloncini di fustagno marroncino, una casaccuccia da festa, che lo faceva rassomigliare più a  pinocchio che a un ragazzo e una “baretéla con le reciàre” che gli dava un’aria diavolina. Matìo, il matto,  a piedi scalzi e luridi, braghe alla stracciona via e una canottiera su cui indossava una giacchetta che ormai era diventata un sacco o giù di lì. Mio nonno raccomandò a Matìo di stare calmo che sarebbe andato in un bel posto e a mio padre di farsi il segno di Croce se passava davanti ai capitelli, che di solito erano sugli incroci delle strade di campagna, dove i preti sul far dell’estate facevano le rogazioni, di tirar dritto e fermarsi il meno possibile se non  per “spandare acqua” e di, eventualmente, chiedere la direzione se si fossero trovati in difficoltà. Consegnò un piccolo fagotto in cui aveva messo della polenta e un po’ di salame, una zucca riempita d’acqua e un fiasco di “graspìa”. Era primavera inoltrata, quando “i mati i se despéra”, ma mio nonno sperava che tutto fosse filato liscio con le preghiere e tutti quei capitelli che sapeva esservi lungo la strada. Finalmente dopo tutte quelle raccomandazioni partirono che albeggiava e un filo di vento muoveva le cime degli alberi. Quegli alberi “scorlàvano” come Matìo, pensò mio padre che aveva idee alquanto confuse sul compare di viaggio. Lo aveva sempre temuto e deriso nello stesso tempo, cosa che facevano tutti: era “el mato del paese”. Tutti i paesi, in quegli anni, avevano un “mato”, povere figure che la sfortuna e il più delle volte la crudeltà e l’ignoranza avevano relegato ai margini . Erano vittime di famiglie e società che non potevano offrire nulla se non fame, malattie e solitudine. Matìo era rimasto orfano da piccolo dei genitori, morti consumati dalla fatica e dalla tubercolosi. Venne “raccattato” dai vicini che qualcosa gli offrivano, ma era di tutti e di nessuno. Divenne presto un “selvàdego” che preferiva le compagnie di animali a quella degli uomini e viveva nelle stalle o nei ripari di fortuna. “Un poro gramo” che dalla vita aveva avuto proprio poco. Il commento più benevolo lo dipingeva “brutto come un temporale d’istà”. Lo vedevano tra i campi a rubacchiare qualche frutto o nei pollai a sfilare qualche uovo dai nidi. Lo chiamavano anche “la bolpe” e lo “cojonàvano” per i suoi capelli rossi e la sua astuzia nel muoversi tra le stalle. Era sempre pieno di pidocchi e di fame, ma non  poteva nulla per uscire da questa situazione, anche perché nessuno  cercava di essere meno duro con lui. Solo scherzi, parole e derisione. A volte accompagnava il canto del gallo di buon’ora con un chicchirichì bolso e strambo che quando lo sentivano nelle case vicine dicevano: ”se ga svejà el mato”. Questi erano i pensieri che accompagnavano mio padre tra il sonno e la discesa del “prà fontana”, poi lungo la caredà in direzione di Thiene. Arrivarono in vista del campanile che rintoccavano le sette.  Per le strade biciclette spinte lentamente da uomini; donne  vestite di scuro si affrettavano nelle loro faccende e tribolazioni quotidiane. Anche Matìo dormicchiava rannicchiato su se stesso e forse sui pensieri suoi. “Fin desso la ze nà ben”, pensò mio padre che non credeva tanto a quella quiete troppo quieta.  Un paraccarro di pietra lungo la strada portava una freccia e un scritta in nero: Vicenza Km 27. Erano sulla strada giusta e, a conti fatti, potevano essere a destinazione nel primo pomeriggio. Presero la strada per Villaverla, una strada “impestata” di buche e di sassi che non conciliava certo la comodità del viaggio. Si allontanavano piano i luoghi consueti che mio padre conosceva per via del mercato del lunedì a Thiene, e prendevano corpo nuovi orizzonti che un po’ lo sgomentavano. Ormai avevano superato qualche capitello e le lunghe teorie di platani gettavano un’ombra fresca su quella strada scaldata dal sole. Si erano fatte ormai le dieci, la fame cominciava a farsi sentire ed anche dei leggeri bisogni fisiologici cominciavano a rendere inquieti i due “grami”. Il primo tenne duro, ma il secondo cominciò a reclamare una fermata. Tirarono avanti ancora un pò, la sosta  intimoriva mio padre che non si aspettava niente di buono da Matìo. “A gò bisogno de spandare acqua, ansi de nar de grosso, sustò” il malato. Il tono non ammetteva deroghe ed il carro si fermò non distante da una casa colonica  tra il latrare furioso di cani. “Fa presto“, raccomandò mio padre che non si mosse dal carro per tenere sotto occhio l’amico. Questi scese lento che quasi sembrava “inebetìo”, si diresse verso una siepe e si accomodò con soddisfazione. Per chiudere, colorì la scena con una “scorésa” che sconcertò il socio  e scosse il cavallo. Poi invece di tornare sul carro fece qualche passo in là. “ A go el sgranfo sule gambe, a fasso du passi”. Si capì subito che non aveva nessuna intenzione di tornare indietro ed infatti prese una corsa furibonda tra i campi che pareva un cavallo col “morbìn”. Nella corsa nitriva che proprio pareva una bestia e “scorlava” la testa che pareva indemoniato.  