venerdì 25 gennaio 2013

Il bracconiere



“Ma stetu fermo si o no, sacramentòn de un’ostia, che te me fe scapare tuti i uséi”. Sbottava così mio padre all’interno del “casòto” senza togliere lo sguardo dal “pòso”. Teneva tra le braccia la doppietta, un vecchio calibro 16 a cani esterni che sembrava un cimelio uscito da un museo, la mascella era nervosamente tesa nello sforzo di concentrazione e i denti “i sgrensàva tuti”. Pronto allo sparo “tirava i òci tuto badanà”  sullo spazio davanti al capanno attraverso un “finestrólo” ricavato sul davanti del  “frascàro” con cui aveva costruito il capanno mimetizzato. Faceva spostamenti a semicerchio con l’occhio già  sul mirino per essere pronto e rapido nell’azione. Aveva pulito bene dalle erbacce il piano davanti alla posta per poter raccogliere facilmente le piccole prede che fossero cadute sotto i suoi colpi e aveva legato ad un albero un ramo secco  abbastanza grande ed evidente che era appunto il poso perché gli uccelli non si confondessero con le foglie una volta che si fossero ”messi” cioè fermati. Metteva le gabbie con i richiami su piccoli sostegni vicino alla siepe e “i sambej”, legati con dei lunghi fili, li manovrava dall’interno del “casòto.” Servivano per attirare gli uccelli che fossero passati  in quella  zona. In bocca teneva un richiamo di ottone circolare in cui soffiava per trarne il cinguettio delle varietà di uccelli che tentava di fermare.  Era tutto un rituale che mi sfiniva perché non ero interessato a questa liturgia che, benché bambino, ritenevo crudele. Io ero il maschio di famiglia e forse dovevo ereditare le passioni che erano state anche di mio nonno, ma non ne volevo sapere. Tanti uomini a quel tempo erano presi da queste pratiche o forse erano solo di quel tipo che conoscevo, amici di mio padre che frequentavano la nostra casa. Erano  infinite le discussioni che infiammavano quegli uomini che parlavano di fucili, cartucce, richiami, “ròcoli”, “bachetóni”, archetti e reti. Come era infinito il tempo  per me che dovevo starmene dentro a quell’angusto spazio senza far rumore! Un tormento. Un pò resistevo e stavo fermo, poi mi mettevo a giocherellare con qualche rametto o qualche sassolino. Bastava il minimo rumore per rompere quel silenzio che anche il respiro non doveva turbare.  "Opà (sta per papà) me ocòre far pissìn, dopo un po’: opà me ocòre far caca”. Non lasciavo di pesto mio padre. “Fala lì sacramento, chi vuto che te veda, no te volarè mia nar fora a spauràrme i uséi”. Alla fine sbottava quasi convinto: ”Sta bòn se no, no te porto pì co mi.” Io non vedevo l’ora di tornarmene a casa o di uscire da quel buco. Quando sparava, per farmi tacere mi mandava a cercare la preda che di solito era ancora  calda e piena di sangue. A volte era ferita, con gli occhietti ancora vispi, ed il cuore che batteva forte nella mano; la riportavo, ma avrei voluto che volasse via. Ci pensava lui  a finirla soffocandola e la metteva nel carniere insieme a tutti gli altri “del ròsso” . Prede ambite erano i tordi, i merli, i “sisilìni, le gazanéle” o anche i più piccoli, come “finchi, séleghe, fiste, beccafighi, squajàrdole, saranti, montani, becchi in crose” ecc. Il casotto mio padre l’aveva costruito sulla campagna di “Camisino” a ridosso di un “vignale”  perché doveva essere un posto  di buon passaggio. In autunno quando le foglie ingiallivano per poi virare al marron e cominciavano a cadere, qualche grappolo dimenticato di uva era un’attrazione golosa per gli uccelli ma anche per me che ne ero avido. Come mi piacevano tanto quei  “pérseghi” piccoli e selvatici che rimanevano sulla pianta a maturare fin quasi alla soglia dell’inverno quando con uno “scorlón”  cadevano a terra come una tempesta di palline gialle. Se non prendeva niente, mio padre riempiva il tascapane di “pùmi e di peri”. Credo fosse un’abitudine abbastanza diffusa e penso non fossero molto benvisti i cacciatori nei fondi agricoli di quei tempi nei primi anni ‘60. A casa mio padre teneva tutto un armamentario per la sua passione che curava con attenzione e pazienza. Le cartucce se le caricava per risparmiare, per cui possedeva una cassetta di legno con tutto il necessario. Si prendeva la cartuccia vuota che era di cartone, si estraeva con un punteruolo “el ramìn”usato e lo si sostituiva con uno  nuovo, facendo attenzione a non percuoterlo troppo per non farlo esplodere. Si metteva un misurino di polvere da sparo, che di solito era la Balestite, poi il “cartonsìn” la