martedì 30 novembre 2021

Murajùni, fora febraro e vecio ano novo..

 

【Gianni Spagnolo © 21M25】

Chissà come appariva San Pietro ai primordi, ossia quando i primi Sanpieroti si stabilirono sotto questa sassàra. Lo sfondo del paese della nostra fanciullezza era proprio il bianco pendio sassoso e spoglio delle Jare, delle Giare o delle Marogne, che dir si voglia, sostenuto dai massici muraglioni in pietra eretti nel primo dopoguerra. Al giorno d’oggi, fortunatamente, quella riva è ormai completamente boscata e fa da piede vegetale del Sojo, che ne guadagna in prospettiva, assieme al paese. Forse i primi abitanti trovarono una situazione simile; magari quella distesa detritica era ancora fresca e il Sojo continuava ad alimentarla periodicamente con crolli e smottamenti. Chissà! 

Scalare i murajùni era la nostra specialità di bociasse, anche perché quei grossi sassi squadrati sovrapposti a secco, garantivano buoni appigli e fessure per essere superati con relativa facilità. Un secondo intervento estese la protezione per mezzo di gabbioni di sassi scatolari in rete metallica.  In seguito all’ultima scarica di sassi dal Sojo, avvenuta nel 1978, vennero infine realizzati i trinceroni attuali e rimboscato il pendio. 

Sopra il terzo muraglione si accendevano i fuochi per “far fora febraro”, ossia la chiamata di marzo per quelli che abitavano in piazza. Era la manifestazione spontanea della gioia che invadeva gli animi della gente costretta a restare chiusa nella case e nelle stalle per almeno quattro mesi. Non appena  il primo tepore primaverile scioglieva la neve che aveva sopito il paese e le sue attività, la preparazione del falò per “far fora febràro” era l’occupazione del risveglio dal letargo dei giovanotti del paese. Tutto ciò che poteva bruciare di un fuoco vivo veniva ammassato sul murajòn e negli altri posti tradizionali delle contra’, dove s’accendeva la competizione su chi faceva il falò più spettacolare. Il combustibile più adatto e tradizionale erano i ciuffi secchi di denévre, che ardevano d’un fuoco vigoroso e scoppiettante, mentre ultimamente si usavano anche i copertoni  in gomma, che producevano vistose volate di fumo nero. Raccogliere i rami di ginepro, russe séche, visùni e sfasciumi vegetali dell’inverno, era anche occupazione della bociaria, che li conferiva volontariamente al falò per guadagnarsi l’accesso a quel rito governato dai giovanotti più grandi. Rito che prevedeva gridare filastrocche tradizionali per suggerire i maritamenti più strampalati e far bàgolo e casòto, avendo come uditorio la gente ammassata in Piazza per l’occasione.

Il falò bruciava l’Inverno e il Male e il paese si apriva alla nuova stagione vegetativa secondo riti ancestrali di rinnovamento e rinascita ricorrenti in tutto l’arco alpino. Solo nei territori appartenuti alla Serenissima Repubblica Veneta si conservavano, assieme agli altri elementi del rito, anche le filastrocche di fidanzamento, vere o scherzose che fossero. Si trattava d’un antico e unico sistema rituale che propiziava l’anno nuovo con inizio ai primi di marzo. Esso prevedeva il fuoco tradizionale e il frastuono, accanto a un’invocazione alla nuova stagione, affinché affretti il suo arrivo e porti un buon raccolto. Venezia conservava il primo marzo come Capodanno ufficiale, secondo il vecchio calendario Giuliano e questo fatto potrebbe dare una spiegazione alla maggior frequenza e persistenza delle feste di marzo in Veneto anziché altrove.





SNOOPY

 

lunedì 29 novembre 2021

Solo GRAZIE

 


Per ognuno di noi la vita è un mistero: ci dà, ci toglie, ci illude, ci fa sperare…  

A tutta la mia famiglia, la vita ha dato tanto dolore, con noi è stata avara di tutto. Scorrendo le pagine di quel libro che ognuno scrive, nel nostro trovo più dolore che gioie, più preoccupazioni che serenità, più lacrime che sorrisi. 

In qualche modo, abbiamo provato a risollevarci, ad andare avanti perché comunque, la vita ci chiede ogni mattina di essere vissuta e anche perché, fermarsi e stare nel dolore, non cambia le cose.

Anche stavolta la vita ci ha colpito pesantemente, ci ha tolto un ramo importante del nostro albero, facendoci sentire forte il vuoto e l’assenza di chi ci ha lasciato. Ci ha fatto sperare per tanto tempo, ci ha illuso per poi bastonarci ancora una volta, ancora con violenza…

In questi momenti non esistono parole per consolare, non ci sono ricette per sanare, non ci sono soluzioni a tante domande e ai tanti perché, che non trovano alcuna risposta. Trovare un senso a tutto quello che ci è capitato, ora non è possibile, è umanamente impensabile; trovare un senso alla vita di tutti i giorni, quello sì, cerchiamo di farlo nel ricordo di chi non è più tra noi.

