martedì 1 settembre 2020

Emblemi, marchi e suggelli


Gianni Spagnolo © 200831
Mario Rigoni Stern, per esaltare la frugalità dei costumi dei Sette Comuni e i loro spirito d'indipendenza, scriveva: 
Nel territorio dei Sette Comuni non esistono castelli di nobili, non esistono ville di Signori, né cattedrali di vescovi, per il semplice fatto che la terra è del popolo e i suoi frutti sono di tutti come ad uso antico”.
Affermazione orgogliosa e categorica, ma un po’ tirata. Ampie porzioni di quel territorio erano in antico proprietà di istituzioni ecclesiastiche, di nobili famiglie o della Città di Vicenza e venivano concesse a livello a conduttori locali. I quali godevano sì di una certa autonomia e privilegi, se non altro per l'asprezza dell'ambiente e il presidio dei confini, ma non se ne potevano dire signori. Gli Ezzelini stessi possedevano vasti fondi a Rotzo e prima ancora i Ponzi di Breganze vi tenevano gastaldie. Solo in seguito le condizioni permisero gli affrancamenti e quella gestione collettiva che caratterizzò il nostro territorio per la seconda metà dello scorso millennio. Per quanto a boschi e pascoli tuttavia, dato che la proprietà delle aree a coltivo rimaneva prevalentemente privata.
Qualche famiglia aristocratica, per così dire, ci fu in realtà anche fra i liberi cimbri. Erano nobilitazioni acquisite prevalentemente al servizio militare della Serenissima e concesse sul nome, prive di predicati e prerogative feudali e quindi con nessuna presa sul territorio. Allora, come ora, era nell’animo umano cercare condizioni di distinzione e privilegio anche all’interno delle nostre comunità, come testimoniano i ripetuti tentativi di rendere ereditari i gradi maggiori della Milizia dei Sette Comuni. La Serenissima, poi, dall'alto della sua perspicacia mercantile, in alcune circostanze di penuria di cassa, concedeva la nobiltà a chi vi concorreva previo esborso di centomila ducatiFacoltose famiglie di artigiani e commercianti, anche foreste, vennero così accolte nel Patriziato Veneto. 
Da noi furono solo i Cerato dei Forni, del ramo di Nicolò di Cera, ad ottenere una nobilitazione titolata, diventando Conti Palatini nel 1437 con patenti dell’imperatore Sigismondo del Lussemburgo. Va detto che i Cerato erano una famiglia ragguardevole in zona già da ben prima e risiedevano a Forni, che perciò dovette avere allora un’importanza economica e strategica che oggi si fatica a riconoscergli. Il ramo comitale pare essersi poi diluito nei meandri dell’aristocrazia vicentina, mentre rimase prerogativa dei Cerato nostrani la qualifica di Cittadino Vicentino, che ricorre in ogni atto che li vedeva coinvolti. Era questo un attestato di  nobiltà in quanto ascritti al Consiglio Nobile della città berica e conferiva privilegio, autorità e accesso a cariche pubbliche.
È Giuseppe Nalli, che nella sua “Epitome di nozioni storiche economiche dei Sette Comuni Vicentini” (A. Forni Editore 1895) si sofferma ad elencare le famiglie più distinte del territorio, riportandone anche gli emblemi, i marchi e i suggelli caratteristici. Per la maggior parte non si tratta di blasoni omologati, ovvero ascritti nei registri araldici con patenti regie, ma stemmi e sigilli di cittadinanza, di distinta condizione o anche semplici suggelli familiari. Questi potevano caratterizzare i funzionari pubblici e gli ecclesiastici, come pure i commercianti e gli artigiani più intraprendenti, che così marchiavano i loro beni. Era questa un’abitudine diffusa nei paesi di tradizione germanica, molto meno in quella latina. L’autore raccoglie quelli che ai suoi tempi erano ancora visibili o rinvenibili dalle memorie, mentre di molti altri s'era già perso il ricordo.  
Accanto a quello  dei Cerato, ecco che troviamo alcuni emblemi caratterizzanti qualche famiglia della nostra zona. Il Nalli ne documenta tre: Slaviero (Rotzo), Mattielli e Marangoni (Pedescala). A questi se ne possono aggiungere, per quanto ne so, altri quattro: Leoni (Lastebasse), Rossati (Pedemonte) Spagnolo (Rotzo/San Pietro) e Sartori (Roana++); ma ce ne saranno senz'altro altri, purtroppo dimenticati.
Gli Slaviero furono sempre famiglia eminente a Rotzo e fra le più antiche, annoverando preti, notai, medici, militari e pubblici funzionari nelle loro fila. La croce nera che compare al centro dello stemma suggerisce l'appartenenza a qualche ecclesiastico di quella schiatta. Anche in quello dei Marangoni compare una croce, in capo ad un leone passante. L’emblema dei Mattielli mostra un varco turrito, forse un richiamo alla posizione di Pedescala, con in capo - pare - una fiamma. Anch’esse erano famiglie di antico stanziamento e contarono nei secoli ecclesiastici e pubblici notai. Questi emblemi erano dipinti sulle rispettive abitazioni di Pedescala e ancora visibili all'epoca del Nalli, cioè alla fine del Milleottocento. Quello dei Leoni è uno stemma parlato (cioè che riflette il cognome) che rappresenta anche il comune di Lastebasse, anche se mi pare che quello familiare fosse rosso e d'orientamento opposto, ma c'è solo qualche vago indizio. 
Stemma della famiglia Rossati
del Maso Scalzeri di Pedemonte.
L’emblema dei Rossati, che campeggia ancora sulla vecchia casa di famiglia a contra' Scalzeri, mostra un gallo rampante sopra una colonna contornata da due gigli e sormontato da una stella e ha una
storia che coinvolge i nostri dintorni. Era scolpito infatti sulla roccia che sosteneva il vecchio ponte in legno, detto appunto “Ponte de Rossato” che superava la profonda forra sulla testata della Val Torra. Si narra che vi fosse pure inciso un motto augurale: “Quando questo gallo canterà, la famiglia Rossato cesserà”. I Rossati erano infatti proprietari del grande mulino sull’Astico presso il ponte degli Scalzeri e apparteneva loro anche il Bìsele, finché non lo persero durante la Restaurazione. Erano detti Gallo e Galeni e d'indole combattiva, almeno a giudicare dalle loro vicissitudini settecentesche. Certamente s'identificavano nelle  caratteristiche araldiche proprie del gallo che campeggiava sul loro stemma (1). 