semola o la boretta , un altro cartonsìn, ed infine i “balìni”di numero 8 o 10 a seconda delle dimensioni delle prede a cui si voleva sparare, alla fine si metteva il cartonsìn di chiusura prima di fare “l’óro”con una macchinetta a manovella. Qualche volta aiutavo mio padre in questa pratica, che per un po’ mi prendeva, ma soprattutto  potevo fare degli scherzi. Come quella volta che con mio cugino Armando sostituii i pallini con della farina bianca su una partita di cartucce. Eravamo presenti quando mio padre sparò ad un bersaglio grosso, forse un “colombasso” che velocemente e con disperazione del cacciatore si allontanò senza nessun problema. Si sollevò un gran polverone bianco come una nebbia che fece infuriare mio padre. Tentammo di dire che era stato il fucile a “cristare”, ma lui capì la furbata: se avesse  potuto, ci avrebbe “consà per le feste”. Teneva anche i “bachetóni”, piccole bacchettine di legno spalmate di vischio che incollavano gli uccelli che si fossero posati, per poi ingabbiarli e tenerli da richiami o per farli finire in ”farsóra” con la polenta e il “mas-cìo", la salvia e il lardo. Aveva reti basse da quaglie e reti normali, che stendeva lungo le siepi della nostra riva. Era per me una pena vedere questi uccelli intrappolati senza possibilità di liberarsi, ma quando cominciai a essere un po’ più grande cominciai a liberarli senza farmi vedere, sennò sarebbero stati guai. Usava anche qualche archetto, quegli strumenti crudeli che rompono le gambe alla povera bestia. Per lui diventavo sempre meno affidabile, perché non mi interessava nemmeno la fionda, lo strumento che quasi tutti i ragazzi allora si costruivano con una forcella di “ornaro”, degli elastici di “camaradaria” e una coramella. Con l’unico tiro che feci mi scagliai il sasso sul naso e non ne volli più sapere. Mio cugino invece aveva imparato bene la lezione e tra “bachetóni, fionda, reti, montagnole e lugarini “ non ne aveva un minuto. “Lu el parea bon a essare el me tóso, no ti”, mi ripeteva sconsolato quando vide chiaramente che i miei intenti erano altri. Il colpo finale fu quando cominciai a rifiutare “gli usei e la polenta onta” che mia madre ricavava da tutta quella attività di mio padre. Non capiva la mia presa di posizione, forse si vergognava anche di avere un figlio eretico che non lo seguiva. Cominciò a non chiamarmi più nelle sue scorribande preferendo qualche altra compagnia più interessata a quello “sport”. Io mi feci grande e non ne volli più sapere di queste cose. Fu intorno ai 20 anni ed era il ‘75 che me ne combinò una di grossa che mi segnò abbastanza e per lungo tempo. Era il mese di settembre ed io ero con mio cugino Armando, quello che, secondo mio padre, poteva essere suo figlio, presso certi parenti a Mortara nella Lomellina in provincia di Pavia. Mi piacevano quelle terre piatte e grasse coperte di riso e di pioppi. Ci andavo volentieri perché erano posti con della poesia tra quel verde così intenso e tutto uguale, quelle nebbie che si tagliavano con il coltello,  quei fossi pieni d’acqua che alimentavano i mulini per il riso. Passammo qualche giorno senza pensieri a gironzolare e a camminare tra quelle distese. Tornammo carichi di riso e di vino che in quei posti era decisamente diverso dalla “pinpinéla” aspra che dava la nostra terra ai piedi dei monti. Vidi subito che in casa qualcosa era successo perché mio padre era più scontroso del solito e mia madre tradiva un’agitazione abbastanza evidente. Senza tanti preamboli mi dissero quasi subito che le guardie avevano trovato mio padre che tendeva una rete tra le siepi della “Singéla” vicino all’Astico. Sapevano che era un cacciatore e credo sapessero anche che era dedito al bracconaggio con le reti o altri attrezzi. La posta non doveva essere durata molto conoscendo le abitudini del soggetto, che non sapeva star distante dai suoi passatempi venatori legali o non. Però non avevano forse, fatto i conti con la sua testardaggine perché, nonostante fosse stato trovato con le mani quasi nel sacco, si diede ad una fuga  furibonda, che fulminò le due guardie. Chiaramente sapevano chi era e dove abitava e  aspettarono tranquillamente che tornasse a casa appoggiati come due bravi di  manzoniana memoria uno per parte davanti al  cancello. Mia madre divenne color verderame, come quello che mio padre teneva nel bidone in corte per le “viséle”, ma nulla potè fare o dire. Esclamò solo: “Quel’omo là el me fa deventar mata, Maria Vergine varda