Avere tante manifestazioni d’affetto e di condivisione, ci riscalda un po’ il cuore che è come in una morsa di ghiaccio. Ogni persona che abbiamo incontrato e che incontriamo ogni giorno, ci dice la stessa frase:- No ghe xe parole”… in nessun libro, in nessuna enciclopedia cartacea oppure online, possiamo trovare le giuste parole, nessuno ce le può dire... 

La parola che mi viene in mente e che ritengo giusta è  provare “compassione”, dal latino cum patior = soffro con; è un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui, desiderando alleviarla: sentirsi dentro a quella situazione, a quel dolore. 

La compassione cristiana consiste essenzialmente nella condivisione delle avversità altrui, in altre parole, la solidarietà verso il prossimo; Gesù nella sua vita terrena, prova spesso “compassione” per le persone e ci insegna che ogni giorno, in ogni situazione, possiamo provare questo sentimento, per sentirci “dentro” alle emozioni dell’altro...

Ci sono stati nei giorni passati, e ci sono ancora, tanti abbracci che hanno detto più di ogni parola, che silenziosamente hanno espresso sentimenti ed emozioni  profonde, difficili da spiegare. Tantissimi abbracci ho ricevuto, tanti… accompagnati dallo sguardo, mi hanno dato forza e calore, in un freddo giorno di novembre... 

In cimitero, mi hanno commosso di più i teneri abbracci di alcune ragazze del gruppo “Fraternità” di cui sono accompagnatrice: abbracci colmi d’affetto e di quella freschezza che la loro età porta con sé.

Tanti messaggi... (ne ho contato 112), telefonate, biglietti e telegrammi… Tutta questa vicinanza è stata, ed è per me importante, è  la certezza di essere “pensata” e che tutta la mia famiglia è avvolta dall’affetto di molte persone. 

Alcuni mi hanno detto che siamo nei pensieri di molti: questo non può cambiare gli avvenimenti della vita, ma la rendono più “vivibile”,  si sente anche solo con gli sguardi che “l’altro” prova a condividere con te il dolore. Ho pensato a quanto arida e triste sarebbe stata la mia vita senza tutte le manifestazioni che ho ricevuto e che ricevo quotidianamente: per me sono linfa vitale, sono coraggio, sono forza per proseguire un cammino tanto difficile, duro e faticoso…

A tutte le persone che ci hanno pensato e ci pensano dimostrando la loro amicizia e il loro affetto, non so dire altro che GRAZIE, grazie di come date prova di quanto i veri sentimenti siano importanti: sono come un collante che tiene unito e rafforza le persone, come un raggio di sole che filtra tra le nuvole, come la pioggia leggera che bagna la terra assetata, come un fuoco che riscalda… 

GRAZIE!

Lucia Marangoni Damari

Pedescala, 27 novembre 2021


I video di Gino Sartori - l'antica via dei Prioni in Val d'Assa

 


In ricordo dei Cavalàri



Riecco per voi il nostro murale dedicato ai “CAVALLARI”, in versione diurna e notturna.
Ma in cosa consisteva il loro duro mestiere?
I cavallari, come ben illustrato nel murale, avevano il compito di andare in montagna, ritirare e portare a valle i tronchi degli alberi tagliati, che tenevano accatastati per alcuni giorni vicino alle loro case.
Due/tre volte la settimana li portavano poi a vendere in pianura. Il tutto, servendosi di carri trainati da cavalli (da cui il nome “cavallari”).
Avremo ancora modo di parlare di questo murale, che potete ammirare nelle vicinanze della Casetta della Pro Loco a San Pietro Valdastico.
Nel frattempo, ancora tutto il nostro plauso all’artista Fernando Protto che lo ha realizzato.
(ViviValdastico)

La calcara del Folo - Pedescala (foto del 1928)

 


Essa era situata in località "Folo" di Pedescala proprio dove terminava il ciclopico "Murasso" costruito dagli scalpellini di Tonezza nel 1882 ed in gran parte scomparso con l'alluvione del '66.
La "Calcara" assieme ad un'altra sita in Valdassa servì al paese nella sua ricostruzione dopo la Grande Guerra e dopo i tragici eventi del 30 Aprile 1945. Il prodotto si otteneva cuocendo le pietre calcari per tre giorni e tre notti in una fornace, utilizzando la legna come combustibile; dopo questo primo passaggio i sassi diventano completamente bianchi, venivano quindi successivamente riposti in una vasca d'acqua diventando così "calce". Lo scatto mostra inoltre i fabbricati del "Folo" i quali da sempre sfruttando l'energia dell'acqua della vicina Valdassa furono adibiti nei secoli alle più svariate attività produttive come ad esempio: si macinava la corteccia di larice per colorare il cuoio, movimentavano dei folloni per la lana, furono una falegnameria, un'infermeria (nel 1916), una stalla, un'abitazione, ed una segheria della quale gli ultimi proprietari furono i Pretto "Subia".
(il toponimo "Folo" deriva perché in quel luogo nei tempi remoti esistevano dei macchinari detti "folloni" con i quali si produceva il "feltro", una specie di stoffa realizzata in pelo animale; non è un vero tessuto, esso veniva prodotto con l'infeltrimento delle fibre di lana conferendo così al prodotto una maggiore resistenza, compattezza e una certa impermeabilità).
Delmo Stenghele

