giovedì 30 settembre 2021
Il nuovo Ponte al Maso
Contra' Costa - fontana con Nautilus
Poteva la Contra' Costa essere da meno dell'altare di Sant'Antonio? Kekko, l'uomo del particolare, ha detto no! 😊
Facciamo allora che quello dell'altare di Sant'Antonio è il primus interpares ok? 😉
mercoledì 29 settembre 2021
El portego dele scole
martedì 28 settembre 2021
Tipi da spiaggia
Da qualche tempo abbiamo anche i piccioni...🤣
lunedì 27 settembre 2021
Nasobie
Bellezze alla fonte
domenica 26 settembre 2021
Un foglietto di cent’anni
“La Domenica”, il foglietto che troviamo in chiesa e che ci aiuta a seguire la celebrazione domenicale, compie 100 anni! Nel 1921, il beato don Giacomo Alberione, presentò il foglietto come un bollettino parrocchiale adatto a tutte le parrocchie. Conteneva delle rubriche, alternate da fatti ed esempi educativi: articolo di fondo conforme ai bisogni più sentiti nei diversi tempi e circostanze; la vita di Gesù; il Papa; note di economia domestica; galateo; igiene; articoli di argomento vario.
Il progetto prevedeva di uscire ogni settimana o almeno ogni quindici giorni; la fondazione conosciuta come Scuola Tipografica Pia Società San Paolo, fu riconosciuta come tale dalla Santa Sede. Grazie alla generosità di alcuni benefattori la fondazione si stabilì in locali di proprietà e acquistò nuove macchine tipografiche per la somma di lire 550.000. Erano tempi difficili, ma pieni di fede ed entusiasmo, così il 1° settembre 1921, uscì il primo numero de “La Domenica” all’inizio quindicinale. Il nuovo bollettino veniva raccomandato ai parroci come “un cooperatore assai efficace nel loro ministero pastorale.” Il successo fu immediato, in breve tempo il foglietto fu conosciuto e stimato in tutta Italia diffondendosi in quasi tutte le parrocchie. Oggi, rileggendo i numeri di quegli anni, constatiamo immediatamente come il mondo, la società e la Chiesa siano cambiati.
Per chi conosce “La Domenica” com’è oggi, è chiaro che all’inizio il foglietto era tutt’altra cosa, ora possiamo trovare le letture del giorno, il Vangelo, le preghiere dei fedeli e alcune parti importanti della Messa. In prima pagina le riflessioni scritte da un sacerdote, ogni domenica diverso, ci permette di entrare e capire i testi con poche e semplici righe, ma sempre esaurienti; nell’ultima pagina, la vita dei Santi o qualche informazione su celebrazioni particolari o giornate importanti per la Chiesa.
100 anni è un bel traguardo per questo semplice foglietto, che possiamo trovare nelle nostre chiese nei giorni festivi e se prendiamo l’abitudine di portarcelo a casa e leggerlo con calma, potremo scoprire che può esserci d’aiuto per comprendere meglio la Parola e metterla in pratica.
(Informazioni tratte dal foglietto di alcune domeniche fa)
Lucia Marangoni
Nell’immagine: a destra uno dei primi numeri de “La Domenica”, a sinistra i giovani della Scuola Tipografica al lavoro; di seguito l’evoluzione negli anni.
La pagina della Domenica
26 settembre 2021
In quel tempo Giovanni disse: a Gesù «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, doveil loro verme non muore e il fuoco non si estingue. Ognuno infatti sarà salato con il fuoco. Buona cosa è il sale; ma se il sale diventa insipido, con che cosa gli darete sapore? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri»
Il brano evangelico di questa domenica si apre in modo improvviso presentando in primo piano sulla scena Giovanni che si rivolge a Gesù parlando alla prima persona plurale, dunque a nome del gruppo dei discepoli. Gesù ha appena tenuto il discorso sul farsi ultimo di tutti e servo di tutti da parte di chi volesse essere il primo nella comunità, ha appena parlato di accoglienza (Mc 9,35-37), e Giovanni, dando prova di quella che un esegeta ha chiamato “una sordità assordante”, esibisce come un vanto davanti a Gesù l’impresa di aver tentato con insistenza e ripetutamente di impedire a uno sconosciuto di cacciare dei demoni perché lo faceva nel nome di Gesù, ma non facendo parte del gruppo dei Dodici (Mc 9,38). I discepoli hanno appena ascoltato parole sull’accogliere e compiono gesti di esclusione e rifiuto. Giustificati, nelle parole di Giovanni, dal fatto che quest’uomo usurperebbe il nome di Gesù. Ma dalle parole di Giovanni emerge anche un’altra motivazione. Giovanni dice che quest’uomo “non ci seguiva” (Mc 9,38). Dove la sequela è intesa non solo in rapporto a Gesù, ma ai discepoli stessi. I quali mostrano così la pretesa di impadronirsi della comunità, di farla loro, di rendersene signori, di renderla una loro personale impresa. Rischio sempre presente nelle vite comunitarie da parte di chi sente di poter avanzare titoli di qualche tipo. Ma io penso che dietro alle parole di Giovanni ci sia anche un’altra motivazione. Non detta, anzi, indicibile, nascosta. I discepoli si sono appena rivelati incapaci di scacciare un demonio da un ragazzo posseduto da uno spirito muto e sordo (Mc 9,14-29; soprattutto la dichiarazione di impotenza del v. 28: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”). E questo è avvenuto a loro che seguono Gesù e costituiscono la sua comunità. Ebbene, costoro adesso vedono che uno sconosciuto riesce là dove loro hanno fallito. Emerge la dinamica invidiosa, anch’essa una piaga tipica