in zò”. Poi il silenzio pieno di ansia e di “nervoso”. Quando il fuggitivo pensando di averla fatta franca si presentò a casa pareva “L’Ecce omo”. Sudato, paonazzo dalla corsa e sporco di terra e di foglie. Forse non immaginava di trovarsi con  quella visita angosciante in casa così rimase di stucco. Cominciò una trattativa prima colorita da qualche bestemmia, che poi piegò a più miti maniere,  forse complice mia madre che fece il caffè. Alla fine, ed era quasi imbrunire, dovevano essere  sfiniti tutti. Vi era una multa da pagare, la confisca della rete, ma quello che  sconsolava il bracconiere era il ritiro della licenza di caccia. Sarà stata l’ora tarda, lo sfinimento o la compassione, fatto sta che si accordarono nel trovare una persona che per lui mettesse la firma e che si assumesse quella responsabilità. Fu qui che con un colpo di genio pensarono a me, visto che mai più, dai tempi del “casòto” mi ero interessato a quello sport che non avevo mai capito. Alla proposta nicchiai un po’, poi mia madre piagnucolando mi convinse. A malincuore firmai. Ero io il bracconiere. Su quella carta stava scritto: Boschiero Maurizio contravvenuto per aver esercitato l’uccellagione e impiegato durante la stessa mezzi vietati, senza licenza. Preso …  in flagrante.  Pur essendo in Lombardia, aggiungo io. Bastava un articolo del codice e due righe fredde e burocratiche per cancellare una pagina di vita, che nulla aveva da spartire con quel mondo per me inaccettabile, uno “striso” nell’anima che non ho saputo mai cancellare. Pensai che tutto si fosse risolto per me con una firma e per mio padre con una multa. Sicuramente pagò, ma non seppi mai la cifra anche se gliela chiesi. Lui si conservò il prezioso documento, mia madre contenta che il consorte fosse uscito quasi indenne dalla sua bravata, io… Un giorno con mio cugino ci fermammo di ritorno da Thiene a prendere qualcosa al bar “delle Casette” sulla strada per Carrè. Casualmente nel locale trovammo un nostro paesano che io conoscevo solo per averlo sentito nominare e che invece mio cugino conosceva bene. Dopo aver salutato e chiesto come andasse, guardandomi disse: ”E questo giovanòto chi zélo?” “Maurizio Boschiero, me cugìn” rispose Armando. “Ahhh!!! Ti si quelo che i te ga ciapà con la rè e che i te gà messo nel giornale de Vicensa” bofonchiò con un sorrisetto cattivo, scoprendo i denti rovinati dalla nicotina. Mi alitò in faccia una zaffata di vino e di fumo che non mi fece star male come quelle parole. C’erano altri avventori nel locale, che si girarono a guardare “il mostro” schiaffato sul giornale. Io diventai giallo di rabbia, anzi rosso di vergogna o forse anche bianco dal panico. Tracannai in fretta la bibita che avevo davanti e per poco non mi andò di traverso. Uscii in fretta “dalle Casette” quasi stordito da tanta notorietà. Mi ero fatto un nome in paese, ma in quel modo ci avrei rinunciato volentieri, dovevo ringraziare la sensibilità di mio padre che se ne era fregato di tutto, fuorché del suo tornaconto. Per qualche anno evitai di frequentare il paese, mi sembrava che tutti mi riconoscessero per il bracconiere del giornale. Immaginavo le chiacchiere da bar, le parole spese malamente a commento di questa storia. Passarono il tempo e gli anni, ma non dimenticai questa storia. Mio cugino di tanto intanto mi ricorda ancora la vicenda commentando: “proprio a ti la dovéa  sucédarte”. Quando morì mio padre tra le sue carte trovai il famoso documento che mi accusava. C’era scritto Boschiero Giovanni, ma una serie di crocette cancellava il nome e di fianco Maurizio bracconiere. Hanno cancellato il  nome di mio padre mettendoci il mio, ma io non posso cancellare questa storia. Ho voluto scrivere questa vicenda, non per denigrare mio padre anche se un po’ gliene voglio ancora, ma per far capire  che a quei tempi non si guardava troppo per il sottile neanche nei confronti dei figli. Erano uomini temprati da mille vicende di stenti e di fame, che avevano attraversato la guerra e la pace, che forse stentavano a riconoscere. Certamente volevano bene ai figli, ma dovevano assomigliare  al padre o al nonno, dovevano diventare uomini sulle tracce di quegli uomini. Se invece, come nel mio caso, uno andava per la sua strada,  si perdeva in incomprensioni che duravano la vita intera. A me è successo questo.

Maurizio Boschiero



                                                                         

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