SNOOPY


 

domenica 28 novembre 2021

La Croce dei Rìghele

【Gianni Spagnolo © 21M25】

Questa piazzola è situata lungo la strada di fronte all’abitato dei Rìghele e prossima all’incrocio con la diramazione che scende a contra’ Basso. Era rimasta a lungo in stato d’abbandono e sprovvista della precedente croce in legno andata distrutta. Ne è stata recentemente eretta a nuovo una in legno a cura di Dario Basso, che abita nei pressi. Si trova a delimitare il confine meridionale della parrocchia di San Pietro, così come il capitello della Torra presidia quello settentrionale.

Non si ricorda la data di erezione di questa piazzola votiva, ma è sicuramente anteriore alla seconda guerra mondiale. Originariamente vi esisteva una croce in ferro, poi corrosasi, che costituiva il terminale della solenne processione del Venerdì Santo sui termini meridionali della parrocchia di San Pietro. Per l’occasione venivano realizzati un altarino e degli addobbi dalla vicina famiglia Ninato. È l’unica struttura religiosa di questa parte della parrocchia, giacché i tre abitati di Bellasio, Righele e Basso sono privi di capitelli.  Allora la processione si dipartiva da sopra, lungo il vecchio sentiero che costeggiava la valle, come a ribadire la giurisdizione parrocchiale di San Pietro sulle terre  situate sulla destra orografica della valle di Rigolòso.

La posizione strategica della piazzola, in tempi in cui le rive erano tutte coltivate e prive di vegetazione arborea, risultava ben visibile anche dalla sottostante contra’ Basso e pure da Valpegara, dove si svolgeva analogo rito a cura del parroco di Forni.


La pagina della domenica




28 novembre 2021

Lc 21,25-28.34-36
I Domenica di Avvento
di Luciano Manicardi

In quel tempo Gesù disse:" Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. 

Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell'uomo».



La prima domenica di Avvento ci fa entrare in un nuovo anno liturgico (l’annata liturgica C) in cui la pericope evangelica domenicale è tratta dal vangelo secondo Luca. Vangelo che, a differenza di tutti gli altri, costituisce la prima parte di un’unica opera la cui seconda parte è consiste negli Atti degli Apostoli, che potremmo definire “la prima storia del cristianesimo”. Costruendo questo complesso Luca ha voluto mostrare che la vita della Chiesa (di cui gli Atti narrano la nascita con la Pentecoste e poi i primi passi soprattutto attraverso le figure di Pietro e Paolo) è radicata in Cristo e trova in lui il suo centro di gravità. Non a caso, gli Atti iniziano riassumendo così il terzo vangelo: “Nel primo racconto, o Teofilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito santo” (At 1,1-2). Il vangelo lucano contiene dunque “ciò che Gesù fece e insegnò”. E tra gli insegnamenti di Gesù vi è il discorso escatologico, il discorso sulle cose ultime, da cui è tratta la pericope della I domenica di Avvento (Lc 21,25-28.34-36).

Nel suo discorso escatologico, Gesù spiega che la distruzione del tempio non è segno della fine del mondo (Lc 21,5-9), ma inizio dei “tempi delle genti” (Lc 21,24), che sono i tempi della storia, tempi che avranno fine con la venuta del Figlio dell’uomo. Luca accenna appena alla parusia (“Allora vedranno il Figlio dell’Uomo venire su una nube con grande potenza e gloria”: Lc 21,27), mentre mostra piuttosto le reazioni degli uomini a questo evento escatologico. L’accento è sulla storia che è il luogo in cui il credente è chiamato a sperare vigilando e pregando in mezzo a tribolazioni. La venuta gloriosa del Signore è vista da Luca nelle reazioni che produce sugli uomini: il dramma escatologico è un dramma umano, storico, esistenziale. Eventi catastrofici nella natura e nella storia, in cielo e in terra, che saranno motivo di angoscia e smarrimento, di attesa ansiosa, di paura e morte per tanti uomini, per i credenti potranno essere il segno dell’avvicinarsi della salvezza. “Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28). Alzare il capo significa anche “alzare gli occhi” e vedere ciò che a molti resta invisibile: la salvezza che avanza tra le tribolazioni storiche, il Regno che emerge da dietro le macerie della storia, la promessa del Signore che resta salda anche nell’accumularsi delle rovine “sulla terra” (Lc 21,25). Nessun pessimismo, nessun far coincidere le catastrofi naturali e storiche, per quanto devastanti, le guerre, le pandemie, le crisi ecologiche con la fine del mondo, ma anche nessun cinismo, nessuna fuga dai dolori e dalle assurdità del reale per rifugiarsi in una visione spiritualistica o ingenuamente ottimista.