delle vite comunitarie e in genere delle vite associate. L’invidia è una passione sociale perché abbisogna sempre di altri o almeno di un altro. L’invidia si chiede: perché lui sì e io no? E vedendo l’impossibilità per sé di essere o di fare come l’altro, ecco che essa cerca di proibire all’altro di essere ciò che è o di fare ciò che fa. Se noi non siamo stati capaci di scacciare un demonio e costui, che nessuno sa chi sia, ci riesce, noi possiamo abbassare lui al nostro livello, possiamo impedirlo, possiamo dirgli che non può fare ciò che fa. L’invidia nasce sempre da un’impotenza. L’invidioso dice: restando me stesso, io voglio ciò che tu hai e che tu sei, e che hai e sei in virtù del fatto che tu sei tu e non me. Così, l’impotenza da cui scaturisce l’invidia diventa l’impossibile del suo scopo. All’origine dell’invidia vi è l’impotenza, come fine vi è un impossibile; il percorso non può che essere una sofferenza indicibile. L’invidioso, in verità, non accetta di essere ciò che è, rifiutando di accogliere i propri limiti. L’invidia vede nella riuscita dell’altro una diminuzione di sé; ciò che l’altro ha o è viene sentito come sottrazione a sé e come impossibilità di raggiungere lo stato in cui l’altro è installato. L’invidia poi si nutre anche di attrazione quasi irresistibile nei confronti dell’oggetto invidiato e verso cui si prova anche avversione e odio. Sì, in Giovanni sembrano emergere elementi significativi di un vissuto interiore di frustrazione e di invidia.
Ma Gesù stronca sul nascere questi sentimenti che nelle parole di Giovanni si rivestono di sentimenti pii verso Gesù, di difesa del suo santo nome, e di zelo e di rigore verso chi è fuori dal giro della comunità. In verità, dietro sembra esserci anche la pretesa di essere gli unici detentori di quel nome, di averne l’esclusiva e usarlo come un potere e un diritto. Del resto, è strano anche il modo in cui Giovanni si presenta a Gesù a dirgli ciò che lui e i discepoli facevano. Non gli chiede nulla, ma solo gli racconta un episodio: perché? Con quale scopo? La risposta di Gesù che proibisce di proibire, mostra che Gesù non si sente minimamente minacciato dalla presenza di un uomo che fa riferimento al suo nome per compiere il bene. Con la sua risposta, Gesù chiede ai discepoli di aver fiducia, di non aver paura. Per lui non è decisivo il criterio dell’appartenenza al gruppo dei Dodici per l’abilitazione a compiere il bene nel suo nome. È talmente aperta la sua concezione della comunità che arriva a dire che chi non è contro è per (Mc 9,40). La non opposizione è già vista da Gesù come aperto favore. Criterio posto da Gesù è il parlare bene o male di lui: “Chi nel mio nome compie il bene non può subito dopo parlare male di me” (cf. Mc 9,39). Dunque, questi non sarà un detrattore della via percorsa da Gesù, del cammino cristiano, un bestemmiatore del nome. Gesù mostra fiducia nella potenza del nome come forza benefica che agisce ben oltre i confini comunitari. Il nome ha una forza benedicente che influenza chi lo pronuncia, il quale non potrà, almeno subito, parlar male di Gesù. Così, con poche parole, Gesù capovolge la logica e lo sguardo dei discepoli, di Giovanni in specie: dal noi contro gli altri, si passa agli altri che, non essendo contro di noi, sono per noi. Di più. Gesù mostra i discepoli come beneficiari della bontà e dei gesti di carità degli altri (“Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome …”: Mc 9,41). Insegnando così a cambiare sguardo: a vedere se stessi non come centro del mondo a cui gli altri si devono piegare, ma come destinatari del bene che altri fanno loro. Ecco dunque che Gesù presenta gli altri non come persone da cui guardarsi, ma come coloro che possono testimoniare l’amore e la gratuità di Cristo ai seguaci di Cristo stesso. Ciò che viene chiesto da Gesù è un mutamento dello sguardo. Passare dallo sguardo invidioso allo sguardo capace di gratuità e amore. Invidiare (in-videre) significa proprio guardare torvo, guardare di traverso, ma significa in profondità non vedere più correttamente né la realtà né gli altri né se stessi. Significa avere una visione alterata della realtà, dunque anche della comunità e della vita. Dal nostro testo emerge con forza una dimensione di appartenenza e identità del gruppo dei discepoli giocate in maniera esclusiva ed escludente. E affiora immediatamente, infatti, anche la dimensione dell’inimicizia: i discepoli, di fatto, vedono nell’esorcista sconosciuto, un nemico. Da punto di vista ermeneutico possiamo affermare che il rapporto chiesa-nemico si situa all’interno di una fondamentale polarità. Da un lato, se la chiesa vive la radicalità evangelica e lo spirito delle beatitudini, non può non conoscere persecuzioni e inimicizie a causa del Nome di Cristo; dall’altro, la stessa radicalità evangelica impedisce alla chiesa di fabbricarsi dei nemici, di entrare in regime di inimicizia con gli uomini non credenti o di dar nome di nemico ad “altri”, a categorie di persone o a gruppi umani che semplicemente sono segnati da diversità o estraneità. Sul problema dell’inimicizia la chiesa gioca la sua capacità di assumere e gestire, positivamente o meno, il problema dell’alterità e della differenza al proprio interno e di fronte a sé.