Stemma della famiglia Spagnolo
di San Pietro e Rotzo
Un gallo c’era anche in quello degli Spagnolo, ma non era domestico, bensì cedrone. Compariva in un bassorilievo colorato su una madia in ciliegio confinata in un angolo del granaio di casa nostra. Si riconosceva un urogallo nero, appollaiato su di un ramo bianco biforcuto dal quale pendeva una foglia e sotto tre curve verdi. Lo scudo aveva una vistosa tacca  laterale e sopra il monogramma DSP.
I colori erano assai sbiaditi, salvo quello del ramo, rimasto evidente. Il mobile venne poi demolito da mio padre perché non ci passava più per il nuovo giro-scale e i pezzi venduti ad un antiquario, che li datò del XVII secolo. Allora non ci badai, era l'epoca di far spazio al moderno, ma recentemente ebbi modo di tornaci sopra. Il monogramma m'era evidente: “Domenico Spagnolo Paregin”, che era mio bisnonno, ma anche una nutrita schiera di omonimi avi che si perdeva nei secoli. Il gallo cedrone ha gli stessi significati araldici di quello domestico, evocando in più un’ambiente silvestre; però quel ramo bianco m’intrigava. Piante ad avere la corteccia bianca sono le betulle e i pioppi tremuli. Entrambe crescono da noi ma sono piuttosto sporadiche; come l’urogallo d’altronde. Cosa significava dunque quella combinata? Perché qualche mio avo, in un tempo imprecisato, decise di farsene emblema? Solo recentemente ho avuto un’illuminazione. Gli Spagnolo originano di Albaredo di Rotzo, Aspach in cimbro. Entrambi gli etimi, il cimbro e l’equivalente veneto, evocano il pioppo tremulo. Un evidente richiamo ad un “luogo dei pioppi” quindi. Infatti il fitonimo tedesco “Espe/Aspe”, da cui deriva il toponimo Aspach, indica proprio questa pianta (populus tremula) e potrebbe aver originato un soprannome geografico “Espaner”/Spanier” (dai pioppi) che qualche ignaro prete tedesco potrebbe aver tradotto in “Spagnolo”. Un verosimile precursore di Asbar, dunque, che è il più recente aggettivo cimbro della gente di Albaredo. Il ramo biforcuto indica forse una diramazione familiare. Non so se sia l’interpretazione corretta, ma ha certo senso. 
A Rotzo esisteva un'altra famiglia che fu ragguardevole e forse nobile, ma che col suo trasferimento in città perse i legami col territorio. Si tratta dei Curto, che furono casata eminente nei secoli centrali dello scorso millennio e che poi proseguì a Vicenza come Curti. Anche i Sartori avevano sicuramente un loro emblema, che pare campeggiasse sull'abitazione avita nell'omonima contra' di Roana. Richiamava il giaggiolo di Firenze, secondo la tradizione che li vuole originari di là. Il Nalli lo dice scomparso alla sua ricognizione, ma annota che un ramo di quella famiglia si trapiantò a Bassano e da esso nacque il vescovo Giovanni Battista Sartori, fratellastro del celebre scultore Antonio Canova. I Sartori hanno mille risorse e in fatto di vescovi sono ben attrezzati, perciò gli stemmi a cui attingere non mancano.

1.- In araldica il gallo simboleggia il guerriero prode, vigile e pronto alle armi e, come tale, è solitamente definito dall'attributo ardito. Il gallo simboleggia anche la vigilanza, l'ardire, la vittoria e la salute. Il gallo fu consacrato a Marte, dio della guerra, proprio per la sua natura bellicosa.


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