Del resto, per Luca non solo gli “uomini”, cioè “i non-credenti”, sono sottomessi al rischio di essere soverchiati, schiacciati dagli eventi che devono succedere, ma anche i credenti se non veglieranno e non pregheranno (cf. Lc 21,34). Luca evoca discretamente ma efficacemente le paure collettive, le angosce planetarie che schiavizzano uomini e collettività rendendoli preda di ciò che potrà accadere: “gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra” (Lc 21,26). Per Luca il dramma escatologico è dramma storico globale, che investe l’intera terra abitata, l’ecumene (oikouméne: Lc 21,26), “la faccia di tutta la terra” (Lc 21,35). In particolare sembra che Luca, parlando della paura di ciò che in futuro accadrà, parla dell’immaginazione del futuro che produce paure e angosce in tanti uomini, parla di rappresentazioni mentali che ingenerano ansia nelle persone fino a schiavizzarle e paralizzarle, quasi inducendole a gettarsi da sé nel baratro. Per questo l’esortazione alla vigilanza che seguirà subito dopo (Lc 21,34.36) è anzitutto appello alla lucidità, alla sobrietà, a non cercare vie di stordimento e immunizzazione dal peso e dal dolore della realtà, a non lasciarsi ottundere dal “rumore” degli eventi. Dietro agli eventi che non sono ancora accaduti ma che hanno tale potere di accasciare gli uomini occorre riconoscere in realtà le narrazioni, le rappresentazioni, le immagini, le proiezioni di tali eventi, non gli eventi stessi.

Non sarebbe troppo azzardato tentare un’ermeneutica di questi testi intravedendo il potere del sistema comunicativo che crea narrazioni parallele alla realtà ma distanziate da essa fino a sostituirla e a spacciarsi per vera realtà. Ciò che è particolarmente interessante è infatti che questi eventi catastrofici che saranno colti come segno di “fine” da tanti, saranno motivo di smarrimento, angoscia, paura e morte per molti uomini, per i credenti potranno essere segno di inizio e di vita, segno dell’avvicinarsi della salvezza, della vita: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28). I credenti potranno proprio allora vedere che quella fine è l’inizio della salvezza e potranno stare in piedi nell’atteggiamento di chi ha una speranza, una direzione di marcia, un senso. Ecco che il cristiano, colui che crede la resurrezione di Cristo dai morti, mostra questa sua qualità sapendo scorgere speranza e luce là dove non c’è che buio e distruzione. E qui va detto che questa distinzione fra “gli uomini” e “voi” non è una distinzione rigida fra non-credenti e credenti, ma in realtà anche il credente conosce la synoché (Lc 21,25: CEI traduce “angoscia”), cioè la strettezza di cuore, l’angoscia, l’essere in balia di paure e fantasmi o credenze che lo agiscono; conosce l’aporía (Lc 21,25: CEI traduce “ansia”), cioè il perdere il cammino, lo smarrimento, l’essere disorientato, spiazzato e reso fuori luogo dagli eventi che accadono; conosce la paura, phòbos (Lc 21,26) la paura che arriva a paralizzare e dominare; conosce la prosdokía (Lc 21,26), cioè l’attesa ansiosa, piena di insicurezza e di incertezza. Alla luce di queste parole si può dare un contenuto più preciso alla vigilanza. Vigilare significa lottare positivamente contro l’angoscia, non perdere la bussola e proseguire il cammino intrapreso, ritrovare forza e coraggio che impediscono alla paura di condurre alla morte (v. 26: “moriranno di paura”), nutrire la speranza cristiana e non cadere nella disperazione.

In particolare, la vigilanza tende a impedire “l’appesantimento del cuore” (v. 34), il suo ispessirsi che lo conduce a perdere lucidità, il suo rivestirsi di una corazza che lo difenda dalle sofferenze della vita. La vigilanza è lotta contro l’abitudine e la sua influenza anestetica. In particolare, l’ammonizione mette in guardia dall’ottundimento dei sensi e dell’intelligenza che può venire da un’angoscia che si sfoga negli eccessi del mangiare e del bere, da una paura della morte che viene esorcizzata nelle sfrenatezze sessuali, da un non-senso che si manifesta nelle preoccupazioni ossessive per se stessi. È così che l’attesa del Signore veniente può divenire realtà quotidiana, vissuta “in ogni momento” (v. 36). Attendere il Signore nella vigilanza e nella preghiera significa farlo regnare sul nostro oggi e conoscerne dunque la venuta già qui e ora. E significa essere irrobustiti, ricevere forza così da perseverare nelle tribolazioni e nelle prove e discernere in esse l’avvicinarsi della salvezza.