Il discorso sullo scandalo (Mc 9,42-48), che segue il dialogo di Gesù con Giovanni e i discepoli, di fatto indica il rischio per il gruppo dei discepoli, quindi per la chiesa stessa, di divenire scandalo e inciampo per altri. In particolare per “i piccoli che credono in me” (Mc 9,42) e che non sono i bambini, ma i credenti dalla fede debole, dalla fede semplice. Per evitare lo scandalo il cristiano ricordi che la Potenza e la Presenza del Signore non sono suo monopolio, ma sono suscitate dallo Spirito e noi, afferma il Vaticano II, “dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (GS 22). L’espressione “nel modo che Dio conosce” dice che nemmeno la chiesa può pretendere questa conoscenza, pena il ridurre Dio a idolo e il divenire occasione di scandalo, cioè inciampo e ostacolo al cammino dell’uomo verso Dio. Certamente la prima accezione delle parole di Gesù sullo scandalo è comunitaria, e intravede la possibilità che un corpo comunitario si opacizzi al punto da non essere più trasparenza della presenza di Cristo. Ma tali parole hanno anche una valenza personale: occorre vigilare sul proprio agire (mani: Mc 9,43), sul proprio comportamento (piedi: Mc 9,45) e sulle proprie relazioni (occhi: Mc 9,47) per non divenire un ostacolo alla vocazione e al cammino di fede dell’altro.
Il discorso di Gesù, che si svolge sul registro del paradosso, afferma che occorre il coraggio della rinuncia a ciò che può ostacolare l’ingresso nel Regno, ingresso che avviene non a partire da un di più o da un pieno, ma da un vuoto, da una mancanza, da una povertà. Abbiamo qui l’esigenza di un’ascesi, di una lotta, di un duro combattimento contro le tendenze che portano l’uomo a un comportamento e una relazionalità antievangelici. Tagliare e cavare (lett. “gettare”) non sono disumane direttive da applicarsi letteralmente, ma indicazioni realistiche di una lotta da combattere ogni giorno per purificare il proprio cuore e vivere il vangelo con maggiore libertà. C’è un perdere la vita che è essenziale per trovarla in Cristo (cf. Mc 8,35).
L'angolo della Poesia
La valìsa de cartòn
Fra tanti strafanti, gero sora l’armàro,
ma un dì, gò visto un fià de ciaro…
de quatro strasse i me ga inpienà
e par el mànego i me gà ciapà!
Xè cominsià un viajo longo, longo,
gero in meso ale gambe, dela corriera in fondo..
E dopo in treno i me gà butà
me domandavo… “Dove i me portarà?”
Ma un giorno, dopo tanto girare
in te na nave gò dovesto montàre,
un trabalamento mai sentìo…
me pareva de ‘ndare, vanti e indrìo…
De giorno, de note, par tanti dì,
mi el me paròn, semo sta cussì,
quando finalmente semo sbarcà,
me pareva de èssare tuta sacagnà..
Ma no la gera mia finìa
contarla tuta, no se podarìa,
ancora strada, ancora de viajo,
fra òmeni i se vardàva e i se dava coràjo…
Con un spago i me gavèva ligà
parchè no stavo mia sarà,
e quando che i lo ga tirà via,
la me aventura la gera finìa!
Quela del me paròn cominsiàva,
ala fameja lu sempre pensava,
ma par guadagnarse el bocòn
el gà dovesto partire,
con nà valisa de cartòn!