Mio padre scese in fretta e cominciò a correre e a gridare che tornasse indietro, ma non ci fu verso. Corsero anche dei cani e lo schiamazzo attirò presto dei contadini che lavoravano lì vicino. Si raccolse presto una canea chiassosa e stracciona, una specie di corte dei miracoli che invece di calmare e far tornare sui suoi passi Matìo, lo rese isterico e “imbrespà”. Divenne un rodeo tra la polvere e le vigne, tra l’erba e il grano. Infine il “balustrato” pensò bene di trovare asilo tra i rami di un ciliegio, che in quel momento, aveva una scala appoggiata. La corsa finì così, con gli astanti a supplicare che scendesse dalla pianta. Si appollaiò ben bene “come un simiòto” e forse memore degli amici pennuti con i quali a volte divideva la notte, si produsse in una specie di canto  che attraversava i prati. “L’è proprio mato, el canta da galo”, mormorava in basso la piccola folla che aumentava man mano che i minuti passavano. Il matto tra un canto e l’altro, tra uno starnazzare e un grido, infilava in bocca le ciliegie che in quel tempo erano ben mature e “spuàva i ossi” in basso sulle teste . Nessuno si arrischiava a salire la scala e pochi avevano delle idee per ricondurre a ragione il folle. Passarono quasi due ore e nulla succedeva anzi il “balenco”, forse rifocillato e per la prima volta degno di attenzione, era diventato incontenibile. Una fiumana di parole e di gesti che in qualche modo divertiva la piccola folla poco abituata  a novità di quel genere. Assistevano ad uno spettacolo inaspettato  che attirava e spaventava nello stesso tempo. Ad un certo punto un uomo gridò: “ el fumo, el fumo! bisogna far fumo soto la siaresàra”. Poca fiamma, ma tanto fumo affinchè l’amico del piano superiore disturbato nel respiro scendesse. Portarono un gran fascio di paglia umida e dei rovi e in poco tempo “ingardiarono” un fuoco, che produsse un fumo denso come una nebbia. Matìo, forse ormai stanco, in poco tempo e senza suppliche, scese dal ciliegio ed esclamò: “stavolta a ve gò fato paire i uvi dea grotona e… stè tinti ancóra.” Prima di riaccompagnarlo sul carro  bevve un sorso di acqua e si ritirò di nuovo per i bisogni, “che gli scampava ancora”, ma poi si fece riaccompagnare al carro con calma. Il prete che nel frattempo era giunto, gli raccomandò la calma e gli vergò sul dorso della mano una parola: matto. “Ti tornerà utile” disse a mio padre, che ormai aveva perso la sua spavalda baldanza dopo la figura che avevano fatto. Tutti li salutarono con la mano, quasi grati di aver trascorso un po’ di tempo in quel modo. Attraversarono ancora campi, sfiorarono aie e fattorie, capitelli e fornaci che verso Vicenza non mancavano in quel tempo. Furono in città sul far della sera e penarono un poco a trovare la strada per San Felice. Finalmente un grande fabbricato dal grande portone e dalle tante finestre si annunciò. Manicomio era  scritto in grande sul muro. Erano arrivati. Matìo, forse pago della sua giornata, se ne stava tranquillo sul carro, il più trafelato era mio padre, ormai stanco e teso dall’avventura. Suonò e presto il pesante cancello inghiottì il carro e i soci. La suora superiora arrivò con una consorella e una guardia, nemmeno salutò e chiese subito: “Chi zèlo  el mato”? Mio padre fece cenno al suo amico sul carro. “Sito sicuro? Te me pari spirità pì de lù”, disse la suora. Mio padre fece scendere Matìo dal carro e mostrò la mano del socio alla suora. “Matto” aveva scritto. La suora si convinse ed esclamò: “zè proprio vero che manincomio zè scrito par fora”. Nemmeno si voltò a salutare e mio padre fu congedato in fretta. Salutò con la mano Matìo, che diventava sempre più piccolo man mano che si allontanava sul lungo corridoio di piastrelle rosse. Tornò al carro e si rese conto che ormai la notte era alle porte. Si vide solo e lontano da casa e in quel momento i suoi 15 anni si sentirono in tutte le loro fragili certezze. Si rannicchiò sul carro e riprese la strada. Le ombre cullavano ora le sue paure e il pensiero di Matìo lo seguiva. Non era più tanto sicuro che il matto fosse il ”porocan” che aveva portato al manicomio. Si sentiva un po’ matto anche lui e vedeva negli adulti un “ramo di pazzia” ad aver mandato un bambino o poco di più a Vicenza con un “Cristo” che forse era malato di solitudine. Era un’umanità dolente e grama, che spesso confondeva i confini della normalità. Tutti erano ai margini in quegli anni, qualcuno lo era  di più. Avevano fame, erano ammalati, bisognosi di pane, di cure e di affetto, che a qualcuno, come Matìo, mancavano del tutto. Mio padre attaccò il cavallo ad un albero lungo la strada, aveva paura di perdersi del tutto dentro quella pianura ora abitata dalle ombre e dalla notte. Dormicchiò tra il canto dei grilli e il piccolo chiarore di qualche lucciola che ricamava il buio col suo puntolino colorato. Riprese il cammino al chiarore dell’alba, ritrovò i capitelli che il giorno prima avevano visto la loro rogazione. “L’acquasso” aveva inumidito ed imperlato di gocce i campi, profumi delicati nell’aria di fiori e di grano, anche il viso di mio padre era bagnato: di lacrime. Pensava all’amico che aveva lasciato, in quel posto distante e strano e quasi gli pareva di essere uscito dalla sua giovinezza irrequieta e selvatica. Con lui che non avrebbe rivisto più, aveva perso l’innocenza dei suoi anni.

Maurizio Boschiero

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