Esortando a “stare attenti a voi stessi” Gesù dà un’indicazione spirituale e, con il prosieguo del suo parlare, indica che lo squilibrio spirituale (non vigilare, non pregare, non stare attenti a se stessi) si manifesta in squilibri del corpo e della psiche, in eccessi che impediscono di avere una visione equilibrata delle cose e della realtà. Dietro alle “dissipazioni e ubriachezze” (in crapula et ebrietate: Lc 21,34) vanno riconosciute le dissolutezze che si accompagnano alle ubriacature, la vertigine, l’estasi artificiale che allontana dalla realtà e non consente più di dare il giusto peso alle cose. Questi eccessi conducono a un’uscita da sé non nella via della relazione con l’altro, ma nella via della deresponsabilizzazione, dell’incoscienza. Essi spingono anche a quelle sfrenatezze sessuali che, in stato di sobrietà, ci si inibisce dal fare. Ma poi si parla di “affanni della vita”. Potremmo anche tradurre con “angosce esistenziali”. Si tratta della preoccupazione smodata per il proprio io, sia la propria salute o la propria riuscita, il proprio corpo o il proprio successo, la propria immagine. Anche qui la visione della realtà non è più oggettiva, ma offuscata da un io troppo ingombrante e invadente, che occupa tutto lo spazio.

Di fronte a questi pericoli ecco dunque l’esortazione: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire (lett. “stare in piedi”) davanti al Figlio dell’Uomo” (Lc 21,36). Preghiera e vigilanza, che pongono il credente alla presenza di Dio, mostrano una valenza escatologica: vivendo alla presenza del Signore nell’oggi, il credente si prepara a incontrarlo e a stare in piedi davanti a lui, con atteggiamento di franchezza, fiducia e libertà, alla sua venuta.

Comunione della classe del 1957 a San Pietro

 

O1 - Sandro Lucca

02 - Giuseppe Alessi

03 - Riccardo Nicolussi

04 - Marco Fontana

05 Stefano Bonifaci

06 - Walter Sella

07 - Massimo Stefani

08 - Lorenzo Slaviero

09 - Don Emilio Garbin

10 - Antonella Sella

11 - Rosanna Spagnolo

12 - Claudia Toldo

13 - 

14 - Piero Lorenzi

15 - Elisabetta Rossati

16 - Lina Stefani

17 - Caterina Rossi

18 - Maria Paola Serafini

SNOOPY

 


venerdì 26 novembre 2021

Gli ambulanti di un tempo - l'ombrelàro - POST RIPROPOSTO -



Arrivavano da Paesi limitrofi o anche da lontano, talvolta anche da fuori Regione, si spostavano a piedi, con la bicicletta o con rudimentali carretti trainati a mano.
Qualcuno rientrava a casa la sera, altri anche dopo un peregrinare di svariati mesi.
Fino a qualche decennio fa li vedevamo girare nei nostri Paesi e Contra' in determinati periodi dell’anno.
Si facevano annunciare da un loro caratteristico grido di richiamo, per vendere le loro merci o per offrire i loro piccoli, ma indispensabili servizi di artigiani.
Non si negava mai loro un piatto di minestra e un pagliericcio per trascorrere la notte al riparo dalle intemperie, anche perché non sempre c’erano soldi per pagarli…

ERANO GLI AMBULANTI…
piccoli commercianti al minuto,
artigiani di oggetti di uso comune.

Sono professioni all’oggi del tutto tramontate o comunque radicalmente trasformate.
Anche loro, nel loro piccolo, erano parte utile e colorita della vita di un tempo che fu.


L’Ombrelàro…

   
L’ombrelàro credo abbia resistito più di tutti. Lo si è visto fino ai primi anni ottanta, poi la produzione industriale di ombrelli a costi ridottissimi ha reso assolutamente improponibile questo tipo di lavoro che, tuttavia, anche un tempo era fonte di magri guadagni.
Si annunciava gridando: l’ombrelàro dóne, l’ombrelàro… ombréle vécie…l’ombrelàro el le giusta… o anche: dai che pióve…
Come tanti altri Ambulanti, quando aveva fatto il giro delle case e raccolto un congruo numeri di ombrelli da aggiustare, si fermava al centro della Contra' o davanti la chiesa o, in caso di pioggia, sotto qualche accogliente portico, per eseguire i lavori commissionatigli.
Non possedeva una grande e complessa attrezzatura: gli utensili che normalmente utilizzava erano costituiti da pinze, tronchesi, qualche martello, delle brocchette, una piccola forma che serviva per ribattere quando doveva fissare le stecche all’ombrello.
Con rapidità e precisione l’Ombrelàro cambiava le stecche rotte, sostituiva gli scróchi a molla difettosi, i manici rotti o piegati, metteva delle toppe di tela circolari (i capelóti) intorno alla punta dell’ombrello, dov’era più comune lo strappo.
A mezzogiorno non era infrequente che venisse invitato a sedere alla povera mensa di qualche Cliente…
Un’ospitalità e una generosità che oggi ci appaiono davvero lontane… Altri tempi... indubbiamente...



Non é più tra noi - nr. 15 - 11/21




 

La prima bròsema...



Pedescala  24/11/2021


N'altra matìna, salùda el paese,

ma ecco, qualcosa de novo se vede...

vestìo de candida bròsema, brilànte,

dapartuto el xe slusegànte!


I covèrti, le strade e anca i prà,

pieni de fredo e tuti ingiassà...

xé meravéja, xé un quadro de autore…

na làgrima vien xo e... bagna el core.