Lucia Marangoni Damari
Secondo matrimonio dell'anno! Timide riprese...
sabato 25 settembre 2021
Che rabia!
venerdì 24 settembre 2021
Mace moje
【Gianni Spagnolo © 21I22】
A tutti noi sarà capitato di versare dell'acqua su un indumento, notando che la parte bagnata sembra più scura del resto del tessuto. Perché succede? Questo fenomeno è così regolare che la maggior parte di noi lo ignora e non si fa domande, perché lo vive quotidianamente senza pensarci, particolarmente quando siamo sudati e non abbiamo tanta voglia di approfondire l'argomento.
Quasi tutti i materiali della vita quotidiana diventano più scuri quando si bagnano; è un fatto, ma perché accade?
Supponiamo di indossare una camicia blu. Cosa ci fa sapere che l'indumento che indossiamo è blu? Il colore blu è dato dall'assorbimento delle onde elettromagnetiche da parte del materiale del tessuto. Le radiazioni solari che colpiscono la camicia sono radiazioni elettromagnetiche costituite da un insieme di lunghezze d'onda distinte. La luce visibile solo è una piccola parte dell'intero set, noto come spettro elettromagnetico. Colori diversi corrispondono a lunghezze d'onda diverse nella parte di luce visibile di quello spettro. Dopo aver colpito la camicia, le onde con lunghezze d'onda che non si trovano nella regione di 380–500 nanometri, dalla parte di luce visibile, vengono assorbite dal materiale della maglietta. Le onde rimanenti (di lunghezza d'onda compresa tra 380 e 500 nanometri) tornano ai nostri occhi venendo rilevate come blu.
Nel caso il tessuto sia bagnato, la luce deve invece viaggiare attraverso un percorso diverso. La situazione con la camicia sudata è infatti questa: La luce colpisce la superficie dell'acqua e subisce la rifrazione (perché l'indice di rifrazione dell'acqua è maggiore di quello dell'aria). Viaggiando ulteriormente, subisce la riflessione dopo aver colpito il tessuto. Una parte della luce viene assorbita e la luce rimanente (con la lunghezza d'onda della regione blu) va oltre. Al raggiungimento del confine dell'acqua, se l'angolo di incidenza è maggiore dell'angolo critico, la luce subisce la Riflessione Interna Totale. Quindi, in sostanza, rimbalza sull'acqua.
L'intensità della luce diminuisce quando viene assorbita, dunque quando la luce colpisce la superficie della camicia, la sua intensità si riduce. Rimbalzando sulla superficie dell'acqua, si rifrange ulteriormente (se l'angolo di incidenza del raggio luminoso è inferiore all'angolo critico) e raggiunge gli occhi. Ecco che gli occhi interpretano questo come la versione più scura del blu.
giovedì 23 settembre 2021
Inbroia l'ocio
Il muro dei Canuts com'è oggi... |
.. e com'era prima. |
【Gianni Spagnolo © 21I21】
Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi.
Possiamo prendere a prestito da “Il Piccolo Principe” questa poetica affermazione, per evidenziare l’inganno cui sono talvolta soggetti i nostri occhi nell’interpretare la realtà. In verità gli occhi inquadrano fedelmente la realtà, ma è il nostro cervello che elabora le immagini adottando talvolta riflessi condizionati che la distorcono. Lo vediamo nelle ruote che girano al rovescio per la persistenza dell’immagine sulla retina o nei cosiddetti “trompe-l’œil”, gli ingannatori dell’occhio per definizione.
Lione è una delle città più grandi di Francia, ma conserva alcuni aspetti romantici tipici dei paesini. Caratteristica è la presenza di oltre 150 murales o trompe-l’œil sparsi in giro per la città, alcuni dei quali sono talmente maestosi e realistici da ingannare anche l’osservatore più attento fino a quando non decide di avvicinarsi e toccare con mano. Fin dagli anni ’70, Lione è stato infatti un centro per i murales realizzati con la tecnica a trompe-l’œil. Essa consiste nel raffigurare un soggetto in modo sufficientemente realistico, da far sparire alla vista la parete su cui è dipinto. Ad esempio, il trompe-l’œil trova il suo campo nella rappresentazione di finestre, porte o atri, per dare l’illusione che lo spazio interno di un ambiente sia più vasto.
In foto vediamo Il muro dei "canuts" (tessitori di seta): questo affresco di 1.200 m², dipinto a trompe-l'oeil, è il più grande d'Europa. Il muro, originariamente vuoto, ora dà un'idea della vita quotidiana a Lione. L'affresco illustra tutto ciò che Lione ha conosciuto di celebre. Si vedono 30 volti di uomini e donne, originari di Lione, che hanno lasciato il loro segno nella storia francese, come santa Blandina, Paul Bocuse, Juliette Récamier, il fisico Ampère, Saint-Exupéry e altri ancora, diventando una delle principali attrazioni della città.
Mi piacciono i trompe-l’œil, li considero un’espressione artistica che arriva a dominare la realtà dandole un’anima nuova o riportandola alla sua autenticità. Se i murales danno vigore a pareti altrimenti grigie e anonime, i trompe-l’œil riescono a riempirli di vita e movimento, stimolando la fantasia oltre la raffigurazione stessa; invogliano ad entrare dalle porte solo colorate e ad d’incontrare i personaggi raffigurati.