                                                                      Lucia


Il cimbro é ancora vivo

VALDASTICO INCONTRA/3

Venerdì 26 Novembre alle ore 20.45, l'ultimo appuntamento al Portego del Campesan con Umberto Patuzzi, in collaborazione con la Pro Loco Pedescala.
Il Cimbro è ancora vivo.
Una lingua, i toponimi, le radici etimologiche.
Prenotazione consigliata, green pass obbligatorio.
Vi aspettiamo!



 

SNOOPY


 

mercoledì 24 novembre 2021

Il prezzo della civiltà


Gianni Spagnolo © 21M22】

È opinione comune che gli italiani difettino di senso civico. Tutto ciò che non ci appartiene, che è comune, pubblico, o che comunque non ci riguarda direttamente, non gode infatti della stessa considerazione e cura che riserviamo alle cose di nostra esclusiva PROPRIETÀ. Anzi, talvolta ci prendiamo addirittura gusto a danneggiarlo, a dilapidarlo o semplicemente a trascurarlo.

C’è senz’altro del vero in questo pregiudizio, aggravato dal fatto che abbiamo un grande patrimonio in bellezze artistiche e paesaggistiche che avrebbero certo miglior tutela in mano di cittadini più civili, attenti e sensibili. Eppur si dice che basterebbe poco; sì, ma quanto poco?

Qui siamo in grado di quantificarlo con precisione: basta 1,00 Euro!

Eh sì, ciò, ancamassa! Basta un misero Euro per fare la differenza fra un comportamento civile e uno incivile dell’ITALIANO MEDIO, potenzialmente, ma non necessariamente, incivile. 

Ora vi starete senz’altro chiedendo come facciamo a calcolarlo. 

Semplice e alla portata di tutti: basta andare al supermercato e prendere il carrello delle spesa dal suo baracchino. Per farlo dobbiamo infilare una moneta da 1 Euro nell’apposito pertugio, in modo da liberare il carrello dalla catenella di bloccaggio. Per recuperare quella NOSTRA monetina si può star sicuri che riporteremo al suo posto il carrello vuoto non appena avremo caricata la spesa in macchina. Magari, per non smentirci del tutto, gli lasceremo dentro qualche pezzo d'imballaggio, omettendo di gettarlo nel cestino lì vicino. Se non ci fosse quell’interesse, possiamo stare altrettanto certi che parecchi carrelli sarebbero abbandonati alla rinfusa nei parcheggi, creando confusione e disservizi. Così infatti accadeva prima che venisse adottato questo condizionamento psicologico, ossia individuata la leva minima che facesse fare quello che qualcuno non farebbe di sua sponte.

Quindi, per la modica cifra di 1 Euro, siamo disposti a comportarci bene, cioè rimettere al suo posto il carrello, con ordine e civismo. Ecco dunque che la differenza fra il comportarsi bene o male vale appunto un solo Euro. 

Giova ricordare che furono condotti degli studi per appurare quale fosse il valore monetario minimo che inducesse a comportarsi correttamente, verificando che le monete da 10 o 20 centesimi non erano uno stimolo sufficiente; l’interesse cominciava a scattare dai i 50 cent. in su. 

Dunque, ...se tanto mi dà tanto, l’italiano viene via con poco, ... con gli spiccioli. 

Per girare il coltello nella piaga, è opportuno sapere che l’Italia è una delle poche nazioni al mondo dove si prende il carrello con una moneta; gli altri lo rimettono in ordine senza incentivi, perché sono più educati.

Ecco, l’italiano medio si crede molto furbo, ma si fa comprare con gli spiccioli; e questo mi sa che vale per molti, moltissimi aspetti della nostra vita.


SNOOPY


 

martedì 23 novembre 2021

La machina del forménto

【Gianni Spagnolo © 21M17】

Giugno ha la falce in pugno”, recita il detto. È questo il mese dalla mietitura, del sudore, della fatica nei campi dorati dalle spighe al vento, l’evento più atteso dell’anno. 

Qui da noi, in verità, non è che avessimo terra dalla vocazione cerealicola, né produzioni significative di frumento; era tutto basato su coltivazioni familiari destinate al consumo domestico. Ogni famiglia lavorava il prodotto in proprio con mezzi tradizionali, finché, dai primi anni Sessanta, non s’impose la meccanizzazione delle operazioni di trebbiatura, cancellando i secolari riti. Prima di allora, infatti, per separare il chicco dalla pula, le donne dovevano batterlo sul sóco o su una tóla da lavare e poi recarsi in posti ventosi e lanciare in aria il grano, in modo che la bula (pula), più leggera, si disperdesse.

Ogni anno, verso la fine di giugno, al tempo che maturavano i piri sampierùi,  arrivava in paese puntuale la machina del forménto. Veniva su da Thiene, dai campi piani di Rozzampia, dove c’erano produzioni di cereali che giustificavano un simile investimento; era una Laverda rossa, mi pare.