Quattro piccole meridiane e qualche murales erano apparsi timidamente anche da noi, ma recentemente è il muro del parcheggio del Maso che ci sta mostrando l'impatto e la suggestione di un dipinto a tema d'una cerata dimensione, apprezzata opera dell'artista locale Fernando Protto, autore di altre opere in quel di Forni.
Ci sono nei nostri paesi alcune pareti che si presterebbero assai bene, per superficie, posizione e visibilità, ad ospitare dei trompe-l’œil giganti che darebbero colore, allegria e vitalità a quelle case e all’intero abitato. Operazioni che forse non costerebbero neanche troppo, e, se ben progettate, darebbero risultati culturali ed estetici decisamente importanti. Pensiamoci!
mercoledì 22 settembre 2021
Approssimazioni
Sono passati giusto 36 anni dalla morte di Italo Calvino, ma un suo pensiero appare anche oggi di illuminante attualità:
« Il diavolo oggi è l’approssimativo. Per diavolo intendo la negatività senza riscatto, da cui non può venire nessun bene. Nei discorsi approssimativi, nelle genericità, nell’imprecisione di pensiero e di linguaggio, specie se accompagnati da sicumera e petulanza, possiamo riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza, sia interiore sia nei rapporti con gli altri, il diavolo come personificazione della mistificazione e dell’automistificazione. Dico l’approssimativo, non il complicato; quando le cose non sono semplici, non sono chiare, pretendere la chiarezza, la semplificazione a tutti i costi, è faciloneria, e proprio questa pretesa obbliga i discorsi a diventare generici, cioè menzogneri. Invece lo sforzo di cercare di pensare e d’esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l’unico atteggiamento onesto e utile ».
martedì 21 settembre 2021
Co le suocere a le jera tute madone..
Le suocere, si sa, non hanno mai goduto di buona stampa, ma, almeno nel titolo, stiàni erano tute madòne. Talvolta erano chiamate anche parone. Parimenti il suocero era il missiere, oppure il paron.
La me madona, la me parona, el me missiere, el me paron, .. appellativi che oggi farebbero gridare al becero tradizionalismo patriarcale, ma che arrivano da lontano, utilizzando i titoli di rispetto medievali di messere e madonna. Altrimenti sottolineavano i rapporti gerarchici in seno alla famiglia patriarcale, dove i vecchi erano titolari dei beni e arcigni custodi della borsa.
Fatto sta che stiàni pare non avessero alcun problema a chiamare con lo stesso appellativo la madre della sposa e quella del Signore. Forse perché erano in molti a smadonnare e così potevano infierire sulla parte laica confidando sulla tolleranza del cielo. 😉
lunedì 20 settembre 2021
Dove ci mettiamo?
【Gianni Spagnolo © 21I8】
Non è solo questione del colore della pelle o della parte di mondo che ci ha visto nascere, ma anche del credo religioso in cui ci siamo formati, dei valori condivisi della società cui apparteniamo, dei suoi miti fondativi e delle vicissitudini storiche vissute. Ragionare per stereotipi è facile e comodo, ma certamente si perde la complessità della questione, che richiede una sempre maggiore sensibilità per coabitare in questo mondo globalizzato.
Misurare la distanza fra le diverse mentalità e culture è dunque impresa ardua, considerato che esistono ampi margini di contatto, sovrapposizione e contaminazione. Hanno provato a farlo due scienziati politici: Ronald Inglehart e Christian Welzel, costruendo una mappa culturale del mondo. Si tratta d’un grafico a dispersione creato per identificare i valori culturali strettamente collegati che variano tra le società in due dimensioni predominanti:
- In ordinata (asse Y): i valori tradizionali contro i valori secolari-razionali (tradizione/secolarismo-razionalità);
- In ascissa (asse X): la sopravvivenza contro valori di autoespressione. (sopravvivenza/libertà).
Le iscrizioni sono solo in inglese, ma consentono comunque di capirne il funzionamento.
Spostarsi verso l'alto su questa mappa riflette il passaggio dai valori tradizionali a quelli laico-razionali e spostarsi verso destra riflette il passaggio dai valori di sopravvivenza ai valori di espressione di sé. Non è perciò unicamente la condizione socio-economica il fattore che determina l'ubicazione di un paese, bensì anche il suo patrimonio storico religioso e culturale. L'analisi dei dati del World Values Survey di Inglehart e Welzel costruisce una mappa che non è geografica, quanto un grafico in cui i paesi sono posizionati in base ai loro punteggi relativamente ai valori indicati in ascissa e ordinata. I cluster dei vari paesi riflettono perciò i loro valori condivisi a prescindere dalla loro contiguità geografica.
I valori “tradizionali” sottolineano l'importanza della religione, i legami familiari, la deferenza verso autorità, standard assoluti e valori familiari tradizionali. Le persone che abbracciano questi valori rifiutano anche il divorzio, l'aborto, l'eutanasia e il suicidio. Le società che abbracciano questi valori hanno alti livelli di orgoglio nazionale e una visione nazionalistica.
I valori “secolari-razionali” hanno le preferenze opposte a quelli tradizionali. Le società che abbracciano questi valori pongono meno enfasi sulla religione, sui valori familiari tradizionali e sull'autorità. Il divorzio, l'aborto, l'eutanasia e il suicidio sono considerati relativamente accettabili.
Non si tratta peraltro di ambiti stagni, dato che spesso si compenetrano, particolarmente nel passaggio dai valori tradizionali a quelli secolari-razionali che caratterizzano la modernità, dove si assiste alla sostituzione della religione e della superstizione con la scienza e la burocrazia. I valori di sopravvivenza pongono invece l'accento sulla sicurezza economica e fisica. Sono collegati con un orizzonte etnocentrico e bassi livelli di fiducia e tolleranza. I valori di espressione di sé danno invece la massima priorità al benessere soggettivo, all'espressione di sé, alla qualità della vita e alla tolleranza. Il passaggio dalla sopravvivenza all'espressione di sé rappresenta anche il passaggio dalla società industriale a quella società postindustriale, oltre ad abbracciare valori democratici.
Va da sé che si tratta di una rappresentazione necessariamente sommaria e piuttosto discrezionale, però misura nel suo insieme la distanza tra le diverse macro-culture in cui si articolano le comunità umane. Intanto potrebbe essere un’utile esercizio individuare dove personalmente ci collocheremmo nel grafico, così, tanto per farci un selfie.
L'angolo della Poesia
“Sensa de ti”
Un baso solo e un strucòn…
ti te ve via, sensa destinassiòn,
i me oci, i to oci che lagrimàva..
che dura par chi te lassàva!
Co vo in leto, ala sera
sempre diso su na preghiera,
gò spetà tanto, ma tanto
par lèsare le to righe su un folio bianco!
Quel tòco de carta, lo tegno sul cuore,
te ste ben, ringràssio el Signore,
insieme ai tusi e a me madòna,
tute le sere diso su la Corona!
A vardo i nostri tusi, i pare spaurà,
giorno e note, sensa so pupà…
slevàrli da sola, xè proprio duro...
co li go in gàia,
ghe parlo de ti, te pui star sicuro!
Xè tanta fadìga, sensa de ti,
mi te go in mente, note e dì,
no vedo l’ora
che i me oci possa ancora vardàrte,
intanto porto passiènsa,
no me stufarò mai de spetàrte!
Lucia Marangoni Damari
domenica 19 settembre 2021
La comodità non è tutto
Ho passato un'ora in banca con mio padre, perché ha dovuto trasferire dei soldi. Non ho resistito a me stesso e ho chiesto...
Papà, perché non attiviamo il tuo internet banking?
Perché dovrei farlo, ha chiesto.
Beh, non dovresti passare un'ora qui per cose come il trasferimento.
Puoi anche fare la spesa online. Sarà tutto così facile!
Ero così entusiasta di farlo entrare nel mondo del Net Banking...
Mi ha chiesto: Se lo faccio, non dovrò uscire di casa.
Sì esatto, gli ho risposto. Gli ho detto anche come gli alimentari possono essere consegnati sulla porta di casa e come Amazon può consegnare tutto!
La sua risposta mi ha lasciato basito.
Mi ha detto:
Da quando sono entrato in questa banca oggi, ho incontrato quattro miei amici, ho chiacchierato un po' con lo staff che ormai mi conosce molto bene.
Sai che sono solo e questa è l'azienda di cui ho bisogno. Mi piace prepararmi e venire in banca. Ho abbastanza tempo, è il tocco fisico che desidero.
Due anni fa mi sono ammalato, il proprietario del negozio dal quale compro i frutti, è venuto a trovarmi e si è seduto vicino al mio capezzale e ha pianto.
Quando tua madre è caduta giù qualche giorno fa mentre faceva la passeggiata mattutina, il nostro fruttivendolo locale l'ha vista e ha subito preso la sua macchina per portarla a casa di corsa, perchè lui sa dove vivo.
Avrei quel tocco "umano" se tutto diventasse online?
Perché dovrei volere che tutto mi venga consegnato e che mi costringa a interagire solo con il mio computer?
Mi piace conoscere la persona con cui ho a che fare e non solo il venditore. Crea legami di relazioni.
Anche Amazon consegna tutto questo?
La tecnologia non è vita...
Trascorri del tempo con le persone...
Non con i dispositivi...