Giugno per noi bambini era magico: rappresentava la fine della scuola, la libertà, i giochi all’aperto fino a tardi, la sagra de San Piero, le giostre e… l’appuntamento con la la machina del forménto…

Veniva posizionata al Campo del Comune ed era tassativo per noi  bociasse convergere sul posto per assistere alle operazioni, stando però a debita distanza per non rischiare di essere arrotati da quelle cinghie ballonzolanti che trasmettevano il moto. Allora si faceva a gara per scegliere il posto migliore sui vari muretti, per avere una più ampia panoramica. Trascorrevamo ore a guardarla e a seguire quei ritmi cadenzati di alimentazione e quel castigo di macchina che faceva un fracasso infernale.

I carretti carichi di covoni di grano erano tutti in fila giù per Via delle Alpi e su verso il casélo; talvolta anche giù per la Pontàra, dove  tutti aspettavano pazientemente  il proprio turno. Nelle strade c’era vitalità e allegria. La trebbiatrice rimaneva in paese all’incirca una settimana, in base al lavoro che doveva fare. Quando poi partiva, rimanevano a terra delle scorie di frumento, che qualche famiglia provvedeva a pulire, così ne approfittava per darle alle bestie di casa. L’odore della pula e della paglia riempivano per giorni tutto ciò che stava lì intorno e la polvere si depositava in ogni angolo. Il frumento veniva portato poi nelle aie e steso ogni giorno al sole per esser essiccato. La paglia veniva riconsegnata al proprietario che l’usava per fare il letto alle bestie.

La fase successiva era recarsi  al mulino dei Michele per far macinare il grano, quindi si portava a casa la farina in sacchi di canapa per poi riporla nelle madie di legno. I soentrìni i se doparàva par far la fugassa o i bevarùni par le vache. I soéntre, invesse, i ghe li dava ai mastci.  



ASTICO TAL - VALLE DELL'ASTICO

 






200 metri più a valle del citato "Hotel Astico" (vedi precedente post) e più precisamente in località "Bellasio" di San Pietro in Valdastico, negli anni 1916/17/18 fu allestito dall'esercito imperiale Austriaco un "Ospedale da campo" sotto la direzione del dott. Leopold Strauss coadiuvato dal cappellano militare Matthias Bader (direttore anche dell'Hotel Astico) tutti e due appartenenti all'J.R. n. 14 Hessen di Linz (alta Austria).
Altra foto in località "Bellasio" nella primavera 1918 vediamo la piantagione delle patate da parte degli imperiali. Dopo una comunicazione del 22 novembre 1917, le tre armate austro-ungariche stanziate nel Veneto furono informate che non avrebbero più ricevuto rifornimenti dall'interno dell'Impero, dove anche la popolazione civile soffriva la fame, ma che dovevano sfruttare le risorse dei territori occupati per sostentamento delle proprie truppe.

SNOOPY


 

lunedì 22 novembre 2021

Móneghe, fogàre, flasse e nane bobò

【Gianni Spagnolo © 21M13】

Siamo ossessionati dal controllo, dobbiamo averlo assoluto di ogni situazione, anche la più insignificante. Dicono che la temperatura globale stia salendo eppur noi ci diamo da fare a isolare le case come mai s’è fatto a memoria d’uomo. Vabbè che d’estate il condizionatore deve andare a manetta, ma siamo sicuri che la caccia all’ultimo spiffero sia così salutare?

L’ospite più presente nelle case de stiàni era proprio lo spiffero. Passava dalle finestre mal combinate, dalle porte con le sfése che ci passava un gatto, dalle tavole del solàro rattrappite dal tempo e da tanti altri pertugi che erano anche le vie di comunicazione di una nutrita serie di animaletti da due a  otto e più zampe. Il fogolare o la stufa della cucina erano poi una potentissima pompa di calore ante litteram, in quanto aspiravano l’aria dall’esterno e la veicolavano su per il camino. Sì, perché la gran massa d’aria calda che usciva dal camino, da qualche parte doveva pur entrare. C’entrava senza problemi anche a porte e finestre chiuse, dato che i camini tiravano bene anche con la casa sprangata. Ne ha sperimentato la realtà chi si è piccato di mantenere un fogolare in una moderna casa sigillata. 

Comunque sia, il ricambio di aria nelle case de stiàni era l’ultimo dei problemi, era garantito dallo stato dell’arte della tecnologia costruttiva d’allora. Va da sé che l’efficienza energetica era ben al di là da venire, con il fogolare che rendeva neanche il 15% dell’energia fornita dalla legna e la gran massa d’aria che circolava indisturbata. Non stupisce pertanto che d'inverno, l’unico ambiente caldo e, si fa per dire, confortevole, fosse la stalla. Il comfort interno delle case d’inverno era perciò un problema, dato che l’unico ambiente riscaldato era la cucina. Non mancavano tuttavia spazi di autentica libidine che oggi si possono appena immaginare. Già il maggior salto di temperatura faceva apprezzare di più le differenze, ma c’erano tecnologie primordiali che, nella loro semplicità, assolvevano al riscaldamento in maniera magistrale.