Tratto dal web Autore sconosciuto
La pagina della domenica
19 settembre 2021
In quel tempo Gesù con i suoi discepoli partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato»
L’evangelo odierno (Mc 9,30-37) mostra un Gesù preoccupato della formazione dei suoi discepoli. Lo stesso spostamento dalla casa in cui aveva conversato con i suoi discepoli (Mc 9,28-29) per rimettersi nuovamente in cammino, Gesù vuole che avvenga in incognito “perché insegnava ai suoi discepoli e diceva loro …” (cf. Mc 9,30-31). Nella casa i discepoli lo avevano interrogato sulla loro incapacità di scacciare il demone muto e sordo che possedeva il ragazzo il cui padre si era rivolto a loro per liberarlo (Mc 9,14-29). E il testo disegna una sequenza serrata intorno al verbo interrogare: in 9,28 i discepoli interrogano Gesù e sono preoccupati della loro mancanza di potere; poi non osano interrogare Gesù sulle parole che lui aveva appena pronunciato circa il suo destino di sofferenza e di morte (Mc 9,32). Ciò che si tace è ciò che si teme, e Marco annota che essi avevano paura di interrogarlo (9,31). Paura di ciò che può essere dischiuso anche per la loro vita, da quelle parole. Infine è Gesù che interroga i discepoli ed essi tacciono (Mc 9,33). Non solo per paura, ma anche per vergogna, senso di colpa e cattiva coscienza. Annota Marco: “Per via infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande” (Mc 9,34). Sicché Gesù ancora deve insegnare. Si siede, si mette nella posizione del maestro e consegna loro un insegnamento sulla vita comunitaria.
Ma il suo primo insegnamento è sul suo prossimo destino di consegna nelle mani degli uomini e sulla sua morte violenta. Non si tratta di un’informazione, ma di qualcosa che deve essere imparato, perché riguarda da vicino la vita dei discepoli. L’insegnamento di Gesù è pratico: pratico, perché volto alla vita concreta che il discepolo deve seguire; pratico, perché connesso inestricabilmente alla vita che Gesù stesso vive. Che cosa insegna Gesù? Non cose che riguardino altri, ma il suo futuro. Un futuro che diverrà il presente dei discepoli, ciò che dovranno vivere. Facendo della sua consegna a morte un insegnamento, Gesù presenta l’esempio che diventerà norma di vita per ogni discepolo di Gesù e per ogni lettore del vangelo. E qui capiamo anche perché questo insegnamento sia ripetuto. Il passo di Mc 9,31 costituisce il secondo annuncio della passione, morte e resurrezione di Gesù. Queste parole di Gesù dischiudono il suo mistero profondo, il tragitto della sua vita, e costituiscono l’insegnamento per eccellenza che i discepoli devono imparare. Esse sono decisive per la formazione del discepolo. Formazione che trova nell’insegnamento sulla vita di Gesù obbediente a Dio e consegnata agli uomini il capitolo centrale e decisivo. Gesù, in questi insegnamenti sta dicendo che la sua vita consegnata è la regola per il comportamento dei discepoli, è la griglia alla cui luce leggere e porre gli eventi della vita, soprattutto gli eventi dolorosi e di contraddizione. E come sempre avviene nella formazione, questo insegnamento deve essere detto, ridetto, ripetuto. In Mc 8,31 si dice che Gesù “cominciò” a insegnare ai discepoli, qui che Gesù riprende quell’insegnamento che aveva scatenato l’opposizione decisa e risoluta di Pietro (Mc 8,32). Ci sono insegnamenti che richiedono di essere ripetuti, esemplificati, e in ultima istanza vissuti, perché possano fare breccia nelle menti e nei cuori di discepoli sempre lenti a credere. Ed effettivamente un mutamento nella ricezione delle parole di Gesù si verifica già qui. Nessuna reazione veemente, gridata, impulsiva, come dopo il primo annuncio, nessun rifiuto a priori, ma un silenzio che non vuole o non sa comprendere. E più avanti ancora nel cammino di salita a Gerusalemme si specifica dettagliatamente il senso della consegna nelle mani degli uomini che qui è ricordata: “lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, lo sputacchieranno, lo flagelleranno, lo uccideranno e dopo tre giorni risorgerà” (Mc 33-34). Anche allora non vi sarà comprensione da parte dei discepoli: la parola di Gesù comincerà a essere capita a partire dal momento in cui avrà raggiunto il suo punto di eloquenza massima: quando cioè sarà diventata realtà, tragica realtà nella carne di Gesù crocifisso, morto, sepolto e non più presente nel sepolcro il primo giorno della settimana. Insomma, Gesù sta dicendo che la sua vita consegnata è la regola di vita per i suoi discepoli.