Infialarsi sotto le coperte in una gelida sera d’inverno, dopo aver tolto la mónega e la fogàra dal letto, era un piacere difficile da descrivere e ormai irripetibile. Quel letto panciuto era stato preparato tempo prima, infilando la mónega a separare le lenzuola di sotto da quelle di sopra e posando la fogàra sulla banda che ricopriva la parte piana inferiore di quella specie di slittone ellittico di legno.

La fogàra era solitamente un contenitore di ferro ricavato da un elmetto militare, residuato bellico, con applicato un manico fatto spesso da una cana de stciòpo e dei piedini rivettati per tenerla gualiva. In essa venivano messe le braci tolte dalla stua o dal fogolare con la paletta e ricoperte con un po’ di cenere per tegnérle copà dó. La gestione del fuoco serale era finalizzata a questo rito, dato che bisognava star ténti che no vae dò le bronse. La mònega era un argagno ingombrante di legno che veniva interposto fra il lenzuolo inferiore e superiore del letto per ospitare la fogàra e creare una sorta di fornello riscaldante quel piccolo ambiente, che perciò diventava in breve un nido rovente,  ma asciutto ed accogliente, capace di sciogliere ogni incrutimènto e propiziare un sonno ristoratore. Il salto di temperatura fra l’ambiente gelido e quel confortevole giaciglio era tale che si fosse inizialmente avvolti e quasi storditi da quel torrido abbraccio, che presto si mitigava trasformandosi in comfort assoluto. Ovviamente bisognava prima estrarre la fogàra e togliere la mónega, altrimenti sarebbero stati dolori. Era buona norma mettere la fogàra fuori dalla porta della camera, per evitare le fatali esalazioni di ossido di carbonio delle braci non ancora spente del tutto; anche se le sfese per la circolazione dell’aria erano talmente tante che il pericolo era relativo. Si scaldava dunque il letto, non la stanza, con quell’economia della necessità che informava ogni azione.

Feci in tempo a sperimentare questo rito, prima che s’imponesse la flassa a fare lo stesso servizio, ma con procedure più semplici e sicure. Sicure si fa per dire, perché le flasse dei nonni erano di metallo e dovevano essere avvolte in un panno per evitare scottature. Poi talvolta spandevano pure, perché le guarnizioni erano rudimentali e riciclate dalle cameredarie delle bici. Biognàva star ténti, ciò, ancamassa! 

Finché arrivarono le flasse di gomma, con la superficie molesìna e zigrinata per evitare le scottature. Fulcro delle operazioni rimaneva sempre la fornéla, che in questo caso forniva l’acqua della cassa, invece delle braci. Mentre però la fogàra, qualora il letto fosse occupato da più persone, provvedeva un servizio allargato e piuttosto democratico, la flassa era più esclusiva e privata, dato che riscaldava solo l’area ristretta su cui era posizionata. Perciò bisognava alternarla prima da testa e dopo da pìe, altrimenti la scaldava a tòchi; inoltre durava poco e la mattina te ristciavi de catàrte on bloco fredo in fondo ai pìe.  Qualora andasse condivisa era poi un problema: robàrse la flassa era un gioco ricorrente fra fratelli, e chi che perdéa el dorméa giassà.



Una "flebo virtuale" fa sempre piacere...

Ogni tanto capita che qualcuno faccia un apprezzamento per il lavoro che porta avanti il Blog da più di otto anni con cadenza giornaliera. 

Non è facile tener vivo questo piccolo strumento d'informazione ed intrattenimento; ci consola quindi che ci sia chi lo riconosca e ci fa piacere che la sua consultazione sia diventata per molti una specie di rito quotidiano. 

Ringraziamo perciò Diego che ci ha inviato una "flebo" d'incoraggiamento, che ci rincuora.

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Il caffè è un gesto, un rito, una pausa per tirare il fiato in mezzo al logorio, per non dire le legnate, della vita di tutti i giorni.

Il Vostro blog è come il caffè. Sai che senza non muori, ma quando non c'è senti che ti manca.  
Puoi sentirti più o meno coinvolto, sai che a quell'incontro, a quella festa, a quell'evento non ci andrai mai perché sei troppo distante, ma ti fa piacere vedere che la Valle è viva e un po' ne fai  parte anche tu, anche se ci passi sempre più raramente.
Capisci che dietro a certe notizie fredde e asettiche c'è invece  tanto dolore, gioia, c'è la dignità e la fatica dei nostri avi e l'entusiasmo di chi  cerca di creare un  futuro a questa terra.
Io spero che questo blog, sia per noi che leggiamo, che per chi lo crea, una fonte di benessere dell'anima. 
So che è un lavoro duro trovare materiale e aggiornarlo continuamente, ma vi assicuro che il vostro impegno porta tanta serenità in chi vi legge.
So per certo che il bene fatto in un modo o in un altro torna indietro; a noi stessi o ai nostri cari.
Spero che questa mail vi sia di augurio  o di conforto come lo è il blog per me.

Cordiali saluti

Diego Zordan 
(dela Margherita de Damari)


Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...