Possiamo anche supporre che Gesù ripeta tutto questo per i suoi discepoli ma anche per sé. Soprattutto nel vangelo di Marco dove Gesù, per quanto sappia ciò a cui va incontro, resterà turbato, angosciato e spaventato dal suo cammino verso la croce. Gesù ripete ciò a cui deve acclimatarsi, ripete ciò che deve assumere, ripete gli eventi che lo riguarderanno e che non basta conoscere per saperli anche affrontare. E Gesù appare certo di quanto deve succedere. Se anche si tratta di eventi futuri, il verbo utilizzato per esprimerli è un presente (“viene consegnato”: Mc 9,31), quasi a dire la certezza di questi eventi. Ma esprime queste cose che lo riguardano con lucidità, coraggio e dolcezza. Gesù sta qui insegnando ai suoi discepoli non solo la direzione del cammino, ma anche il come affrontarlo. E tre sono le indicazioni: lucidità, coraggio, dolcezza. Lucidità: niente illusioni, niente sogni, ma realismo. Coraggio: quello che traspare in Gesù, ma che è anche la risolutezza a cui è chiamato il discepolo, la forza che dovrà animarlo. E infine la dolcezza: nessuna amarezza da parte di Gesù; nessuna accusa, nessuna invettiva, nessuna recriminazione, nessuna minaccia o parola violenta verso quanti lo accuseranno. E forse non c’è testimonianza più convincente della sua buona coscienza e della sua giustizia che questa mitezza. Parole aspre e difficili per chi le pronuncia come queste che dice Gesù sono tanto più credibili perché espresse con dolcezza, pace e serenità, senza astio e risentimento. Gesù annuncia un’azione che subirà, anzi un’azione che ne comporta tante altre, sgradevoli, umilianti, dolorose, violente e ingiuste. Ma soprattutto Gesù intuisce che nel suo futuro c’è anche il non poter determinare e controllare gli eventi e l’accettazione di essere consegnato in balia degli uomini. Viene il momento in cui l’affidamento a Dio passa attraverso la consegna nelle mani degli uomini. Consegna dietro cui si profila la morte. Ma dietro quell’annuncio i discepoli intuiscono anche la possibilità della loro morte e questo spiega la loro paura e ritrosia a interrogarlo su quelle parole. Ecco allora che Gesù, di fronte alla paura dei discepoli di porre domande, prende lui l’iniziativa di interrogarli. E così prosegue quell’insegnamento che è momento importante della formazione dei discepoli.
Dal cammino lungo la strada (en tè odò: Mc 9, 33) si passa alla casa (en tè oikía: Mc 9,33), al luogo del confronto e delle spiegazioni. Gesù pone la domanda: “Di cosa discutevate lungo la via?” (Mc 9,33). Il loro silenzio in realtà è eloquente e li smaschera: ciò di cui discutevano è indicibile, perché la discussione verteva su chi di loro fosse il primo e il più grande. Il loro silenzio dice anche la loro vergogna. Chiara, invece è la risposta di Gesù al loro silenzio imbarazzato. Gesù sveglia le menti dei discepoli con un paradosso. Le sue parole operano il passaggio dall’essere il primo all’essere l’ultimo di tutti e il servo di tutti. Di tutti: anche di chi per qualità intellettuali o per efficacia pratica o per capacità spirituali è manifestamente meno dotato. Gesù vuole che la logica delle beatitudini abiti anche il servizio dell’autorità nella comunità cristiana. E rende più chiara la sua volontà con un gesto simbolico. Prende un bambino e lo mette in mezzo, lo abbraccia e accompagna tutto questo con una parola: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,37). Gesù doveva spezzare la logica chiusa e autoreferenziale di discepoli che discutevano su chi di loro fosse più grande e migliore. E li obbliga a cambiare punto di vista portando lo sguardo su un bambino. Attorno al gesto di Gesù che abbraccia il piccolo bambino si crea un nuovo centro: il gesto di tenerezza di Gesù è linguaggio che invita a passare dai toni dell’arroganza, della virilità che vuole imporsi, a quelli della dolcezza e dell’accoglienza. Gesù non rimprovera nemmeno i discepoli per il loro gretto discutere e neppure per averlo fatto nascostamente da lui e neanche per non avergli voluto rispondere quando li ha interrogati. Il suo parlare e il suo agire tolgono loro anche la vergogna di una confessione. Gesù sapeva. E le parole che usa e il gesto che compie riorientano i discepoli raggiungendoli là dove sono: “Se uno vuole essere il primo” (Mc 9,35), e lo fa riorientando il loro sguardo, insegnando loro ad apprezzare anche ciò che normalmente nemmeno vedono e a cui non danno importanza, come un bambino in un consesso di adulti. Così Gesù sta ancora insegnando, sta ancora formando i suoi discepoli e sta formando anche noi che ormai sappiamo che la presenza del Risorto è da riconoscere nel fratello, anche nel più piccolo, in chi non è né grande né primo.
Attimi di Riflessione
Per un uomo a piedi scalzi,
la felicità è un paio di scarpe.
Per un uomo che indossa scarpe vecchie,
è un paio di scarpe nuove.
Per un uomo che ha scarpe nuove,
è un paio di scarpe più belle.
E di certo l’uomo che non ha piedi,
sarebbe felicissimo di camminare scalzo.
Misura la felicità con quello che hai,
non con quello che ti manca.
Potenza del nome
[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...